sabato 6 luglio 2013

L'"Ulisse" come manuale di self-help. Una conversazione con Declan Kiberd

Enrico Terrinoni
ET: Negli ultimi decenni la critica joyciana, un’industria culturale transnazionale e iper-specializzata, ha versato fiumi di inchiostro per spiegarci quanto fosse difficile accedere all’universo di James Joyce, lasciando intendere che questa complessità necessitasse di interpreti privilegiati, un po’ come per i testi sacri. C’è da chiedersi se questi sacerdoti del joycianesimo internazionale non siano una moderna personificazione di quel principio di autorità su cui non dovrebbero mai fondarsi i «saperi inesatti». Tuttavia una certa tendenza si sta facendo strada ultimamente, soprattutto grazie alla scuola irlandese che tu, Seamus Deane e altri avete inaugurato: una tendenza che rimette al centro dell’attenzione l’evento umano, esistenziale, anche ordinario di cui Joyce si occupa, senza focalizzarsi solo sugli straordinari effetti speciali linguistici e stilistici.
DK: Qualche anno fa ho pubblicato un libro dal titolo Ulysses and Us (Faber & Faber 2009), la cui tesi è che Joyce intendesse Ulisse come una sorta di manuale di self-help, un libro che ci insegna a vivere. Sembrerà strano per un’opera piena di sperimentalismi formali, ma credo sia vero: riguarda un giovane, Stephen Dedalus, un laureato che soffre di depressione e che ha bisogno di uscire da questa condizione per accedere alla «gloria» della vita quotidiana. Incontra un uomo di 38 anni, Leopold Bloom, che lo aiuta in un simile percorso. Stephen lavora ogni tanto come insegnante in una scuola. A colloquio col direttore gli annuncia la sua volontà di smettere di insegnare, dicendo di essere più interessato ad apprendere. Ritiene che chi si è messo ad insegnare l’abbia fatto perché ha dimenticato come si fa ad imparare. Credo che in qualche modo Joyce pensasse a questo libro come a una modalità alternativa di insegnamento.

