giovedì 8 agosto 2013

Parola di capitano / 8


Nelle puntate precedenti: Eroe suo malgrado dei romanzacci seriali di Teo Marlo, il Capitano Giona Missing sfugge alle pagine che lo tengono prigioniero e cerca di riscrivere il suo destino. Ci riuscirà?

Franca Rovigatti

L’IMPAZIENZA DI GIOBBE
Non seppe mai come, poiché era ubriaco come una cucuzza e di se stesso non ricordava nulla. Ma in qualche dannato modo Teo Marlo risalì la città e atterrò nel suo letto.
Si svegliò nel pomeriggio, avvolto in lenzuola vomitate, con sulla faccia lo stampo dell’insultato fegato. Era distrutto. Gli girava e rigirava per la mente la lampante intuizione d'essere un cretino. Ma come, proprio il giorno che scopre d’essere un Vero Scrittore, che fa? Si ubriaca, spreca tempo prezioso vaneggiando, si trascina per la città, vomita il letto... Un coglione! Un perfetto idiota.
Vai poi a vedere se è davvero buona la roba che ha scritto... Forse rileggendola gli sembrerà mediocre: e i sogni di grandezza si riveleranno nient’altro che illusione... Si guardò intorno, cercando la cartellina. Il fegatoso spirito critico del dopo-sbornia gli rabbuiava il cuore. In quel buio si rese conto di aver smarrito il suo tesoro. Unica copia.
Inutile che vi descriva lo sgomento. Inutile che enumeri la quantità e specie delle accuse che Teo si mosse. Poi, graziaddio, decise che era meglio tentare qualcosa. Scese in strada, prese al volo il primo taxi. L'arcigno autista lo lasciò ad Animula quando erano, ancora afose, le sei di pomeriggio.


E il Capitano? Che gli è successo?
Il Capitano ha passato la notte in solitudine, appollaiato sulla cartella in bilico sull'orlo del bancone. Nel chiuso della taverna, puzza di alcol, tanfo di fumo vecchio. Buoi, vacche, pensava, porci. E guarda quel coglione, pensò. Quell’idiota cretino: che neanche mi ha trovato e già mi abbandona...
Ma poiché era abituato alle situazioni critiche, cessò di compiangersi, trovò scusanti al comportamento di Marlo, lo assolse. Mi ritroverà, pensò, sono troppo prezioso per lui! E si mise ad aspettarlo.

Mentre le ore della notte, e poi dell’alba, trascorrevano sottolineate dai meccanici rintocchi della pendola dietro il banco, Giona si rassegnò definitivamente al fatto di essere nato: e cioè di essere insieme un personaggio da romanzo e un portatore di coscienza. Una posizione difficile, delicata, in cui non si sapeva se si stava di qua o di là, cosa era vero e cosa no, qual era il sogno e quale la realtà. Un equilibrio arduo, in bilico tra due nature… In tale condizione –privo, tra l’altro, di corpo, voce, senza autonomia di movimento, senza ombra di esperienza-, in tale condizione diciamo pure mostruosa, non era facile accettare il destino. Eppure il Capitano era curioso e la sua anima –ma questo lui ancora non lo sapeva- era piena di speranza e desiderio.

