mercoledì 14 agosto 2013

Alla scoperta del Neanderthal dentro di noi

Maria Teresa Carbone
Cave of Forgotten Dreams, la grotta dei sogni dimenticati, è il titolo del documentario che Werner Herzog ha realizzato nel 2010, calandosi dentro gli stretti cunicoli della grotta Chauvet nell'Ardèche, in Francia, per riprendere le meravigliose pitture rupestri risalenti al Paleolitico Superiore, circa 30.000 anni fa, e scoperte nel 1994 dall'archeologo che ha dato alla caverna il suo nome. A un certo punto la videocamera di Herzog inquadra una parete su cui sono dipinte in cerchio molte teste di cavallo, incredibilmente nitide e espressive. Ma oltre alla straordinaria bellezza del ciclo, a colpire il regista, e noi che lo seguiamo nel suo viaggio dentro i budelli della terra e di un passato lontanissimo, è che questi cavalli furono dipinti in un arco di 5.000 anni. Osserva Herzog: "Oggi noi siamo prigionieri del tempo".
Commento laconico, che l'accento tedesco e la voce ruvida del regista rendono più tagliente. Ma come non essere d'accordo? Quel formidabile spartiacque che fu, e continua a essere, l'invenzione della scrittura, se da un lato ha fornito alla specie umana un potente congegno per muoversi attraverso i secoli, dall'altro pone rigidi limiti al nostro orizzonte mentale.
“Due secoli fa la preistoria non esisteva” scrive l'archeologo britannico Colin Renfrew in apertura del saggio Preistoria. L'alba della mente umana (Einaudi 2011), notando come solo a partire dalla metà del XIX secolo si affermi l'idea di una “antichità dell'uomo” non riconducibile a testimonianze scritte. È paradossalmente una storia breve, quella della preistoria, il che spiega perché anche oggi non sia facile concepire che migliaia di generazioni di esseri umani uguali a noi si siano succedute in un arco temporale ben più lungo di quello illuminato dal cono di luce della parola scritta. 
Eppure nel passato remoto della nostra specie, in quella che ci appare una buia penombra, molto è accaduto. Lo rivelano gli stupendi dipinti della grotta Chauvet e lo confermano le nuove ricerche in base alle quali dobbiamo di continuo rivedere le ipotesi che temerariamente azzardiamo sulle nostre origini. Lo studio più recente, pubblicato ai primi di luglio sulla rivista “Frontiers in Language Sciences” da un gruppo di scienziati dell'Istituto Max Planck per la psicolinguistica, ci porta più indietro rispetto alle pitture dell'Ardèche, al tempo in cui sul territorio europeo si ritrovarono a convivere l'Homo sapiens, di cui noi siamo i pronipoti, e  l'Homo neanderthalensis, destinato a estinguersi – due specie diverse ma “cugine”, discendenti entrambe da un comune antenato, l'Homo heidelbergensis
Fondandosi sulle ultime scoperte paleoantropologiche e soprattutto su una analisi accurata dell'antico Dna, gli studiosi del Max Planck, guidati da Dan Dediu e Stephen C. Levinson, sono arrivati alla conclusione che le origini del linguaggio moderno, solitamente situate circa cinquantamila anni fa, risalgano a un periodo molto precedente, circa mezzo milione di anni indietro, quando appunto apparve l'Homo heidelbergensis. In base a questa teoria, il linguaggio non sarebbe il frutto di una mutazione  improvvisa, ma il risultato lento e graduale di una lunga serie di trasformazioni biologiche e culturali.  Per Dediu e Levinson, quindi, non solo l'Homo sapiens, ma anche i neandertaliani svilupparono forme di linguaggio, e i contatti tra le due specie portarono a incroci genetici e culturali dei quali – e qui sta la vera novità – anche le lingue contemporanee conserverebbero alcune tracce. In altri termini, i due studiosi ritengono che almeno in parte l'attuale diversità linguistica che caratterizza le popolazioni del pianeta sarebbe dovuta a quegli antichissimi incontri, una idea – aggiungono Dediu e Levinson – che “si potrà verificare attraverso un confronto delle proprietà strutturali delle lingue africane e non africane  e una serie di minuziose simulazioni al computer della diffusione linguistica”. 
Per sapere se questa ipotesi è fondata o se invece, come sostengono tra gli altri gli autori di una ricerca recente condotta dall'università di Oxford, Homo sapiens e Homo neanderthalensis non si incrociarono mai, dovremo quindi aspettare nuove verifiche e controlli. Ma di fronte alla constatazione, questa sì condivisa, che nel nostro Dna ci sono tracce di geni neandertaliani (dovute agli incroci diretti tra le due specie per gli uni, all'antenato comune heidelbergensis per gli altri), c'è chi non ha aspettato: aziende come la 23andme propongono per una cifra relativamente abbordabile (un centinaio di dollari) una analisi del Dna, promettendo di rivelare la percentuale di Neanderthal che è in noi. Poco più di un gioco, a dispetto della “scientificità” del test, ma anche un modo per sentire più vicini i nostri antichissimi predecessori, per cercare di rintracciare dentro di noi i loro sogni dimenticati.

Questo articolo è uscito il 13 agosto sul magazine online dell'università di Padova, il Bo, con il titolo Il sogno di pietra.

Nessun commento:

Posta un commento