sabato 6 luglio 2013

Meridiano di sangue, la grande epica lungo la "frontera"

G. Luca Chiovelli


Meridiano di sangue (2^ parte)


Meridiano di sangue, di Cormac McCarthy, è uno dei rarissimi tentativi, riusciti, di evadere dalla letteratura d'ambientazione borghese e di ricucire il rapporto sfilacciato con la grande epica. Esperimento doppiamente meritorio poiché approntato da un americano, in terra americana, ovvero in partibus infidelium, nelle regioni ideologiche dove la letteratura del quotidiano e della psicologia spicciola cresce, si diffonde  e s'impone globalmente con l'inarrestabile leggerezza dell’ovvio prodotto di consumo.
McCarthy nasce nel Rhode Island (a Providence, città natale di H. P. Lovecraft, altro antimodernista a lui ideologicamente affine), ma si trasferisce e si reclude presto nel Tennessee, nel Sud-Est, laddove può abbeverarsi all'unico mito antiborghese proprio dell'America, quello della frontiera, del limite, del confine. Tale mito, adeguatamente trasfigurato, innervato dalle letture di Friedrich Nietzsche e dei presocratici greci (di Anassimandro o, meglio, dalla lettura che Nietzsche diede di quel pensatore pre-logico), è alla base del libro in questione.
Meridiano di sangue, lo affermo da subito, è un capolavoro assoluto, per lo stile al contempo realistico e barocco, e per la profondità dell'evocazione filosofica. Già questo basterebbe a inserirlo fra i maggiori della sua terra; ma, in più, esso si vale d'una caratterizzazione simbolica eccezionale, quella del Giudice Holden, che lo appaia, già da adesso, all'altro feticcio della letteratura americana, il Moby Dick di Melville.
Seguire i due piani di lettura, il narrativo e il simbolico, non è facile.
Per nostra fortuna i libri possono leggersi in tanti modi: questo è un segno della loro immortalità. Si può seguire la storia principale saltando le parti filosofiche (i monologhi del Giudice); oppure, in seguito, leggere esclusivamente quelle, meditarle, quindi ricominciare daccapo con l'intera opera. I classici agognano la rilettura (oltre a sopportare i giudizi degli imbecilli): son come i tappeti di Ishafan che, col calpestio e l’uso, migliorano la nettezza del disegno.
In questo post esamineremo il livello evidente, narrativo, con ampi estratti dalla prosa di McCarthy, baluginante e splendidamente barbarica. In seguito ci dedicheremo all’analisi della figura del Giudice, al cuore filosofico del libro.

La narrazione è presto detta. Siamo in una zona di frontiera, fra gli Stati Uniti e il Messico, attorno al 1850. Un Ragazzo (The Kid) si arruola, come mercenario, nell'esercito del capitano White, ufficiale di ventura investitosi del compito di soffocare gli ultimi focolai dell'irredentismo messicano. Le milizie, male assortite, sono spazzate via da un attacco indiano. Sopravvissuto per miracolo, si arruola quindi fra gli irregolari del capitano Glanton, un cacciatore di scalpi (scalpi di messicani, di indiani, di uomini tutti) che si muove di massacro in massacro come un inviato dell’inferno. Fra loro il Giudice Holden.Gli incontri fra il Giudice e il Ragazzo aprono e chiudono il libro. La struttura è, quindi, men che scarna: una anabasi circolare, senza meta o scopo, che si appaga del sangue e che chiede altro sangue. Inutile cercarvi redenzione o quiete o il latte di qualsivoglia credenza o morale conosciuta. Qui siamo oltre l’uomo, come vedremo.

Lo scritto rifiuta, peraltro, la definizione di romanzo; Meridiano di sangue è, piuttosto, il rotolo biblico di una nuova concezione dell’esistenza. Di conseguenza i protagonisti perdono il ruolo consueto assegnatogli dalle strutture letterarie tradizionali. Essi vengono costituiti quali pedine di un gioco più vasto (cosmico, direbbe Lovecraft), e derubricati a proliferazioni insensate, moltitudini dalla vita erratica e transeunte coinvolti in una sarabanda che non distingue fra carnefici e vittime.

