martedì 10 settembre 2013

La cultura si mangia

Raethia Corsini

La richiesta mi è arrivata via mail: un invito per partecipare, in qualità di relatrice, alla presentazione di uno dei titoli della nuova collana dell’editore Slow food: Piccola Biblioteca di Cucina Letteraria. È uno degli incontri in programma per festeggiare il compleanno di Settembrini, nel quartiere Prati, libreria, cafè, ristorante nato dieci anni fa. Fu, come ogni impresa, una scommessa. Se festeggiano – da oggi fino a fine mese - con un programma davvero nutrito e nutriente (molte cene e aperitivi con chef di levatura, qui il blog per info) vuol dire che qualche successo la formula l’ha ottenuto anche in questi tempi bigi. Alla presentazione di uno dei titoli della collana Slow food sono invitata perché scrivo e ho scritto di cibo, cuochi, cultura gastronomica. E il programma della festa di Settembrini include tutte queste “voci”, l’una imprescindibile dall’altra. Ora, benché abbia versato inchiostro sul tema, la mia opinione sul mirabolante circo che gravita intorno al mondo della cucina si è deteriorata alla stessa velocità con la quale si deteriora un branzino lasciato fuori dal frigorifero. Di cibo sono piene le Tv: per lo più si tratta di talenti alla prova e ricette eseguite “live”, rito che afferra l’attenzione dello spettatore come e più (pare) di una puntata di Grey’s Anatomy (e certi programmi sono al pari ripugnanti, non me ne vogliano i cultori del genere).  Anche gli scaffali delle librerie alla sezione gastronomia straboccano di titoli e best seller, e questa in parte è una novità: da noi, in Italia, Paese dotato di una varietà impressionante di (ottimi) prodotti della Terra, alla quale corrisponde un’altrettanta varietà innumerevole di ricette (in quanti modi si può fare, per esempio, la pommarola?) la letteratura gastronomica si è affermata veramente solo negli ultimi dieci anni, durante i quali anche Pellegrino Artusi ha conosciuto una rinnovata fama, citato perfino nelle chiacchiere da bar tra gourmand (non gourmet!). Fino all’inizio del Terzo Millennio, qui nel Bel Paese, un libro di cucina era più un ricettario che un racconto. Chi si spingeva a scriverne, o addirittura si avventurava in un romanzo intorno al tema cibo, era invariabilmente marchiato autore di serie C (meno dei giallisti, qualcosina in più degli autori di rosa). Nell’aria ora si avverte un cambiamento.
Per esempio: dal 2006 è stato istituito il Premio Bancarella della cucina che, nel male e nel bene come per ogni premio, rappresenta un segnale che dà valore al “genere”. E, contraddicendomi per amore del bicchiere mezzo pieno, forse una spinta la sta dando anche la bulimica rappresentazione dell’italica (in)cultura gastronomica finita nei food talent show, nelle penne (a sfera) di food blogger e in quelle di groupie che si affannano per un autografo del grande chef divo dei fornelli, oggi figura professionale alla quale aspirare (ricco, famoso e sexy perché si sa un uomo ai fornelli è seducente…). Succede sempre: quando “qualcosa” diventa un fenomeno tutti ne parlano o –meglio – non possono fare a meno di parlarne. E tutti s’improvvisano esperti. Può darsi anche che “qualcosa” diventi un fenomeno perché semplicemente tutti ne parlano, ma non è questo il luogo per discettarne. Di certo è prassi che, della babele di parole, discorsi, orazioni, prediche, opinioni, osceni "spadellamenti" di improbabili presentatori-chef o chef impresentabili (cuochi di valore ribellatevi!), molto si perda in un immenso minestrone fatto con ingredienti scadenti. Per questo ciò che è davvero "buono" vale doppiamente la pena conoscerlo.
Il cuore del discorso intorno alla gastronomia è – come va ripetendo Carlo Petrini da trent’anni – la relazione stretta tra vita del Pianeta e l’esistenza di chi lo abita, questo Pianeta. E senza scomodare antropologi e psicologi è oramai un assunto che il cibo è mezzo di relazione con l’altro, con la Terra, con sé stessi: alla fine si resta sempre noi con lui, in tutte le sue forme. È una convivenza forzata, piacevole, esaltante, affettuosa, consolatoria e perfino d’iniziazione. Narrare storie attraverso la lente del cibo, indugiare in descrizioni di pranzi e cene nella trama di un romanzo, ripercorrere la storia di un Paese o di un’Epoca usando il grimaldello di un ricettario sono perciò modi per raccontare la vita, i tempi, le civiltà, le emozioni e – ovviamente – il vasto mondo dei sensi. Può essere lettura intrigante o maledettamente soporifera: scrivere di cibo non è facile come mangiarlo, il cibo. Così, con questi pensieri (scettici), ho letto i cinque titoli della nuova collana Slow food e posso dire che sono contenta di avere accettato l’invito. La Piccola Biblioteca di Cucina Letteraria affida a scrittori affermati il compito di produrre piccole opere per celebrare l’esperienza del cibo. Moni Ovadia parla di un uomo diventato un dolce; Nicola Lagioia confessa tormenti e gioie private legate a un piatto di spaghetti cozze e vongole, sua folgorazione a otto anni e in seguito nell'alcova; Simonetta Agnello Hornby e Chiara Agnello narrano una favola di marzapane e dell’inventiva tutta femminile; Massimo Carlotto in un attraente viaggio argentino alle prese con un asador e un mistero, porta il lettore in terre dell’altrove affinando l’olfatto; Carlo Petrini racconta della zuppa di latte e dei risvolti socio-economici; Matteo Codignola, con le dita unte di focaccia, ci accompagna in un mondo di personaggi tra bar e casa. Sono piccoli libri di 40 pagine nelle quali ogni autore, forte del proprio stile, conduce il lettore in un mondo reale o fantastico, tra personaggi e suggestioni che trovano ispirazione nel cibo o che, viceversa, hanno ispirato un percorso del palato. Ogni racconto punta a quel cuore del quale parla da sempre il fondatore di Slow food, Petrini, e centra le emozioni e le relazioni che il cibo concede. Una rapida storia dell’ingrediente protagonista del libro e la ricetta, chiudono ogni agile libriccino lasciando in bocca il sapore di una deliziosa proposta culturale. Come fa ogni pietanza ben fatta. 


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