giovedì 8 agosto 2013

Louise Brooks, la ragazza con l'elmetto nero/2

G. Luca Chiovelli




I suoi primi film, A social celebrity o Love ‘em and leave ‘em, hanno consacrato il tipo della flapper girl, ovvero della ragazza indipendente, moderna, metropolitana, sottratta agli obblighi della tradizione.

Le flapper girls furono un’epidemia sociale favorita dalla situazione economica favorevole. Quando i soldi girano ci si allontana dalla tradizione e si cercano nuovi modi d’espressione: le flapper girls, una sorta di evoluzione del fenomeno delle suffraggette, negavano la femminilità tagliandosi i capelli alla maschietta, rinunciando a bustini e calorie; si truccavano vistosamente, fumavano e bevevano, si intrattenevano nei locali pubblici con uomini che loro stesse si erano scelti. Giovani, snelle, con pochi pensieri e felici di sfruttare i nuovi diritti naturali della donna. Una flapper girl storica fu Rosalind di This side of Paradise, il libro d’esordio di Francis Scott Fitzgerald; Francis l’aveva modellata sul tipo psicologico di quella strega di Zelda, la futura moglie. Flapper era anche Janie di Love ‘em and leave ‘em, bruna, svelta, inafferrabile, una tipetta mercuriale e amorale. D’altra parte to flap è lo sbattere d’ali dell’uccellino e flap away significa volarsene via, senza tante preoccupazioni.


Love ‘em fu il suo ultimo film girato a New York. Per lei si schiudevano le porte di Hollywood. Può definire la parola Hollywood in poche parole?


Non vorrei si fraintendesse. L’ambiente del cinema di New York non era superiore. La cultura, dovevo presto impararlo, non era un requisito per diventare una sofisticata newyorkese, ma, piuttosto, un handicap. I ricchi che di lì a poco mi avrebbero esibita nei ristoranti alla moda, nei teatri e nei night, indietreggiavano come studenti svogliati di fronte al nome di Shakespeare e pensavano a una serata trascorsa al Metropolitan o a un concerto alla Carnegie Hall come a una sofferenza impensabile. Non volendo spettegolare sulle famiglie e gli amici di questi signori dell'alta società e detestando il gioco volgare dei doppi sensi e dei sottintesi sessuali, in società tacevo quasi del tutto. Mi feci presto la fama di bella e scema. E tuttavia a New York devo molto; fu lì, tra l’altro, che scoprii Tolstoj. Hollywood, invece, non è mediocre, ma infernale. Somiglia a un sogno pauroso che a volte faccio: mi sono perduta nei corridoi di un grande albergo e non riesco a trovare la mia stanza. La gente mi passa davanti come se non potesse vedermi né udirmi. Hollywood è la solitudine, non la beata solitudine che si sceglie, ma la desolazione che nasce nel non sentirsi partecipe di quel mondo fasullo. Per una diva cinematografica è terribile essere lasciata sola per un istante. E' il primo segno che sta per imboccare la strada dell'oblio. Hollywood è una catena di montaggio in cui si finge per tutto il tempo.


A Hollywood girò Beggars of life, di William Wellman e A girl in every port, di Howard Hawks. Nel primo gira travestita da ragazzo per tutto il tempo.

E’ la storia di una giovane ragazza che, dopo aver ucciso il patrigno che voleva abusare di lei, vagabonda per l’America assieme ad un compagno di strada e di pericolo. Il regista mi vestì come Jackie Coogan ne Il monello di Chaplin. Il film è molto sincero, forse il mio migliore in terra americana. Una sorta di Furore vissuto con gli occhi di due straccioni. Stimavo molto Wellman anche se non ho mai conosciuto nessuno con un amore così sincero e satanico per la brutalità. Per simulare i rischi di un’esistenza errante e dare un tocco di realismo al tutto divenni una vittima: fui presa a calci, fatta inciampare, caricata di botte, fatta saltare su un treno merci in corsa. E infine, Wellman mi piazzò sopra una locomotiva proprio mentre questa veniva inghiottita da una galleria; me la cavai con un po' di capelli strappati e qualche sgraffiatura. Niente controfigura per Louise!