Ecco, ad esempio, la prima apparizione degli indiani, sorti d'improvviso dal nulla come le Weird Sisters di Macbeth, un esercito maledetto oggettivato nei toni surreali e angosciosi dell'incubo:

…  sorse un'orda fantastica di lancieri e arcieri a cavallo armati di scudi adorni di pezzi di specchio rotto che abbagliavano con mille frammenti di sole gli occhi dei nemici. Una legione di esseri orribili, a centinaia, seminudi o coperti da costumi attici o biblici o bardati di vesti uscite dal guardaroba di un sogno febbrile, pelli di animali e fronzoli di seta e brandelli di uniforme ancora macchiati del sangue dei precedenti proprietari, giubbe di dragoni trucidati, giacche di cavalleggeri con alamari e passamani. Uno aveva il cilindro in testa e un altro l'ombrello e un altro ancora calze bianche da donna e un velo da sposa macchiato di sangue. Alcuni portavano in capo penne di gru o elmetti di cuoio greggio con corna di toro o di bisonte e uno indossava un frac all'incontrario sul corpo nudo e un altro la corazza di un conquistador spagnolo, con la pettiera e gli spallacci profondamente segnati da vecchi colpi di mazza o di sciabola inferti in un altro paese da uomini le cui ossa erano polvere. Molti avevano i peli di altre bestie intrecciati nei capelli lunghi fino a terra, e le orecchie e la coda del cavallo adorne di pezzi di tessuto dai colori sgargianti. Uno aveva dipinto di rosso cremisi la testa del suo animale, e le facce di tutti i cavalieri erano coperte da pitture così sgargianti e grottesche da trasformare la cavalcata in una brigata di clown di mortale allegria, e tutti ululavano in una lingua barbarica e caricavano come un'orda uscita da un inferno ancora più spaventoso della landa sulfurea immaginata dai cristiani, fra urla e guaiti, avvolti dal fumo come quegli esseri fantastici che dimorano in regioni poste al di là della ragione umana, dove l'occhio si perde e la bocca sbava e si contrae".


Apparizioni che vivono della morte di altre apparizioni (di altre vittime: spagnoli e coloni), attori miserabili e coatti di un teatro del Caos primordiale, dove le generazioni che muoiono sono concime per le nuove, ed entrambe dannate a ripetere un destino comune di violenza e sopraffazione reciproca, ciclico ed eterno. Ancora:


"
[Apparvero] neri contro il sole, ed emergevano da quel mare estinto come fantasmi bruciati, con le zampe degli animali che sollevavano una spuma irreale. Perduti nel sole e perduti nel lago, scintillavano e si raggrumavano e tornavano a separarsi, e aumentavano sovrapponendosi in spaventevoli avatar e cominciavano a fondersi insieme, e poi sopra, nel cielo sbozzato dall'alba, iniziò a profilarsi l'infernale riflesso dalle file: cavalcavano immani a testa in giù, e le zampe incredibilmente lunghe dei cavalli correvano sulle nuvole alte e sottili e i guerrieri rovesciati urlavano appesi ai loro animali immensi e chimerici, e le urla forti e selvagge percorrevano il bacino piatto e brullo come grida di anime che irrompessero nel mondo sottostante attraverso una smagliatura nel tessuto delle cose.

I mercenari di Glanton sono concrezioni altrettanto luride, armate allucinate di crociati bestiali e corruschi di armi, turbe apocalittiche di un Bosch nichilista e definitivamente pazzo. Ecco le loro entrate nelle città di confine, parodie dei trionfi dell'antica Roma:

"
Il mattino dopo la pioggia era cessata e gli uomini apparvero per le strade, sbrindellati, puzzolenti, adorni come cannibali di parti del corpo umano. Tenevano alla cintola le enormi pistole, e le pellacce che indossavano portavano macchie profonde di sangue, di fumo e di polvere da sparo ..."