Suonavano le nove quando Giona udì dei rumori. Qualcosa, qualcuno scalpicciava, arrancava dal retro. Giobbe, infatti, il decrepito uomo delle pulizie, stava entrando dalla porta di servizio per compiere la sua quotidiana fatica. Che consisteva in sparecchiare, vuotare posacenere, spolverare ripiani, gettar via cartacce, eccetra. Spazzare e passare lo straccio, lavare bicchieri e posacenere, sistemarli nelle apposite rastrelliere, eccetra.
Pur avendo fatto per quasi sessant'anni (ogni giorno che dio mandava al mondo, precisamente alle nove) quell'identico lavoro con pazienza infinita, da qualche tempo Giobbe era irritabile. Per un nonnulla scattava. Gli tornavano alla mente i torti subiti quando era ragazzo, soprusi di cui allora neanche s’era accorto. Ora gli bastava il ricordo, e bestemmiava: come un turco, come un maremmano.
"Dio cana" biascicò: "guarda che casino, madosca mala, hanno lasciato i porci! Mira che merda. Tanto c'è la pazienza di Giobbe, coglioni, che gli risistema tutto a puntino... A prendersela ‘n culo, che hanno floscio e rotto, dovrebbero anda' tutti quanti..."
Intanto, di mala grazia, raccattava i bicchieri, agguantava i posacenere, scatarrava per terra, passava un lurido straccio sui tavoli e sul banco.
Ed ecco, accadde quello che doveva accadere (aveva un bel rintanarsi in immateriali angolini il Capitano!).
"E questa merdolina azzurra che sarebbe? Un quaderno? Ma va! So' fogli! Scritti piccolo piccolo: cacca di pulce fegatosa. E chìssi crede d'èsse questo merdaiolo, pe' scrive? Crede d'avecce li pensieri meglio dell'altri, eh? Ma andate a cacare, lo dico sempre, è la meglio sapienza. Cacca solida e ben formata, vuoi mettere?"
Sfogliava con mani artritiche e cattive le paginette rosa, che al contatto rabbrividivano.
"I Polli non hanno Venerdì, pensa un po'… Cacato nel cervello sei, merda cacata nella merda, stronzo! Guarda, madonna lupo, se s'ha da scrive così… Deve aveccene di tempo ‘l signorino! Nessuna stramaledetta fatica: tanto c’è Giobbe, tanto c’è il poro Giobbe, merda..."
Fu colto da uno dei suoi improvvisi accessi di autocommiserazione. Conosceva il rimedio. Tirò giù dallo scaffale una bottiglia di kummel, se ne versò nel gargarozzo due sorsate, e scoppiò a ridere.
"Eh, lo so ben io che t'ho da fare, Pollo! Ti fo torna’ ‘n patria! Ti beatifico!… Dritto ‘n culo, ti rispedisco! Ecco, fogliettini belli, vi prendo, vi porto a casa, caco come dio comanda, e co’ voi mi ci ripulisco per bene... Altroché! Così le parole di merda saranno ricoperte di cacca, cadranno nello sciacquone, si perderanno nella fogna, se le mangeranno i topi..."
Il Capitano, fattosi piccolo piccolo nell'angolo più distante dalla presa di Giobbe, era atterrito. Che fine indegna… Ah, Teo, Teo, perché mi hai abbandonato?… Teo!!!
Ecco che faccio! Lo faccio svenire come Teo, questo stronzo, pensò.
Ora mi faccio sentire, pensò. E iniziò a strillare:

Giobbe! Giobbe!! GIOBBE!!! Stronzo! Merdaiolo!! Cacacazzi!!! GIOBBE!!!

Continuò a lungo, inventò invettive fiorite:

Ti possa cadere l'ano secco a terra, se lo divorino vermi e tarme! Che la merda risalga su l'esofago e ti si fermi in gola! Che tu possa soffocare! Un mare di merda ti sommerga la casa: tu ci nuoti dentro e affoghi! Ti venga lo scacazzo da mane a sera! La sciolta anche di domenica!

Era giunto quasi al limite dell'afonia, quando vide che i suoi sforzi cominciavano a produrre effetti. Il vecchio Giobbe, infatti, aveva cominciato a sentire strani pruriti e pizzicori qua e là, sicché prese a fare salti, a zompettare saturnino per la sala, urtando seggiole, rovesciando tavolini. Accasciatosi ansante su un sofà, preso da forte tremito, non riuscendo più neanche a fiatare dalla paura, le parole del Capitano gli invasero il cervello, presero lo stomaco, assalirono a morsi l'intestino. Giobbe svenne, e gli sfinteri, rilasciandosi, zupparono di molli escrementi la povera biancheria, i pantaloni, i convolvoli rossi stampati sulla fodera del divanetto.
Svenne nella sua merda.
La qual cosa sembrò al Capitano un degno contrappasso.