Beggars of life
A girl in very port?

Era diretto dalla futura gloria Howard Hawks. Si faceva un dovere d'essere ogni mattina sulla scena, anche se non sembrava molto coinvolto. Ogni volta che arrivavo avevo voglia di dirgli: "Salve, sono Louise Brooks, mi avete dato una parte nel vostro film, vi ricordate di me?” Nel film facevo la solita parte di bad girl che mette zizzania fra due amiconi, Robert Armstrong e quel vecchio arnese di Victor McLaglen. La cosa che più mi ricordo di quel periodo furono gli inviti nella favolosa tenuta di William Randolph Hearst, il magnate dell’editoria …


Hearst fu il tycoon a cui si rifece Orson Welles per la figura di Charles Foster Kane in Quarto potere


Lo conobbi perché ero diventata amica di Pepi Lederer, la nipote della sua compagna, l’attrice Marion Davies.


Il suo miglior scritto, a mio avviso, è proprio La nipote di Marion Davies, su Pepi.


Mio Dio, un’altra figura assolutamente tragica. Si suicidò a venticinque anni. Lesbica, alcolizzata e cocainomane. È incredibile il numero di persone che ho visto svanire in quell’abisso fatuo e spietato. Nel 1973, scorrendo l’indice di un volume dedicato a Marion Davies, vidi il suo nome e, a trentotto anni di distanza dalla morte, mi si spezzò nuovamente il cuore. Povera Pepi, persa nell’immensità della tenuta imperiale di Hearst! La sala da pranzo era davvero magnificente; Welles fu molto accurato. Sotto il soffitto, in alto sopra le nostre teste, si libravano due file di stendardi multicolori del Palio di Siena che datavano dal tredicesimo secolo. Nell’enorme camino gotico tra le due porte d’ingresso, un satiro di pietra scura ghignava malignamente fra le fiamme che si levavano dai ceppi puntellati contro il suo petto. Lì quarantotto persone si mettevano a tavola per cenare nella vasta sala da pranzo Rinascimento. Otto di noi, che non avevano ventuno anni, erano esiliati all'estremità della lunga tavola del refettorio, dove le nostre buffonerie non potevano disturbare le persone bene che attorniavano il signor Hearst e Marion Davies. Poiché non era permesso bere se non a cena, avevamo una sola idea in testa: bere. Un pomeriggio, eravamo in piscina, allorchè apprendemmo che i direttori dei giornali di Hearst erano riuniti per una conferenza nella sala da pranzo di una delle ville, attorno ad una tavola piena di dozzine di bottiglie. Mi si designò per un rapido raid presso di loro. Harry Crocker disse che, dopo la mia apparizione nella stanza con un costume bagnato, e la mia fuga con due bottiglie di scotch, uno degli uomini, attonito, fissò la chiazza d'acqua sul tappeto e disse tra sé con un tono divertito: "Il signor Hearst sa che quella ragazza è qui?".


Il regista tedesco Georg Wilhelm Pabst la notò proprio in A girl in every port. La ricerca dell’interprete di Lulù si era protratta per mesi, disperatamente. Pabst scartò persino Marlene Dietrich, ritenuta troppo vecchia e fatale in modo scontato.


Le circostanze che mi hanno permesso di lavorare per Pabst sono davvero uniche. A quel tempo, alla vigilia del sonoro, tutte le case cinematografiche ridiscutevano i vecchi contratti. Naturalmente al ribasso. Se rifiutavi di sottometterti alla loro schiavitù eri fuori. Tutto qui. Il cinema muto, nella sua naturalezza e ingenuità, venne praticamente distrutto. Un cinema in cui i registi avevano trent’anni e gli attori venti, una costellazione di stelle meravigliose: Colleen Moore, Clara Bow, Betty Bronson, Lillian Gish, John Gilbert, Chaplin, Keaton, Chaney, Mary Pickford. Dopo un filmetto tratto da S. S. van Dine, The Canary murder case, spiegai alla Paramount che la mia esperienza con loro, per il momento, era finita. Erano allibiti dalla mia audacia. Fu allora che, correttamente devo ammettere, mi rivelarono che ero richiesta in Europa da un certo Pabst. Non ci pensai due volte e partii.