ET: Insegnare e imparare sono due facce della stessa medaglia. Forse aver dimenticato questo aspetto, questa umiltà con cui gli intellettuali dovrebbero porgersi al mondo, è una delle colpe che ha portato al loro rintanarsi in torri d’avorio, al ricorrere a linguaggi ermetici, all’impenetrabilità di concetti ispirati non alla comunicazione, ma a quel che appare come una sorta di oscurantismo cerebrale colorato di complessità. Però Ulisse è davvero un libro difficile, una continua sfida tesa verso l’impossibilità della comprensione definitiva, della decifrazione finale dell’enigma. E si potrebbe obiettare che c’è poco di democratico in un libro la cui difficoltà spesso spaventa i lettori a tal punto da non permettergli nemmeno di avvicinare questa lezione. È forse una lezione impartita solo ai personaggi?
DK: Prendi l’atteggiamento di Bloom nei confronti del mondo, un atteggiamento totalmente diverso da quello di Stephen. Ad esempio, lui ama l’acqua per le sue qualità democratiche, perché trova sempre da sé il proprio livello. Stephen invece ha terrore dell’acqua. Non si lava da mesi. A Dublino diciamo che solo le persone sporche dovrebbero lavarsi! Lo stesso vale per il cibo: nel primo episodio di Ulisse Stephen e i suoi amici, i giovani laureati, mangiano ma disordinatamente, quasi infastiditi dalle pietanze. Il che è molto irlandese. Fin dai tempi della Grande Carestia, negli anni Quaranta dell’Ottocento, gli irlandesi hanno mostrato sospetto nei confronti del cibo. Non amiamo stare a tavola come voi italiani …pure noi parliamo molto e diciamo un sacco di cazzate, ma lo facciamo al pub, non a tavola! Ma quando Joyce approdò in continente per vivere a Trieste, a Pola, a Roma, a Parigi e a Zurigo, una delle cose che lo colpì maggiormente fu appunto la differenza con gli europei riguardo al cibo. In Irlanda si mangia per sostentamento, il più veloce possibile. Invece Mr Bloom ama mangiare. Inizia la giornata preparando la colazione per la moglie e per sé, come fosse un sacramento. Al contrario di Stephen cui il cibo dà fastidio, perché è depresso e perché quella mattina non si sente bene: il motivo, come sempre in Irlanda, è che ha bevuto troppo il giorno prima. Ma lui si sente anche colpevole perché vuole sentirsi colpevole. Non sa agire senza prima offrire tutto un inventario di motivazioni per cui dovrebbe agire – il che ricorda Amleto ma anche Dante, perché i veri dannati sono quelli che desiderano la dannazione infernale. Nei primi tre episodi si percepisce quanto Stephen sia immobilizzato, e in parte ciò è dovuto al fatto che è troppo «intellettuale», sempre immerso in citazioni da Aristotele, Spinoza, e tanti altri. In un certo senso la sua malinconia è legata all’inattività, e l’inattività è foriera di ulteriore malinconia, come capita ad Amleto e a tutti gli intellettuali la cui capacità di azione si perde nell’analisi permanente.
ET: Verissimo, Stephen incarna anche il senso di colpa, quell’agenbite of inwit che Gianni Celati, l’ultimo traduttore italiano di Ulisse, traduce brillantemente con morsura animi. Questo senso di colpa ha certamente delle ragioni personali, data la travagliata esistenza del personaggio, anche sul piano familiare; ma non ha a che fare solo col carattere schivo, da intellettuale oscuro, di Stephen. È anche una malattia sociale, data dal contesto politico dell’Irlanda di allora, un’Irlanda da cui Joyce fugge per i motivi che sappiamo, ma dalla quale non si allontana mai con la mente. Come se i percorsi mentali e quelli sociali si incrociassero continuamente. È una tesi che mi pare emerga anche da un interessante studio recentissimo su Joyce di un altro nostro scrittore, Gabriele Frasca, intitolato Joyicity, che guarda a come il discorso di Joyce anticipasse le teorie sui media di McLuhan ma anche la svolta lacaniana nella psicanalisi. La dimensione sociale e quella mentale, insomma. Il punto di incontro di queste contraddizioni è sempre esterno alla mente, ha una sua visibilità, e mi chiedo se questo crocevia non sia proprio lo stile, con la sua complessità, coi suoi intrecci intricati, come il labirinto di strade di una metropoli. Non è proprio la sua «forma» a rendere unico questo testo?
DK: Il libro è divenuto famoso dal punto di vista formale per lo più per i suoi monologhi interiori, il funzionamento della mente, il flusso di coscienza, e credo vi siano ragioni specifiche per cui questo emerga in un’opera che riguarda Dublino, e ambientata nell’Irlanda del 1904. Gli Irlandesi non avevano una loro terra, l’Irlanda era una colonia. L’istinto di sopravvivenza prevedeva il fatto di non notare il degrado del proprio ambiente coloniale, e per trovare un’alternativa era meglio immergersi nella propria mente, in cerca di un’analisi e di un pensiero alternativi. È quello che capita a tutti i personaggi di Ulisse. Si profondono in monologhi interiori immensamente ricchi, ma il bello di Joyce è che in tutto ciò c’è qualcosa di patologico. I monologhi interiori sono una forma di malattia. In un play recente di Brian Friel, dal titolo Philadelphia, Here I come, il protagonista è un giovane di 26 anni, ma è impersonato da due attori: il primo è il suo mondo interiore, il secondo il suo essere sociale. Il secondo è incerto, esitante, incapace; il primo sicuro di sé, sofisticato, eloquente. Ma è l’uomo interiore a immobilizzare quello sociale, coi suoi commenti corrosivi su di lui. Credo sia anche il pensiero di Joyce riguardo al monologo interiore: che se è troppo sviluppato diventa un problema. Tramite il monologo interiore la mente registra gli shock, le ingiurie della vita quotidiana, ma è anche una sorta di meccanismo patologico. In realtà possiamo dirci felici soltanto quando per ogni aspetto del nostro mondo interiore esista un equivalente nel mondo esteriore; ma il problema di tanti personaggi in Ulisse è che mentre il loro mondo interiore è ricchissimo, in quello esteriore c’è davvero poco. Questa malattia tipica degli irlandesi è dovuta alle particolari condizioni sociali che avevano ereditato. È anche però una cultura della repressione: e dove c’è repressione c’è mancanza di dialogo.

Traduzione di Enrico Terrinoni

La versione integrale di questa intervista si può leggere nel numero 31 del mensile "Alfabeta2", in edicola e in libreria dal 5 luglio 2013.


2 commenti:

  1. è già alla sua seconda edizione italiana (2013) un Manuale psicologico di "auto aiuto" tutto italiano: quasi 600 pagine guidate con esercitazioni pratiche, consigli, prescrizioni, 13 test psicologici e indici aritmetici di avanzamento per verifica dei progressi.
    Non esistono in America manuali pratici con indici numerici di calcolodella propria crescita personale! Si tratta de Il manuale pratico del benessere (Ipertesto Editore) patrocinato da club UNESCO: non promette di guarire chi sta male, ma di evitare di ammalarsi facendo procedure quotidiane salutiste "step-by-step"! Un manuale di prevenzione (anche secondaria e terziaria) non di cura.

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  2. Mai possibile che ci sia bisogno di manuali su manuali e non ci sia il coraggio di affrontare la realtà sulla scorta di una seria e profonda cultura personale? C'è sempre bisogno del piatto pronto?

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