lunedì 30 settembre 2013

Riambientarsi (ma anche difendersi)


Dal saggio di Marco Giovenale Riambientarsi ma anche difendersi proponiamo qui due stralci. La versione integrale del testo, dedicato in larga parte all'opera di Corrado Costasi scarica dal sito Academia.edu
 Marco Giovenale
Dopo Muybridge, che nel 1878 mostra grazie alla fotografia come sono veramente disposte le zampe del cavallo durante il galoppo, non “il cinema e la fotografia hanno ragione e i pittori sbagliano” (quando raffigurano cavalli in corsa) ma semmai “mi è più difficile vedere un cavallo al modo dei pittori”. Da pittore, o da innamorato di pittura, potrò comunque continuare a illudermi, sapendo di illudermi: questa possibilità di autoillusione però non va certo ascritta a pregio dei pittori, semmai sarà un ulteriore merito di Muybridge. Ovvero: io so che le zampe non sono nelle posizioni che il pittore in qualche modo impone (a sé e agli osservatori) di pensare, e questo sapere non mi paralizza, semmai – al contrario – mi libera. Una apparente restrizione posta in essere dalla tecnica fotografica (foto, montaggio di foto,cinema) non è vincolante nei termini di una chiusura dell’immaginario. All’opposto: proprio adesso, dopo Muybridge, posso davvero disegnare un cavallo come lo pensava Géricault, perfino così, con le quattro zampe tese, e però (e perciò) posso farlo con intenzionale estraniante deformazione rispetto a quei dati conoscitivi reali, effettivi, oggettivi, di cui la pittura prima della fotografia semplicemente non disponeva.
Posso insomma essere libero, ora, in questo modo, sia di fare una pittura realistica, sia di fare invece fotografia, sia – al contrario ma non per forza ‘regressivamente’ – di riappropriarmi di una tecnica “lenta”, sognante, di pittura, ritraendo un cavallo con zampe innaturalmente parallele, e trasmettere la mia consapevolezza di star operando appunto in piena coscienza contro i dati di natura, senza con ciò disconoscere quanto so della corretta rappresentazione della corsa di un cavallo. Invece, quello che non funziona in quella pittura contemporanea che arretra vertiginosamente a un’epoca preimpressionista, è che vuole proprio essere Géricault, senza Muybridge; ossia vuoleproprio che io osservatore entri nel quadro all’altezza degli anni Venti dell’Ottocento e mi persuada che i cavalli davvero galoppano così. Cioè si tratta di una pittura, o di una poesia che – usando Géricault/Muybridge come pietre di paragone – mi chiede di entrare in un patto che proprio non funziona. Non è semplicemente n patto che “torna” a una lirica da posizioni post-liriche, o rincula all’Ottocento da posizioni di Novecento addirittura superato, bensì è un patto che vuole direttamente collocarsi o essere nella lirica (ottocentesca). Vuole davvero trovarsi nella parola pura, o innamorata, o orfica (o “anni Cinquanta”, laborintica; o “anni Dieci”, marinettiana). Se, insomma, in poesia tu “dipingi” un cavallo ingenuamente (senza alcuna purezza naïf, beninteso) collocandoti al tempo in cui si credeva che le zampe fossero distese e disposte in parallelo, e insieme fai ciò seriamente, assertivamente, ossia intenzionando la percezione di chi osserva il tuo quadro e pretendendo che costui ti segua con fiducia nella tua ingenuità (inintenzionale, dunque kitsch), io non posso non avvertire che il tuo narciso sta chiedendo qualcosa che al lettore/osservatore sembrerà del tutto legittimo rifiutare. Lo stai trascinando dentro un patto da cui lui è più svincolato di prima, che lui – più di prima – può benissimo non sottoscrivere. (Lui è in sostanza più libero di te, che resti fisso e fissato al “prima” con fermezza, al pre-Muybridge).

* * *

La scrittura che finge che un cambio di paradigma non sia né avvenuto né aleggi in alcun modo “nell’aria” assomiglia (mi abbandono a un ultimo paragone) al nevrotico che, in analisi, mette in ordine i pezzi del proprio racconto per presentarli quasi preinterpretati all’analista, per offrirli nella conversazione già inquadrati in schemi e narrazione, in storia data come letta e compresa. (Il riferimento – sommessamente suggerito – è a Jacques Lacan, Des Noms-du-Père, 1953, tr.it. Einaudi, Torino 2006). Si tratta insomma di un nevrotico che non esce dalle prime fasi dell’analisi. Il paziente non racconta ma già spiega e analizza e cerca (come scrive Lacan) di mettersi, «secondo un ben noto meccanismo narcisistico, al posto dell’interlocutore» (cit., p.15), ossia al posto dell’analista. Ovviamente quest’ultimo paragone da cui mi lascio tentare si limita a istituire l’analogia e non è forse legittimo andare molto oltre, articolandola in dettagli e corrispondenze troppo definite. Non esiste infatti (non sempre esiste, non necessariamente esiste) una qualche verità o «ordine simbolico» nel testo letterario, che – spiegando e dispiegando dettagli – l’autore velerebbe. O forse sì. Fatto sta, a fare blocco, a creare problema, è la velatura data dal mettere l’altro, l’interlocutore, nella posizione prearredata dal proprio narcisismo. Io preoriento la tua lettura dei miei sintomi, magari per non farli spiccare come tali, come segni di patologia, di mancanza.
Mi metto al tuo posto, interlocutore, predisponendoti all’accoglienza del mio materiale: firmo in vece tua il patto con me, interno e torno a una poesia che dunque – firmato il patto – non potrà che essere quella che ti darò, guarda caso. Certificata. E se sorriderai, o ti sottrarrai all’illusione, mi sentirò ferito e ti sentirò ingrato, come per un pattoinfranto, esattamente. Un comportamento del genere, da parte del nevrotico (o del poeta), non può non cadere in quello che Lacan stesso chiama «registro delle resistenze».
Ora. Il problema non è il sintomo espresso in (e al di là di) questa velatura, o il patto fittizio prefirmato da chi lo pretende e redige; né il “simbolo” che si manifesterebbe se questa intenzionalità del nevrotico narrante o del poeta poetante cadesse. Ossia: il problema non è il quid, il qualcosa che origina le difese del nevrotico, dell’autore (e il suo afferrarsi a forme retoriche note, per esempio). Il problema sta semmai nell’intenzionalità stessa, nelle difese come esempi di narcisismo velante. Ossia: non siamo in un set analitico. Il paragone finisce qui: siamo a un reading di poesia, e il poeta in questo momento sta leggendo versi orribili, kitsch, mi sta imponendo un patto (una “sua-preinterpretazione-mia”) che non riconosco. Il problema è qui: sta nel fatto che l’autore si sostituisce a me che ascolto, e mi impone Géricault come Géricault, senza accorgersene; mi impone elementi che so non miei, che so essere sue strategie autocentrate, suoi intimismi (o il suo sgargiante sventolio di bandiera civile), sue finzioni, comese non mi fossero già familiari. (Come se non mi fossero venute a noia da lungo tempo, già dopo l’adolescenza).

Nessun commento:

Posta un commento