"... nella  foschia dell'alba gli uomini che cavalcavano cenciosi e insanguinati, con i fagotti di pelli gregge, non sembravano tanto dei vincitori quanto la spoglia retroguardia di un esercito sconfitto in ritirata attraverso i meridiani del caos e di una notte antica, i cavalli che incespicavano, i cavalieri che barcollavano addormentati in sella ... [furono] accolti come eroi, spingendo davanti a sé i cavalli dal manto variopinto in un pandemonio di denti e biancheggiare d'occhi ... i vincitori con i loro stracci insanguinati sorridevano fra il sudiciume e la polvere e il sangue incrostato, e sfilavano in quel tripudio di musica e fiori portando, infilzate su pali, le teste essiccate del nemico ... [essi] erano tutti tatuati, segnati, ricuciti, con le grandi cicatrici raggrinzite, inaugurate Dio sa dove e da quali barbari chirurghi, che attraversavano petto e addome come orme di giganteschi millepiedi, alcuni deformi, privi di dita e occhi, con la fronte e le braccia marchiate a lettere e numeri come articoli d'inventario.”

Tutto, persino la natura animale, pare coinvolta in tali debordanti trionfi della morte.


"
Durante la notte alcuni cavalli cominciarono a nitrire e all'alba ne trovarono parecchi impazziti, abbacinati al punto che dovettero 
sparargli ... il cavallo morso dal serpente era morto, la testa informe allungata nel fango ..."

"Un magro orso grigio ... li guardò con torbidi occhi porcini ... Poi si voltò [verso i Delaware] con moto sbigottito, assolutamente sorpreso, con uno schifoso grumo di cibo che gli penzolava dalle fauci e le mascelle rosse di sangue"

Solo l'inorganico, descritto nella propria adamantina indifferenza, sembra sottrarsi al gioco di morte: una natura antichissima - alberi, nuvole, nebbie, fulmini, pietre - immobile come il fondale precambriano d’una recita cruenta:



"Alla luce del rosso e lontano tramonto le distese d'acqua nella pianura sottostante sembravano pozze residue di sangue primordiale .... Passarono attraverso un prato montano col suo tappeto di fiori di campo, acri di calderugia dorata e di zinnia e di genziana viola e viticci ritorti di ipomea blu, e una vasta pianura colma di piccoli fiori variegati che si protendeva come percalle stampata verso i lontani bordi dentellati del prato coperti da una foschia azzurra e le catene adamantine che sorgevano dal nulla come dorsi di mostri marini in un'alba devoniana”


Quella notte attraversarono una regione elettrica e selvaggia, dove strane fiammelle azzurrine guizzavano sul metallo delle bardature dei cavalli e le ruote dei carri giravano in cerchi di fuoco e luci azzurro pallido si posavano sulle orecchie dei cavalli e nelle barbe degli uomini.
A ovest, per tutta la notte, lampi ramificati scaturiti dal nulla tremarono dietro i cumulinembi di mezzanotte, illuminando a giorno il deserto lontano di una luce bluastra, e contro l'orizzonte balenante le montagne si stagliavano dure e nere e livide, distanti e aliene come terre la cui vera geologia non era la pietra ma la paura. Il tuono si avvicinava da sudovest e i lampi illuminavano il deserto tutt'intorno, azzurro e desolato, grandi distese rumoreggianti che emergevano dal buio assoluto come regni demoniaci chiamati a raccolta o come terre create dalle fate che al sorgere del giorno non avrebbero lasciato dietro di sé né traccia né fumo né rovine, proprio come gli incubi”.


La prosa di McCarthy è sempre nitida, dalla precisione cristallina, mai generica. Le sovrabbondanze barocche obbediscono a una duplice funzione: di tenere alto lo stile (che in duecento pagine non ha mai cedimenti) e di render sul piano linguistico l'immane portata della visione metafisica secondo cui il cosmo non consiste se non in una successione eterna di nascite e morti.

