domenica 2 agosto 2015

A Montemario, Roma, ho visto l'orrore


G. Luca Chiovelli

Il guidatore che scivoli lungo la via della Pineta Sacchetti in direzione Montemario, si troverà, oltrepassato l'ospedale Gemelli, a un bivio: a destra proseguirà per il detto quartiere o per la via Cortina d'Ampezzo e Camilluccia; a sinistra verrà inghiottito dai tunnel della galleria Giovanni XXIII.
Se il nostro viaggiatore è un tipo curioso, o attento ai particolari o, semplicemente, gli sarà sfuggita un occhiata casuale, potrà avvedersi di uno strano manufatto, proprio al di sopra degli imbocchi della succitata galleria, situato su una sorta di terrazzino; un monumento postmoderno, di quelli che il Comune si compiace a inaugurare ogni tanto e che, oggi, da tutti dimenticato, si rivela per quello che è: un rugginoso lascito della stupidità e dell'insensatezza.
Negli anni addietro l'avevo notato molte volte, rimandando, però, la perlustrazione.
Ora, alle soglie dell'agosto, improvvisamente, decido l'avventura.
Lascio l'automobile alle spalle della struttura di cemento sovrastante la galleria; qui, infatti, s'aprono una serie di parcheggi, vasti e deserti. L'asfalto e i marciapiedi sono sbriciolati, il pattume, ereditato da anni d'incuria, si compatta, struggendosi in una nuova entità materica: una sorta d'agente dell'entropia metropolitana, vivo e senziente, e in grado di riprodursi e attaccare ogni organismo ed oggetto che rivendichi un qualsivoglia ordine: ciò che Philip Dick chiamava kipple.


 La vista dalla terrazza: dalle viscere entra ed esce il traffico della galleria Giovanni XXIII


Siamo sulla terrazza, proprio sopra l'imbocco delle gallerie.
Il luogo è fitto di stoppie bruciate dal sole. Un prato di sterpi scarmigliati e spinosi commisto a bicchieri e bottigliette di plastica, confezioni di merendine e gelati, carte luridissime e merde di cane: quasi una nuova flora artificiale. 
Sono circa le quattro del pomeriggio.
Nonostante la vicinanza di due popolosi quartieri, dell'ospedale più grande di Roma nord e di una delle vie più trafficate della capitale, si prova un senso di solitudine schiacciante.
Ma non è la solitudine ristoratrice invocata da Francesco Petrarca nel De vita solitaria, o dal lavoratore che stacca dalla propria occupazione manuale. Questo, al contrario, è un senso di solitudine disperante, che nasce nell'animo dell'uomo quando si rende conto che il luogo in cui vive, il proprio mondo, non è fatto per sé e per i proprio simili.
La canicola smorza ogni suono. Persino i sistri delle cicale ammutoliscono. Si avvertono unicamente due rumori: lo sfrecciare delle auto, poco sotto, incessante, e un cupo bordone sonoro, profondo e cavernoso: probabilmente il borbottio dei macchinari del vicino Gemelli, i cuori meccanici che sorreggono l'intero ospedale, una città nella città.
Questo è davvero un non-luogo: inumano, altro; orribile.


Solo un grande scrittore fantastico è riuscito a trasmettere la verità di tale sensazione. James G. Ballard ne L'isola di cemento. Nel racconto, il protagonista Robert Maitland, un professionista di successo, ha un incidente: dopo essere sbandato con la propria Jaguar lungo una scarpata, si ritrova in un avvallamento incolto e solitario; un terreno ritagliato da veloci passanti autostradali, una sorta di risulta abbandonata dopo enormi lavori di urbanizzazione.
In quel luogo-non luogo Maitland naufragherà, psicologicamente e materialmente; nonostante sia circondato dalle arterie pulsanti della modernità, che pompano continuamente automobili e vite appena sopra di lui. 


