sabato 7 settembre 2013

La mia vita con Paco - un racconto in quattro puntate / 1

Nella storia di Monteverdelegge i cani giocano un ruolo importantissimo, anzi cruciale: senza Barnie, Lilli, Tempesta, l'associazione, semplicemente, non esisterebbe (o forse sì, ma sarebbe tutta un'altra cosa). Per questo - ma non solo per questo - pubblichiamo volentieri questo racconto lungo di Marta Ancona,  biografia di un cane e insieme descrizione di un lungo, appassionante, apprendistato amoroso.
    
Marta Ancona

Caro Paco,
ho sperato fino alla fine che mi avresti risparmiato la dolorosa decisione. Che ci avresti pensato da solo. Invece non è stato così. Hai resistito per farmi piacere? E’ possibile, conoscendoti.
Non dimenticherò mai il tuo camminare incerto, disorientato, sempre più incerto e sempre più disorientato degli ultimi giorni. Non dimenticherò mai il tuo sguardo, occhi neri. La fatica e la paura dello scendere le scale, lo smarrimento di fronte a un compito sovrumano, ma anche la fiducia che avrei saputo aiutarti.
Non dimenticherò mai come ti fermavi a ogni rampa per risalire, ti accarezzavo per farti riprendere fiato e aiutarti a rilassarti, a calmare l’affanno. Il tempo d’attesa si faceva via via più lungo.
La gioia del nostro primo incontro (un colpo di fulmine, da parte mia) non sembrava contenere tutto ciò. Ma anche se fossi stata capace di leggervelo avrei certamente cacciato con un gesto la visione, incredula, in una presunzione di immortalità. E se anche mi ci fossi soffermata, sono certa che alla fine ti avrei scelto lo stesso.
Nei tredici anni che abbiamo passato insieme ho imparato molte cose che proprio non sapevo, ho imparato più cose sulla natura umana dalla tua animalità che da una vita di studi. So da te che cos’è l’abbandonarsi, la fiducia assoluta. Il tuo fidarti di me, il tuo perdonarmi le assenze e anche i tradimenti mi ha sempre spiazzato, non è possibile, mi dicevo, che mi accolga sempre come se non esistesse altra felicità al mondo!.................

Cominciavo così due anni fa un omaggio a Paco. Era morto da qualche settimana, l’emozione dovuta agli ultimi tempi travagliati sussisteva intatta, ma non riuscii ad andare avanti. Non riuscivo a mettere ordine nei sentimenti.
Solo di recente la richiesta di un amico, lontano nel tempo e nello spazio, di parlargli di Paco, ha riaperto l’argomento. Non è facile. Qualsiasi cosa scriva o dica è troppo poco, troppo poco importante. L’eccesso di emozione può paradossalmente “ raffreddare” il racconto. Tuttavia desidero tentare, con la consapevolezza dei limiti che io stessa mi impongo.
Potrei diffondermi, narrare una infinità di episodi, proprio la nostra vita insieme, ma non voglio. Preferisco tratteggiare la forma di un incontro, dare qualche lampo, lasciando il resto alla mia memoria e alla memoria o fantasia di chi legge.
***
Devo in un certo senso a Lucia il merito, se così si può chiamare, delle pagine che seguono. Alla sua adolescenza, improvvisamente segnata da un doppio dolore – la drammatica, prematura morte del padre di un suo carissimo amico e suo amico egli stesso, e la fine di un amore, importante per quanto precoce o perché precoce.
Questa somma di dolori, di sparizioni, in aggiunta alla perenne latitanza del padre, prepararono il terreno per una richiesta, che ebbe la forza di un imperativo categorico, al quale non fui in grado di sottrarmi.
Non fui in grado di sottrarmi perché io stessa cominciavo a vivere un lutto: vedevo allontanarsi da me quella piccola compagna di confidenze, e pian piano scomparire dal mio orizzonte affettivo quello che sin lì era stato - non provo imbarazzo a dirlo trattandosi di assoluta verità - il bastone del mio equilibrio psichico, il punto d’appoggio, il riferimento principale che mi aveva consentito di vivere senza “sbroccare” del tutto.
Tale dichiarazione conferma in via definitiva la diagnosi di una psicologa che segnalava come nel vissuto di Lucia io fossi più una sorella maggiore che una madre. Ne è dimostrazione il fatto che per otto anni (come segnalato dai molti sogni) sul lettino dello psicanalista io portai ad accompagnarmi Lucia, la bimbetta dalla pelle ambrata, la pesante frangetta e le lunghe ciglia nere, portai lei e il mio rapporto con la sua (mia?) infanzia. Ma è solo adesso che sono in grado di vedere “con la giusta distanza” i motivi sotterranei, inconsci, del mio agire di allora. E forse solo in parte.
“Mamma, voglio un cane” se ne era uscita un giorno.