L'Ariel sembrava un campo di battaglia quando alle cinque e mezza entrarono gestore, barista e cameriere. Fu subito tutto un agitarsi e trafficare: tirar su Giobbe ("un malore!" "misericordia, è qui dentro dalle nove!" "oddio!, capace che ci muore!" “porca miseria, quanto mi costerà questo scherzetto?!”), sistemare alla meno peggio, chiamare il medico, areare, lavare piatti e bicchieri, eccetra. Avvisare l'avvocato, spazzare, deodorare, telefonare all'ambulanza, spolverare, tirar lo straccio, eccetra.
Alle sei l'Ariel era tirato a lucido, Giobbe viaggiava a sirene spiegate verso l’ospedale più vicino, il padrone e i suoi aiutanti tiravano un sospiro di sollievo mentre alla porta si affacciavano i primi avventori.
Il Capitano, sistemato dal cameriere insieme al manoscritto sotto il cuscino del divano dei convolvoli, se ne stava quieto, cercando di respirare il meno possibile. Per quanto risciacquato, il cuscino ancora esalava il fetore sfinterico di Giobbe...

A quell’ora Teo si trovava a vagolare per le viuzze e bettole di Animula continuando a maledirsi con tutte le sue forze. Entrò al Martin Eden, al Cartagena, al Roxy, passò al Piviere Stanco e alla Mandragola, scese nei sotterranei al Moby Dick, salì da Stella.
Chiedeva timido a baristi e camerieri se la notte prima lui fosse stato lì: se avessero trovato, chissà, una cartellina... Lo guardavano come fosse un fantasma, scuotevano la testa: no, no, nessuna cartellina...
Entrò infine all'Ariel, l'ultima mescita di Animula, la meno probabile, nell'ipotetica mappa che Teo aveva messo assieme a tentoni. Ormai era disperato. Sicché non chiese nulla, si appoggiò al banco stordito, infelice.
"Come si sente, stasera, signore?" gli sussurrò il barman: "Ha avuto problemi, nel tornare a casa?"
(Oddio, grazie! pensò Teo. Grazie Signore!)
"Ieri? No, no, nessun problema, penso... Lei è gentile... Però ho lasciato qui una cartellina: l'avete trovata?"
"Non credo..." sputò il barista, cui erano tornati alla mente all'improvviso i vaneggiamenti di Teo: "Io non l'ho vista. Provi a chiedere a Korlo, il cameriere"
Korlo si avvicinò. Alla richiesta di Marlo, ricordò di aver ficcato qualcosa di simile da qualche parte... Dove, con tutta la confusione che c'era stata, non sapeva più. Mentre cercava, parcheggiò il livido Teo su un divanetto laterale con la fodera stampata a convolvoli rossi.
Il Capitano, all'erta, di là sotto cominciò a sbracciarsi. Gridò:

Qui, Teo! Mi hai sotto al culo! QUI!!! TEO! SCOSTA IL CUSCINO!

Teo Marlo sentì qualcosa. Certo, un suono flebile, confuso... Come l’eco lontanissima di una voce nota.
Guardò sotto il tappeto, sul tavolino. Niente. Tastò infine sotto il sedere, sotto l'umido cuscino.
E fece un salto. Un salto altissimo, volava. Tenendo tra le braccia il suo bambino. Il perduto, lo smarrito, il prezioso, unica copia. Il romanzo ritrovato.

(8 - continua)
 
Poeta, artista visiva, organizzatrice culturale, Franca Rovigatti ha fondato nel 1997 il festival RomaPoesia e nello stesso anno ha pubblicato per Sottotraccia il "romanzo di viaggio immaginario" Afàsia.

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