Lulù è tratto liberamente da due drammi di Frank Wedekind, Lo spirito della terra e Risveglio di primavera. Narra la storia di una ex prostituta che porta alla rovina chiunque si innamori di lei, il ricco Ludwig Schön, suo figlio Alwa, la contessa Geschwitz. Costretta a fuggire in Inghilterra dopo essere stata accusata dell’omicidio di Ludwig Schön, vive ridotta in miseria finché, la notte di Natale, è uccisa da Jack lo Squartatore. Conosceva l’opera di Wedekind?


Assolutamente no. Solo in seguito riflettei su Wedekind e capii la giustezza delle scelte di Pabst.


Ci dica.


Il Domatore, uno dei protagonisti de Lo spirito della terra, dice a Lulù: “Tu non hai diritto/di rovinare con sberleffi e smorfie/il volto ingenuo, infantile del vizio!”. Per questo la Dietrich appariva troppo fatale. Il male si cela dietro l’ingenuità e un volto fanciullesco, oso dire brooksiano. Inoltre Wedekind afferma esplicitamente: “Lulù è la personificazione della sessualità primitiva e ispira inconsciamente il male. Ha una funzione puramente passiva”.


Questo è verissimo. Infatti Lulù scatena i sommovimenti psicologici che porteranno tutti alla rovina senza volerlo veramente. È come la portatrice di un morbo. E Louise Brooks fu la sua perfetta incarnazione sullo schermo. Per questo la accusarono di non fare niente, di essere, come la Lulù di Wedekind, puramente passiva.


Proprio così. Lulù è solo un reagente. Il male è già negli uomini, mascherato dalle convenzioni e dall’opportunismo. E Lulù ero io, senza finzioni. Quando recitavo, non avevo la minima idea di quel che stavo facendo. Recitavo semplicemente me stessa, che del resto è la cosa più difficile. Sembrava facile perché non facevo niente. In effetti non dovevo dimenticare nessuna abitudine.




Lulù
Come lavorava Pabst?

Pabst si rifiutava di trasporre sulla scena le tecniche teatrali. Avrebbero soffocato ogni realismo, paralizzando ogni parola, ogni gesto, ogni sentimento. Ricercava lo choc liberatore delle emozioni impreviste. Come disse Proust: "In ogni istante la nostra vita ci appare come uno straniero nella notte; e chi di noi sa fino a dove andrà domani?". Non aveva un campionario di personaggi con risposte emotive prestabilite. Era lo stimolo che l'interessava. Con lo stimolo giusto ogni attore avrebbe reagito realmente e naturalmente, non con la comoda sicurezza dell'istrione.


Può farci un esempio?


Una mattina dovevamo girare una appassionata sequenza d'amore con Franz Lederer. Arrivai sul set con uno splendido negligé di seta gialla. Pabst neanche lo degnò di un’occhiata. Disse, rivolto ad altri: “Louise deve indossare l'accappatoio, e sotto deve essere nuda”. “Cosa?”, esclamai, “odio questo accappatoio. E poi chi saprà che sono nuda sotto questo enorme coso di lana bianca?” “Lederer”, rispose concisamente Pabst. Stimolo, reazione naturale, emozione sincera.


Dopo Lulù, ritornò brevemente negli Stati Uniti.


Il parlato stava imponendosi. La Paramount voleva che doppiassi la mia parte in The Canary murder case, per renderlo un film parlato, un talkie. Rifiutai. Me la giurarono. Mi pugnalarono a fondo e, da allora, non ritrassero mai più la lama. Di fatto, a ventitré anni, stavo per ritirarmi dal mondo del cinema. Fu allora che Pabst mi salvò richiedendomi a Berlino per il suo prossimo film, Il diario di una donna perduta.