“Un cane? Ma non sarai mica matta?”
“No, non sono matta, ne ho bisogno, ne ho tanto bisogno, ti giuro, ti giuro, mamma, ci penso io, farò tutto io, tu non dovrai preoccuparti di niente”.
Hmmm! Cominciai a visualizzare la cosa, mi sembrava un azzardo, un salto nel buio, ma nel contempo l’immagine lavorava dentro di me, proprio l’immagine del cucciolo, quello che stava scomparendo dalla mia vita, e così, senza calcolare tutti i “contro” della questione, mi attaccai ai soli “pro”.
Avevo poche idee certe, per esempio non volevo prenderlo al canile municipale, per via di un’esperienza precedente che racconterò e della quale ancora mi vergogno, volevo un meticcio, quello che prima con orribile termine di stampo razzista veniva chiamato bastardo, volevo un vero cane, non un giocattolo da grembo, quindi di stazza medio-grande, e non volevo pagarlo.
Cominciai a leggere gli annunci su Porta Portese, e subito ne trovai uno che sembrava fare al caso nostro. Una veterinaria, che abitava in campagna, assai vicino a mio padre, presso Sacrofano, offriva due cuccioli di circa cinque mesi, vaccinati, curati con il calcio, ben nutriti, ecc. Presi appuntamento e andammo a scegliere.
Uno dei cuccioli era una femmina, nera, lucida, carina, ma vidi subito che era troppo nevrile, frenetica, richiedente, bisognosa; capii che mi avrebbe dato il nervoso, ero già troppo bisognosa io per sopportare l’idea di un altro bisognoso accanto a me; inoltre pensavo con orrore ai periodi dell’estro, alla sterilizzazione, uno strazio; l’altro era un maschio bianco, dall’aria dolcissima, timida. Lucia ed io ci guardammo, non c’era bisogno di dirsi niente, avevamo scelto entrambe il maschio bianco. Unica notizia certa la madre (per la serie che pater sempre incertus), una dalmata non meglio identificata. Il padre doveva aggirarsi tra un pastore maremmano e un Labrador, a giudicare dall’aspetto, entrambi di mio gradimento, sia pure per ragioni opposte.
Dopo che la veterinaria ebbe fornito tutte le istruzioni del caso, sull’alimentazione, le vaccinazioni, il comportamento, (per es. non aveva ancora imparato a gestire gli sfinteri, avendo vissuto su un terrazzo, libero di fare i suoi bisogni dappertutto) le passeggiate, ecc., lo caricammo sulla macchina, sedile posteriore, e ci avviammo a casa.
Dopo una prima accoglienza festosa, il cucciolo bianco (non avevamo ancora scelto un nome) si depresse: portato via dalla sua casa e dalla sua compagna, era visibilmente preoccupato, tanto che, una volta giunte a destinazione, si infilò sotto una credenza e per parecchio tempo non ne volle sapere di venire fuori.
Nel frattempo avevamo comprato alcuni degli attrezzi indispensabili, collare, museruola (mai adoperata), guinzaglio, ciotola…., ai quali altri se ne sarebbero aggiunti, perché quasi niente andava bene, né per misura né per qualità.
Il cucciolo era al limite della disperazione, spaventato, ma poi a furia di carezze e leccornie riuscimmo a conquistarlo e stanarlo dai nascondigli che sceglieva per proteggersi.
Passammo alla scelta del nome: il cane era di Lucia, che studiava flamenco e chitarra classica, e allora io in un lampo di genio proclamai che il nome non poteva essere che Paco, Paco de Lucia, il noto chitarrista di origine gitana, molto ascoltato in quegli anni! Era il 1992, mese di maggio, era poco meno di un anno che ci eravamo trasferite nella casa di Monteverde Vecchio.
L’idea piacque a entrambe, in effetti era divertente, il fatto è che in capo a due o tre mesi Paco (de Lucia) divenne Paco (de Marta) e allora non fu più particolarmente divertente.
