martedì 21 maggio 2013

Viola Di Grado, "Cuore cavo" tra la morte e la vita


Viola Di Grado, Cuore cavo, e/o, pp. 166, euro 16
Patrizia Vincenzoni
La storia di un suicidio raccontata da colei che lo ha compiuto: la data, il 23 luglio del 2011, e la città, Catania, invasa da un caldo bruciante.   Questo l'incipit del secondo romanzo di Viola Di Grado, pubblicato da e/o.   Il corpo di Dorotea, la protagonista del libro, abbandonato dalla vita e riverso dentro la vasca da bagno è l'epicentro della morte e da lì questa inizia ad espandersi toccando luoghi e cose, in una simmetria che inizia e finisce in un  "rigor mortis del pianeta Terra" che  " è  cominciato dal mio cuore".
Da subito l'autrice ribalta le prospettive occidentali riguardo il ciclo iniziale e conclusivo della vita.  "Abbatto la barriera tra la vita e la morte....considerandole...non come evento ma come processo".
I suoi interessi per la cultura orientale e per il buddhismo l'aiutano a cercare passaggi e soluzioni narrative nelle quali produce riflessioni sulla fluidità dell'identità .   La definizione dell'Io, da cosa è composto, dove inizia e dove finisce, come si perde, sono domande che la incalzano è che sono alla base di Cuore Cavo.
La stanza da bagno e la città sono luoghi di una geografia interiore, la cui mappa è segnata da abbandoni che hanno reso impossibile la comunicazione fra le persone e l'esperienza continuativa di essere visti, amati.   Abbandoni e incomunicabilità che attraversano anche la storia familiare della madre di Dorotea, segnata dal suicidio di una sorella adolescente.
La morte al centro della narrazione nel testo diventa per Dorotea allora un'opportunità per osservare e ri-appropriarsi della propria storia, affermando il bisogno di testimonianza dell'essere al mondo paradossalmente attraverso una non presenza.
 Vita e morte, dunque, intese come processo che rende pensabile la metamorfosi, la mutazione della forma che cambia, come sta a ricordare l'illustrazione in copertina di un'opera dell'artista Atsuo Sakazume.
Nel romanzo il dissolvimento delle forme si avviluppa a un progressivo smarrimento del sentimento di sé, descritto attraverso la memoria storica e da questa inusuale sua 'presenza' che transita nei luoghi abitati (spesso disabitati in senso psichico) dalle persone e in quelli  dove incontra i morti, in un'alternanza temporale che cattura man mano si procede nella lettura.
È come un precipitare dentro la narrazione, a volte difficile da sostenere perché alcuni dettagli relativi al disfacimento del corpo sono ossessivamente precisati, quasi ci rincorrono, ma la sensazione di essere in caduta libera in questa storia è dovuta anche ai modi in cui sono esplorate le relazioni passate e quelle che 'ora' Dorotea vorrebbe impossibilmente vivere. Quella con la madre ha uno spazio maggiore, presenza materna che sembra corrispondere ad un avamposto conflittuale e desertificato da e di un malessere profondo e ripiegato in se stesso, che ha la sua matrice psicogenetica nella figura della nonna materna.
Attraverso una scrittura originale che sembra conversare con le parole, la De Grado ci conduce lungo l'asse intergenerazionale familiare con salti temporali che permettono di esplorare e poi integrare la vita trascorsa con quella 'attuale'.   La fatica e il dolore di vivere, tramandati e consegnati da madre in figlia nel corso delle generazioni come testimoni muti e inconsapevoli,contengono anche la privazione della figura paterna, assenza radicale nel senso che non ha mai avuto per Dorotea un volto, un nome, un'identità.   Mancanza che determina comunque un'attesa epifanica nella quale s'immagina come pietrificata, come se "dovevo rimanere come un fossile: sepolta nella mia casa polverosa finché il suo ritorno mi avesse riesumata".
Anche l'astensione psichica della madre verso di lei determina un senso di sé e di essere al mondo insicuro e conflittuale, e le parole che descrivono questo vissuto, così efficaci anche sul piano rappresentativo, ci giungono con la rassegnazione di chi non è abituata a sentirsi ascoltata e vista. "Quella era mia madre:vivevamo insieme, ma non sapevo come raggiungerla. Quella stanza vuota era la stanza dove vivevo, ma non c'erano prove".
Il percorso che effettua nell'esistenza delle persone, avendo ormai dismesso i 'panni da viva', la portano a incontrare la sorella della madre morta suicida, alla quale viene attribuito il  nome  suggestivo di Euridice, incontro che determina, finalmente, la separazione fra mondo dei vivi e dei morti.  Dorotea riesce a disseppellire il ricordo e i vissuti di colpa che impedivano alla madre l' elaborazione del lutto verso la sorella e verso Dorotea stessa, 'colpevole' di essere viva,sopravvissuta .  Allora sarà possibile una nuova nascita che nelle pagine finali del romanzo non si riferisce solo al piano biologico, ma anche a quello simbolico che attraverso la  morte rende possibile il nascente, funzione e possibilità di attuare passaggi nuovi e significativi nei cicli dell'esistenza.

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