Il diario, tratto da un romanzo di Margarete Böhme, è la storia di Thymian che, sedotta da adolescente, viene prima mandata in un istituto di correzione, dove è sadicamente tiranneggiata, poi finisce in un bordello. La pellicola è considerata uno dei vertici del cinema muto internazionale.


E uno dei film muti più censurati in assoluto. Il protagonista è il denaro. Tutte le anime vengono comprate con il denaro. Dove è il male lì vi è il denaro. In fondo Pabst era un puritano e il sesso, in Lulù, e il denaro, nel Diario, rappresentano le due diverse merci che rovinano l’essenza più vera dell’umanità.


Ne Il Diario vi è un finale consolatorio. Thymian sposa un ricco nobile e torna nell’Istituto di correzione per salvare la sua amica Erika. Pabst, però, intendeva girare un finale alternativo in cui Thymian diviene la proprietaria del bordello …



Questo finale non fu mai girato, ma, certo, Pabst l’aveva ben presente.

Il diario di una donna perduta
Dopo passò a Parigi per interpretare Prix de beauté. Lei è Lucienne, una modesta dattilografa che viene selezionata per un concorso di bellezza europeo. Lo vince, diviene famosa, ma il marito, follemente geloso, la uccide.

Il regista doveva essere René Clair, poi, in seguito a problemi di finanziamento, fu sostituito da Augusto Genina. Ricordo con felicità quel periodo. A Parigi vivevo in pace con me stessa: credo che fosse perché non parlavo il francese. Il fatto di essere perduta era perfettamente naturale tra quelle persone con cui non potevo esprimere né pensieri nè sentimenti. Ricordi che quando tornò il figliol prodigo il padre disse: “era perduto ed è ritrovato”. Fu il padre a trovare il figlio perduto: in certo modo mi è mancato questo esser ritrovata.


Il finale di Prix de beauté è citatissimo. Lucienne viene uccisa mentre guarda sé stessa esibirsi sullo schermo. Lei giace morta, mentre il suo doppio di celluloide continua a cantare indifferente. Una potente metafora del cinema (o dell’arte in generale), che ha il potere di vincere l’oblio. E una metafora della fortuna postuma di Louise Brooks, direi.


Sono d’accordo. In fondo non mi ha mai conosciuto nessuno veramente. Sono un’immagine collettiva più che una donna precisa. Un’icona, come amano dire quelli che hanno studiato.


Secondo Stesicoro, un poeta greco del VII secolo a.C., Paride portò a Troia non Elena, ma una sua immagine. Si scatenò la guerra per un dipinto. Anche Elena di Troia era un simulacro, un idolo, che aveva il potere di muovere l’ammirazione e i cuori degli uomini.


Lei è un tipo simpatico, ma troppo lambiccato. Tuttavia questa riflessione mi fa venire in mente qualcosa.


Prego.


Nel 1935, quando ero caduta in disgrazia, Pabst mi chiamò: aveva in mente di realizzare il Faust. Dovevo impersonare Margherita o Elena di Troia.


E il Faust è alla base del suo tentativo di autobiografia.


Dal Faust trassi il titolo, Naked on my goat. Un verso recitato dalla strega giovane: “Nuda sul capro mio/mostro giovin petto e colmi fianchi”.


L’autobiografia finì nell’inceneritore.


Era troppo esplicita. Per capire integralmente un essere umano occorre far riferimento alle pulsioni più intime, altrimenti i suoi gesti pubblici divengono incomprensibili ai nostri occhi. Avrei dovuto necessariamente alludere al sesso e al desiderio. Molte persone erano ancora in vita, decisi di non farne niente. Per lo stesso motivo non ho mai scritto le mie memorie. E poi, diciamolo, scrivere la verità per lettori nutriti dalle sciocchezze della pubblicità è un esercizio senza senso. Tuttavia Naked on my goat mi insegnò il segreto della scrittura.