I primissimi tempi furono molto faticosi, dovevamo portarlo fuori almeno cinque volte al giorno, per insegnargli a fare i suoi bisogni solo fuori casa, io dovevo alzarmi all’alba per fargli fare una passeggiata di almeno un’ora e mezza prima di andare alla Treccani. Poi, una volta tornata a casa, dovevo tentare più o meno di asciugarlo, perché si buttava regolarmente nella fontana e poi si rotolava nella terra, e insomma tornava a casa ricoperto di una schifosa fanghiglia che rilasciava lentamente man mano che si asciugava, ritornando candido come un angelo, riducendo in compenso il pavimento di casa a superficie scricchiolante. Dovevo passare l’aspirapolvere quotidianamente e con i restanti impegni che avevo la vita mi si era complicata oltremodo. Oltre a ciò Paco faceva molti danni, graffiava disperatamente i muri o mangiucchiava tutto quello che poteva, quando uscivo per andare al lavoro e lo lasciavo solo.
Avevo anche tentato di portarlo alla Treccani, ma riuscii a farlo accettare solo eccezionalmente. Alla fine dovetti studiare una soluzione che consentisse a Paco di non impazzire di solitudine e a me di non impazzire per i casini che combinava. La mattina, dopo la passeggiata, lo portavo a casa di mia madre che abitava a cinquanta metri da casa mia, per fortuna, e lì lo lasciavo fino al mio ritorno.
Cominciavo finalmente a vedere i “contro”. Nel contempo il lavoro alla Treccani era diventato tempo pieno, orario continuato, il lavoro in casa aumentava, e Lucia non solo abbandonava me, ma anche il cane che con tanta irruenza aveva preteso. Iniziava la sua ricerca di autonomia, l’affrancamento, la differenziazione. Benché razionalmente mi aspettassi quella metamorfosi, facevo grande fatica ad accettarla pienamente: qualsiasi mutamento profondo è uno shock.
Io non sapevo niente di cani, ero completamente all’oscuro dei loro comportamenti, ne avevo perfino paura, con gli anni avevo sviluppato una diffidenza nei loro confronti che bastava che un cagnetto, anche di piccola taglia, mi corresse incontro abbaiando che io me la facevo sotto dalla paura e desideravo scappare. Non conoscevo né i segni né il senso del loro linguaggio, dovevo imparare tutto da capo, dovevo studiare.
Comprai dei libri, li lessi, ma soprattutto cominciai ad osservare Paco e gli altri cani, e i loro padroni, dovevo imparare, chiedevo, parlavo, mi si schiudeva un mondo incredibile di segni precisi, inequivocabili, un mondo affascinante. Ma mi ci volle molto, molto tempo, e molta, molta cura.
Prima di addentrarmi in questa esperienza fondamentale della mia vita, voglio parlare delle altre due, brevissime.
La prima vede un alano femmina, nera e bianca, gigantesca, bellissima, o bellissima io la ricordo. Forse questo imprinting sulla dimensione ha contribuito a farmi considerare “veri” solo i cani di taglia extralarge, già la taglia di Paco, infatti, era un compromesso, avrei preso un Terranova, un Sanbernardo, se fosse dipeso solo da me, dal mio immaginario.
Questa femmina, che rispondeva allo strano nome di Partenope (e rispondeva, veramente!), era stato un capriccio di mio padre, che se ne era innamorato al tempo in cui vivevamo ancora a Napoli. Gliel’aveva mostrata un allevatore che si trovava vicino a casa nostra, a Mergellina, dal quale acquistavamo le uova freschissime per il “pupo” nuovo (Giancarlo), e forse anche per me, suppongo. Quale fosse il legame tra l’allevamento di cani e le uova fresche non me lo chiesi allora che avevo 8-9 anni, e adesso non saprei rispondermi.
