mercoledì 10 aprile 2013

Ritorno a "Cuore di tenebra"

Gi. Ch.
Prima di un film e di una colonna sonora (celeberrimi), Cuore di tenebra fu un resoconto, impareggiabile e definitivo, sul nichilismo europeo e sulla devoluzione spirituale dell’uomo occidentale. Conrad ci guida verso il nostro cuore di tenebra secondo una via crucis scandita progressivamente da una prosa precisa, implacabile e, nel contempo, letterariamente ricchissima: in essa convivono per miracolo sia il registro prezioso che l’andamento narrativo.
Il libro (il diario d’una spedizione africana verso una stazione coloniale interna retta da Walter Kurtz) è una gigantesca chiamata in correità (nel tempo e nello spazio) dell’intera koiné europea: nel tempo, poiché il narratore, Marlow, associa nel capitalismo di rapina sia i conquistatori romani dell’Inghilterra che i colonizzatori africani di quasi due millenni dopo; nello spazio, perché nessuno può dirsi escluso: la Società delle Colonie ha sede a Bruxelles; Kurtz è mezzo francese mezzo inglese; l’aiutante di Kurtz russo; Marlow è inglese e si imbarca su di un piroscafo francese e, prima di inoltrarsi nella giungla, incontra danesi, svedesi, olandesi, di nuovo francesi, scozzesi.
L’uomo europeo (e perciò mondiale, globalizzato) è ormai agito non da una divinità furibonda e lurca di sangue, ma “da un demone flaccido, bugiardo, miope, di una follia rapace e spietata”, da “un’ottusa rapacità”; la prefigurazione è quella dell’homo novus attuale, deprivato empaticamente, sordo ai richiami della cultura passata, tenuto in piedi esclusivamente dalla propria voracità criminale di cui peraltro ignora la pulsione profonda e l’utilità (situare la sede di questo virus proprio a Bruxelles è un tocco profetico di prim’ordine).


Il viaggio verso Kurtz (“estenuante pellegrinaggio attraverso un repertorio di spunti per incubi”) è la progressiva scoperta di questa inutile e glaciale follia sterminatrice che pare propagarsi endemicamente colla semplice presenza (in)umana così come nel film The cure di Kiyoshi Kurosawa il male si trasferisce per contatto.
Marlow/Conrad si fa subito gioco di filantropismo, nazionalismo, lumi e progressione sociale, ovvero della menzogna civilizzatrice: “un’idea da esaltare, davanti alla quale inchinarsi e alla quale offrire dei sacrifici …”; “dopotutto ero anch’io parte della grande causa da cui nascevano quelle alte e nobili imprese”; “[non c’era] nessuna morale … più di quanta ne abbiano dei ladri che scassinano una cassaforte”; più oltre: “sulla stampa e nei discorsi della gente circolavano un mucchio di stupidaggini [sul come] svezzare quei milioni di ignoranti dalle loro orride usanze”; “i principî sono … straccetti graziosi pronti a volarsene via al primo scossone”; “la bandiera [francese] pendeva flaccida” dalla cannoniera; un’altra bandiera è ridotta a “brandelli irriconoscibili e penzolanti”: i conquistatori si mascherano dietro una superiorità ed un paternalismo omicida e tutti i più esaltati e virtuosi labari ristanno quali orpelli rugginosi. L’Occidente avanza come un Moloch insensato: “c’era un tocco di follia in quel modo di procedere, un senso di stramberia lugubre”; gli avamposti hanno nomi come Little Popo o Gran Bassam “[nomi che] che parevano usciti da una sordida farsa messa in scena davanti a un sinistro fondale”; lacerti della produzione capitalistica di guerra giacciono inanimati come i resti perversi di un’orgia innominabile (“un vagone ferroviario abbandonato a terra capovolto con le ruote all’aria”; una congerie infranta di “tubi da scolo”, poi “pezzi di macchine guaste, un mucchio di verghe rugginose”; ancora insensatezze: “una grande fossa artificiale .. lo scopo della quale mi fu impossibile individuare”; “una sorda e pesante detonazione scosse la terra, una nuvoletta di fumo uscì dal picco e fu tutto … Stavano costruendo una ferrovia. Il picco non sbarrava nemmeno la strada, ma queste esplosioni senza scopo costituivano tutta l’attivita presente”.
Quella terra, oggetto di distruzione e sfruttamento, rimane peraltro incomprensibile ai conquistatori: “eravamo tagliati fuori dalla comprensione, viandanti in una terra preistorica”; l’unico rimedio è annientare: “in quella vuota immensità di cielo, terra e acqua … [la cannoniera francese] se ne stava là, incomprensibile, a sparare contro un continente”. Tutti coloro che si oppongono a questa volontà di potenza sono nemici, ribelli, criminali e assimilati al vuoto che li riduce in schiavitù: il prigioniero negro “fissava il vuoto in un modo intollerabile e spaventoso” … “gli occhi affossati mi guardarono, enormi e vacui, una specie di cieco bianco guizzo nelle orbite profonde, che lentamente si spense” … “in un contorto abbandono”, la “testa lanosa” sul petto; un inferno glaciale, un “quadro di massacri e pestilenze”, la morte in vita: questa è la Libia, il Congo belga, l’Eritrea, il Sudafrica, il Cile, l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria, il Mali; Conrad, a più di un secolo di distanza, ci inchioda alla complicità.
Si arriva finalmente a Kurtz, uomo di oggi, apolide e senza precisa incombenza (lo descrivono via via come pittore musicista poeta politico e autore del libello “Soppressione dei costumi dei selvaggi”), concrezione e simbolo della prevaricazione cieca che si rinnova di rapina in rapina, di omicidio in omicidio; egli vuole tutto, incessantemente, vuole il potere, la terra, l’avorio: egli stesso è avorio (calvo e bianchissimo), è volontà inesausta di possesso, insensata e bloccata in un giga irrazionale che non trova requie: ”aprì la bocca come se avesse voluto inghiottire tutta l’aria, tutta la terra, tutti gli uomini”. Siamo alla fine del viaggio, nella scaturigine stessa del novello Occidente, della tenebra che ha abbuiato i vecchi cuori e forgiato nuove tigri d’acciaio. Kurtz muore (“Mistah Kurtz. He dead”) e, nell’agonia, ha rivelazione della malattia epocale che l’ha imprigionato e agito sin lì. Marlow alfine ne prova ammirazione: Kurtz infatti è una ricapitolazione intatta e gigantesca del male, una figura priva delle ridicole finzioni del nazionalismo, del progresso, della civiltà, della magnifiche sorti; è crudeltà, arrivismo, ingordigia, ma senza sordidezze o macchinazioni. Omicida e santo, egli è un puro; per lui Marlow, disilluso come un Buddha che ha esperito l’orrore della vita, arriverà a mentire.
In Apocalypse Now Coppola derubrica l’universale infamia dell’Occidente alla scaramuccia che gli Americani ebbero nel Sud-Est asiatico; tradisce a tratti la fonte originale, slitta nel didascalico (il bric-a-brac letterario di Kurtz, troppo scoperto: Eliot, Weston, Frazer), si affida a scene facili (la cavalcata degli elicotteri) e spettacolari, ma, specie nella versione lunga, trova i bagliori eccezionali del capolavoro: l’episodio delle conigliette di Playboy, l’avamposto nostalgico dei francesi, i monologhi di Marlon Brando, le scene di desolazione fluviale, l’inizio al ritmo dei Doors, la battaglia colorata con fuochi d’artificio lisergici.

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