Quale?


Scrivere è 1% ispirazione, 99% eliminazione.


Dopo il 1930 lavorò in una manciata di film secondari. Cosa ricorda di quel periodo?


Come spiegato, il sistema mi aveva eliminata. Anche per mia colpa. Nel 1931 rifiutai la parte di protagonista in Nemico pubblico, con James Cagney, che il mio amico Wellman mi aveva proposto per farmi tornare in carreggiata. Un’ulteriore chiodo infitto nella mia bara d’attrice. Cosa altro? Un cortometraggio insulso, Windy Riley goes to Hollywood, che aveva, però, il pregio d’essere diretto dal grande Roscoe Fatty Arbuckle. Fatty era ormai in disarmo come un transatlantico a fine carriera. Nel 1921 era stato accusato della morte della stellina Virginia Rappe. L’aveva stuprata a morte, dissero. Lui, il grande, enorme, soffice Fatty! Subì tre processi e, infine, fu assolto; probabilmente la causa della morte fu un aborto andato male, o forse no, chi lo sa. Ma Arbuckle, che era sfuggito a malapena al linciaggio, era comunque finito. Assunse il sarcastico nome di Will B. Goodrich [I will be good = farò il bravo] per tirare a campare con tali sciocchezzuole. Ricordo anche il mio ultimo film, Overland stage raiders, un western di serie B con un giovane, magnifico, John Wayne.

Roscoe Fatty Arbuckle
E dopo il 1938?


Tornai a Wichita, aprii una scuola di ballo, scrissi pure un libretto The fundamentals of good ballroom dancing. Poi di nuovo a New York; feci la commessa da Saks, la pubblicità radiofonica, la mantenuta. Furono anni duri. Mi reclusi, mi seppellii. Non volli più vedere nessuno.


Sino al 1955. In quell’anno Henri Langlois, influente direttore della Cineteca Nazionale di Parigi, in occasione della mostra 60 ans de cinema, non solo riproporrà i suoi film dimenticati, ma userà il suo volto come simbolo della mostra stessa (assieme a quello di Renée Falconetti). Interrogato in merito all'esclusione di attrici come Marlene Dietrich e Greta Garbo, il vulcanico Langlois, fine conoscitore del periodo muto, risponderà:"Ma quale Dietrich, ma quale Garbo, c'é solo Louise Brooks!".


Anche James Card, il fondatore della George Eastman House, fu importante per la mia riscoperta. Nel 1956 mi ero definitivamente trasferita a Rochester, presso New York, e Card mi aprì gli archivi della Eastman House, dove, per la prima volta, vidi i miei film. James, poi, mi incoraggiò a scrivere. Lulù in Hollywood nasce da lì. Lo sdoganamento totale arrivò nel 1979, con l’articolo del New Yorker a firma Kenneth Tynan, The girl with the black helmet.

Non vorrei sembrare nazionalista, ma gli italiani la riscoprirono prima del 1955 ...


Davvero?



Nel 1951 Francesco Savio scriveva: “Louise Brooks, una delle più grandi attrici del cinema … una donna mito … la sua singolare immagine mostra di non temere gli oltraggi del tempo”. Addirittura nel 1937 Luigi Comencini, futuro grande regista, già la definiva “donna strabiliante”. E si basavano solo su immagini, perché la censura fascista non fece uscire i suoi film tedeschi in Italia. Per tacere di Crepax che modellò il suo fumetto più famoso, Valentina, su Louise Brooks.

Apprendo per la prima volta i giudizi dei due signori italiani. Crepax, invece lo conoscevo bene. Intrattenni un bellissimo epistolario con lui. Nel 1975 mi spedì un suo volume, Imitazioni di Louise Brooks in cui appariva questo singolare personaggio, Valentina. Me ne innamorai subito. Negli anni Venti e Trenta anche Frank Striebel si ispirò a me per il personaggio di Dixie Dugan.