La scelta del nome fu dovuta alla fantasia di mio padre, al suo sarcasmo nei confronti della città partenopea, che suscitava in lui emozioni opposte, di odio-amore. Forse più odio che amore. Città che in ogni caso veniva associata alla delinquenza, alla sozzeria, al disordine, all’illegalità.
Partenope venne chiamata così, poveretta, perché non poté ricevere le dovute attenzioni pedagogiche e quindi faceva regolarmente i suoi bisogni nella casa di Roma dove nel frattempo la RAI aveva trasferito mio padre, che vi viveva da solo con lei, in attesa che potesse raggiungerlo sua moglie, con noi due figli. I ricordi non sono proprio limpidissimi, so per certo che la quarta elementare io la frequentai a Roma, da sola con mio padre e una domestica che viveva con noi. Ma Partenope? C’era già? C’era ancora? O era stata già mandata via?
Allora non avevo alcuna paura dei cani, di qualunque taglia fossero: infatti infilavo tranquillamente le mani nelle sue fauci, senza timore che me le facesse sparire.
Ricordo le feste che faceva quando mio padre non aveva ancora superato il cancello di casa nostra, sbattendo la lunga sottile coda all’impazzata, fino a farsi venire quello che i veterinari chiamavano il “cancro” della coda, una ferita che non si rimargina mai. Ricordo la fierezza di uscire la sera con lui e con Partenope, quel mio sentirmi partecipe di una cosa così importante, con un animale così elegante, imponente, che i passanti visibilmente temevano, e mio padre per questo rideva sotto i baffi, che era una cosa che mi piaceva tanto.
So, dai racconti che lui stesso faceva del periodo in cui era stato solo con Partenope, che la picchiava, quando trovava i suoi escrementi in casa, con una specie di scudiscio che la faceva guaire. La cosa mi fa tanto più orrore per quanto poco corrisponde alla tenerezza, attenzione, cura con le quali gli ho sempre visto trattare bestie e piante. Forse era esacerbato dalla solitudine, non so, dal suo essere impreparato a vivere da solo, dovendo avere cura, oltre che di sé stesso, anche di un altro essere vivente, ed essendo assolutamente incapace di cuocersi anche solo un uovo al tegamino….
Fatto sta che dopo sei mesi (un anno?) in tutta segretezza i miei genitori decisero che non potevano permettersi di tenere un cane di qualsiasi razza o dimensione, e tanto meno di quella taglia. Forse c’erano anche ragioni di ordine economico, non so, certo allora si viveva assai modestamente, la guerra era finita da pochi anni, soldi ne giravano pochissimi, e quel bestione consumava quantità industriali di carne, mentre noi ce la potevamo permettere sì e no un paio di volte a settimana.
Era naturale che considerazioni di tale natura mi vedessero assolutamente indifferente, capivo solo che mi stavano strappando una compagna fantastica, una calda presenza che mi ripagava del pesante ingombro costituito da quell’adorabile angioletto di mio fratello, così perfetto, così bello biondo e riccio che nemmeno Gesù bambino! Io lo adoravo quell’angioletto, per la verità, forse perché adorarlo era tra le poche carte da giocare per ambire ad avere anch’io un po’ di amore ed essere accettata dal pubblico che andava in visibilio per lui. Ma il cane no, non me lo dovevano portare via.
Partenope uscì dalla mia vita con le stesse modalità con le quali vi era entrata: io non avevo avuto parte alcuna. Fu un dolore terribile, rispetto al quale i miei sembrarono del tutto impassibili.
Da quella alla seconda esperienza “canina” intercorrono tra i venti e i venticinque anni, più o meno.
(1 - continua)

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