Questa, e solo questa, è l'essenza del dolore primigenio, del sentimento tragico.

E  tale dolore non possiede nemmeno il riscatto della testimonianza poetica. Gli uomini entrano ed escono incessantemente dal breve circolo dell'essere, storditi dalla sofferenza e dall'incomprensione, incapaci a lasciare un sia pur minimo segno del loro passaggio, e non esistono testimoni a risarcirli di questa somma ingiustizia.


"Quella notte, molte ore dopo il tramonto, quando la luna era già alta, un gruppo di donne che erano andate a pescare su per il fiume ritornarono al villaggio e vagarono ululando fra le rovine. Qualche fuoco bruciava ancora sotto la cenere, e qualche cane strisciava via fra i cadaveri. Una vecchia si inginocchiò presso le pietre annerite davanti alla porta della sua capanna, mise un po' di sterpaglia fra i tizzoni e soffiò finché non vide una fiamma levarsi dalle ceneri, poi cominciò a raddrizzare gli orci rovesciati. Tutt'intorno a lei giacevano i morti con i crani sbucciati simili a polipi umidi e azzurri o a meloni luminescenti che si raffreddassero su una mesa della luna. Nei giorni seguenti le fragili enigmatiche tracce nere lasciate dal sangue su quelle sabbie si sarebbero crepate e spaccate e sarebbero scomparse, cosicché nel giro di pochi soli ogni traccia della distruzione di quella gente sarebbe stata cancellata. Il vento del deserto avrebbe coperto di sale le rovine, e non ci sarebbe stato nulla, né spettro né cronista, a raccontare a tutti i viaggiatori di passaggio com'era avvenuto che uomini fossero vissuti in quel luogo e in quel luogo fossero morti".

In questo risiede la tragedia nella sua essenza più pura, ovvero nella distanza incolmabile fra i nostri sforzi di restare nell'essere e l'implacabile risucchio nel nulla esatto da una divinità implacabile e straniera  ai destini umani.
A questa farsa abbiamo dato il nome di Male; ad essa non c'e deroga o lenimento.
A presiederla, secondo l'ordine del tempo, in accordo a sentenze irrevocabili scritte con il sangue, siede, come uno smisurato e ridente infante dionisiaco, il Giudice Holden.

5 commenti:

  1. bellissimo il libro e bellissimo il commento

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  2. ho letto tanto, ho letto di tutto. da qualche tempo rileggo mc Carthy, almeno tutto il mc Carthy edito in italia. nessuno gli assomiglia, forse w c Faulkner. condivido Chiovelli, ritengo il Meridiano inarrivabile per visionaria epicità, descrizioni/similitudini non trovabili in altri testi, sincopata lucidità dei dialoghi, tecnica assolutamente sofisticata e pura mimetizzata nelle trame (in tutte le trame di mc Carthy). E Montanari traduce alla grande.

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  3. ho tentato di leggere meridiano di sangue nella versione originale in inglese, ma dopo le prime 50 pagine ho abbandonato l'impresa disperata. ora mi sto cimentando in quella italiana...

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  4. Friedrich Nietzsche diceva:"Aver dato a tutti la possibilità di leggere ha rovinato lo scrivere".Con Cormac non è successo. Grandissimo commento il vostro, sarebbe una perfetta appendice a questo capolavoro senza tempo. Sono di parte quando parlo di Cormac perchè è il mio scrittore preferito da molto tempo e amo tutti i suoi libri, "Meridiano di sangue" è forse il suo romanzo più riuscito ma il mio preferito resta "Suttree".

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  5. "...come un'orda uscita da un inferno ancora più spaventoso della landa sulfurea immaginata dai cristiani, fra urla e guaiti, avvolti dal fumo come quegli esseri fantastici che dimorano in regioni poste al di là della ragione umana, dove l'occhio si perde e la bocca sbava e si contrae".
    Qui è purissimo Lovecraft...

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