Ma lasciamo le vertigini metafisiche per tornare alla fanga del buon senso e dell'attualità.
Questo accrocco sghembo di metallo cos'è?
Un totem  post-apocalittico? Un Minosse idiota che vigila sul traffico inghiottito da tunnel infernali? Un memento del nulla? O una creazione astratta per invogliare i cani a pisciare?
E cos'era in origine?
Avrà significato qualcosa per alcuni urbanisti, architetti, artisti?
Saranno mai esistiti funzionari comunali che hanno vagliato alternative, inoltrato pareri, proposto ubicazioni, targhe, omaggi?
E ci sarà stato un organismo politico che, infine, ha approvato tutto questo?
Un Abu al-Baghdadi comunale a cui addossare una, pur inutile, responsabilità?
Ancora più difficile: c'è mai stato un romano, fra quelli che hanno vantato potere decisionale, a rendersi conto di tale bruttura? A capire che, in tal modo, si strappava alla storia e alla bellezza una parte della città più importante del mondo per consegnarla irreversibilmente alla degenerazione e al degrado?
C'è ancora qualcuno in grado di sentire nell'animo queste atrocità? 
Se mai dovessi stilare un baedeker romano della follia e della depressione questo luogo comparirebbe di sicuro.


A duecento metri dall'orrore, inopinatamente, un'apparizione miracolosa, insperata.
Un mozzicone della campagna romana d'un tempo; le lacerta d'una entrata fondiaria (si è nei pressi dell'antica tenuta di Sant'Agata) oppure un'edicola mariana,  non saprei.
Un residuo prossimo alla cancellazione: Via Trionfale 8062.
Chissà quando capitolerà questo rudere impertinente!
Pian piano, una breccia alla volta.
Magari, dopo una pioggia intensa, deciderà il suicidio, come è spesso avvenuto: come è stato, per esempio, per lo splendido portale barocco delle Mura dei Francesi a Ciampino (vedi il relativo post). Sì, quando il passato si sente trascurato e vilipeso, esso decide il suicidio. 
Un giorno non lontano queste vecchie ossa rovineranno, in una breve nuvola di polvere e pietrisco; la nettezza urbana provvederà a spolverare via il grosso del materiale; l'area verrà, perciò, circondata dai nastri, sotto gli occhi scocciati di qualche vigile. In seguito, quando i nastri scoloriti dal sole e dalla pioggia fluttueranno brancicando ciechi nell'aria, arriverà l'asfaltatura, sollecitata dai solerti comitati di quartiere: e allora si spianerà pure quel moncone invadente: al suo posto una passata di bitume odoroso.
Di questo minuscolo luogo non rimarrà traccia alcuna, se non in qualche riga zelante sepolta in chissà quale libro che nessuno leggerà, ovviamente, perché chi ha interesse, oggi, a leggere cosa eravamo e cosa siamo diventati? Noioso, pedante; uffa! E porta pure jella.
Avverrà questo, è certo, me lo sento nelle ossa.
E tale sarà per Roma. Inutile accanirsi.

3 commenti:

  1. Lo inaugurò Veltroni in pompa magna il manufatto dell'orrore. L'autrice, Giovanna De Sanctis, una dama del giro veltroniano, disse di essere l'erede della scultura barocca. Berniniane - chiosarono i critici - le pieghe del suo bronzo. La farsa del Contemporaneo nello sterpame delle periferie prende un aspetto allucinato. Per equità andrebbe menzionato un altro accrocco che rattrista i passanti diretti al Gemelli, sulla sinistra di Via Pineta Sacchetti, sulla cupola desolata del tunnel. Diverso lo scultore, uguale il risultato.

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    1. Grazie per la preziosa messe d'informazioni.
      Il nome dell'accrocco dalle linee berniniane pare sia "Stele".
      L'altro accrocco sfugge alla mia memoria: indagherò.

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  2. Grazie Teresa, le tue parole riescono a rendere interessante anche 'un orrore'. Mi chiedo come siano stati quei progetti, che non scelti, abbiano fatto preferire quello strano 'coso'.

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