domenica 28 aprile 2013

Un mischiadischi a Capo Verde


Ti racconto un libro
Marco Boccitto, Capo Verde. Un luogo a parte
pp. 192, euro 12,90

Maria Teresa Carbone
I sempre più numerosi portoghesi che cercano di sfuggire alla crisi emigrando in Mozambico non hanno probabilmente letto quel libro curioso, a metà tra romanzo e pamphlet, che è Gli Stati Uniti d'Africa di Abdourahman Waberi, in cui le sorti economiche del pianeta sono capovolte e a correre disperati verso i ricchi lidi africani sono gli europei ridotti alla fame. Eppure, da mesi si assiste a un movimento inverso a quello che ha caratterizzato gli scorsi decenni, e se i giovani diplomati e laureati di Lisbona – speranzosi di trovare a Maputo opportunità di lavoro impensabili oggi in patria – non viaggiano su vecchi barconi, è indubbio che la Tap, la compagnia aerea portoghese, ha visto moltiplicarsi nell'ultimo anno i passeggeri diretti verso la capitale mozambicana. Lo riferisce un articolo sul  “Jornal de Negócios”, i cui autori, Celso Filipe e Maria João Babo, riportano dati ancora più significativi: secondo il ministro del lavoro del Mozambico, nel 2011 risiedevano nel paese 4.355 portoghesi, mentre oggi si parla di circa 25.000 persone, molte delle quali probabilmente dovranno ripartire perché, nota Diogo Gomes de Araújo, presidente esecutivo della banca di sviluppo statale Sofid, Maputo “è sempre più cara” e qui come altrove “la vita è dura per i disoccupati”.
Paradossale destino per quello che fu il primo impero coloniale a formarsi e l'ultimo a sgretolarsi, dopo lotte lunghe e sanguinose, nella prima metà degli anni Settanta, in parte anticipando, in parte in coincidenza con la Rivoluzione dei garofani del '74. Una storia tortuosa e frammentata, quella delle diverse (ex) colonie del Portogallo, ognuna delle quali fa storia a sé e all'interno della quale il caso di certo più singolare è quello dell'arcipelago africano di Capo Verde: Un luogo a parte, come lo definisce il titolo di un libro in cui Marco Boccitto, giornalista e conduttore radiofonico, è riuscito a calare con una rara miscela di divertimento e di erudizione la sua esperienza di “mischiadischi itinerante”, dedito ad ascoltare e a far ascoltare musica “da una prospettiva spudoratamente afrocentrica” (Exòrma).
Da un libro dedicato in larga parte ai ritmi capoverdiani ci si sarebbe potuto aspettare una copertina e un incipit nel segno di Cesaria Evora, la “diva dai piedi nudi”, la cantante che ha fatto conoscere al mondo la morna e quelle dieci piccole isole dell'Oceano Atlantico di fronte alla Mauritania e al Senegal, in precedenza ignote ai più. Ma non si è afrocentrici – e dunque  eccentrici– per nulla, e così Boccitto sceglie per la copertina l'immagine di un ragazzo e di una ragazza (sono i figli del compositore capoverdiano Ano Novo), che cantano e suonano, rappresentazione immediata di un clima (non solo) musicale proiettato verso il futuro, e apre il libro con una prima e corposa parte, in cui ricostruisce la storia “senza capo né verde” di questo “rebus antropologico” in forma di arcipelago arido e esposto ai venti, un tempo disabitato e poi crocevia di incontri quantomai eterogenei, dove si susseguono le avventure dei mercanti genovesi, le scorribande dei pirati, la secolare sofferenza della schiavitù (prima in forma di tratta e in seguito del lavoro forzato di epoca coloniale), l'andirivieni dei migranti – una storia incredibilmente avvincente, che culmina con la lotta anticolonialista del poeta e rivoluzionario Amilcar Cabral e con “la miscigenaçao fertile e pacifica dei capoverdiani d'oggi” che “sembra voler vendicare gli abusi commessi nel tempo da proprietari terreni, guardiani, preti, commercianti, ufficiali coloniali”, e che fa da necessaria tela di fondo per la seconda parte del libro, quella dove Boccitto sciorina il suo sconfinato sapere musicale e guida il lettore di isola in isola, e anche fuori, lungo le mille rotte dell'emigrazione capoverdiana, in cerca di ritmi vecchi e nuovi: la morna, certo, ma anche la coladera e la balada e lo zouk... Così che viene voglia di ascoltarlo, e non solo di leggerlo, questo libro, accompagnando le parole ai suoni che vengono evocati, pagina dopo pagina.
Suoni che parlano di un mondo non più diviso fra un centro e mille infinite periferie senza volto, ma di un mondo interconnesso, dove, per dirla con il grande intellettuale keniota Ngugi wa Thiong'o nel suo Decolonising the Mind, ognuno si riconosce come il centro di se stesso. Suoni dotati di una potenza smisurata, perché – come scrive nel  1947 Baltasar Lopes da Silva nel testo fondatore della letteratura  capoverdiana, Chiquinho – “con una chitarra e un cavaquinho possiamo andare in capo al mondo, senza musica non valiamo la testa di una termite”.
Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2013 sul "Bo", il magazine online dell'università di Padova

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