Altri disegnatori la ritrassero nel tempo: Hugo Pratt, Milo Manara, Tanino Liberatore, Magnus, Pablo Echaurren. Recentemente è uscita un bella biografia a fumetti su di lei, Louise et le loups, di Marianne Mousse.

Sono piacevolmente colpita.

Valentina e Crepax
Cosa pensa del cinema d’oggi?

Al solito. I vecchi film sono brutti. I nuovi film i migliori. Un attore è considerato solo per il suo ultimo film. La pubblicità vive sull’oggi e la dimenticanza. E il pubblico viene continuamente educato a disprezzare i vecchi film.


Cosa pensa di Guerre stellari?


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Film che consiglierebbe di vedere subito?


Il vento, con Lillian Gish, Il ciclone di Buster Keaton e Aurora di Murnau, con Janet Gaynor e Margaret Livingston, l’attrice che doppiò al mio posto The Canary murder case.


È mai stata felice?


Sono stata infelice per la maggior parte della mia vita. Quello che i miei amici cercavano - fama, soldi e potere - erano cose che mi avvilivano. I loro piaceri - distrazioni sessuali, darsi delle arie, diventare importanti – non riuscivano a rendermi felice. Ho cominciato un po' ad esserlo quando venni a  Rochester. Ero lontana da chi pretendeva qualcosa da me. Potevo vivere a modo mio e chiudere la mia porta ogni notte dicendo : "Grazie a Dio sono sola". Per quanto riguarda l'amore sono fatta ad immagine di Lulù: non ho mai amato nessuno.


Non si crucci. La felicità è come l'elemosina gettata ad un mendicante. Gli permette di vivere oggi per prolungare il suo dolore l'indomani.


Chi l’ha detto?


Schopenhauer.


Non male. Lo aggiungerò al catalogo delle mie letture.

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Consigli di lettura

Margarete Bohme (a cura di Thomas Gladysz), The diary of a lost girl (Louise Brooks edition), 2010

Valentina come Louise Brooks, catalogo della mostra omonima, Fandango, 2012

Marion Mousse, Louise et le loups, 2012

Filmografia e consigli di visione

Per la filmografia dettagliata, cliccare qui

1925. The street of forgotten men, regia di Herbert Brenon

1926. The American Venus, regia di Frank Tuttle. Perduto

1926. Love 'em and leave 'em, regia di Frank Tuttle

1926. A social celebrity, regia di Malcolm St. Clair. Perduto

1926. It's the old Army game, regia di A. Edward Sutherland

1926. The show-off, regia di Malcolm St. Clair. DVD italiano

1926. Just another blonde, regia di Alfred Santell. Perduto

1927. Rolled stockings, regia di Richard Rosson. Perduto

1927. Now we're in the air, regia di Frank R. Strayer. Perduto

1927. The city gone wild, regia di James Cruze. Perduto

1928. A girl in every port (tit. it. Capitan Barbablù), regia di Howard Hawks. VHS italiano, introvabile

1928. Beggars of Life, regia di William A. Wellman.

1929. The Canary murder case, regia di Malcolm St. Clair e Frank Tuttle. DVDitaliano

1929. Die Büchse der Pandora (tit. it. Lulù), regia di Georg Wilhelm Pabst. DVD italiano

1929. Das Tagebuch einer Verlorenen (tit. It. Diario di una donna perduta), regia di Georg Wilhelm Pabst. VHS e DVD introvabili

1930. Prix de beauté (tit. it. Miss Europa), regia di Augusto Genina. DVD italiano

1931. Windy Riley goes to Hollywood, regia di Roscoe 'Fatty' Arbuckle

1931. It pays to advertise, regia di Frank Tuttle.

1931. God’s gift to women, regia di Michael Curtiz.

1936. Empty saddles, regia di Lesley Selander

1937. When you’re in love (tit. It. Amanti di domani), regia di Robert Riskin

1937. King of gamblers, regia di Robert Florey

1938. Overland stage raiders, regia di George Sherman (tit. It. Ringo cavalca e spara), regia di George Sherman

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