lunedì 12 agosto 2013

Parola di Capitano / 12


Nelle puntate precedenti: il Capitano Giona Missing, incolpevole protagonista dei romanzi da quattro soldi di Teo Marlo, sta riscrivendo il proprio destino a insaputa del suo autore...



 Franca Rovigatti

INCONTRO RAVVICINATO

Circa alle otto Teo Marlo si svegliò. Così densa era stata la notte, tale l'annegamento, che si sentiva come se si fosse svegliato (per usare una frase a lui cara) nel primo mattino del mondo. Faceva fatica a ricordarsi chi fosse, non riconosceva l’arredamento di casa.
Quel medesimo risveglio sottrasse alla morte la coscienza del Capitano che, giovane com'era, faticò a riambientarsi.

Diavolo!! Ma questo mi è già successo! Mi ci sono già svegliato, qui... Ah, ma certo! Io sono il Capitano e lui è il mio padrone, Teo Marlo!

Come che sia (che il sonno senza sogni avesse messo in contatto i due cervelli, che il Capitano, col passar del tempo, avesse acquisito una voce più sonora, come che sia) Teo intese distintamente le parole di Giona.
Fece un salto, si voltò di qua e di là.
Mormorò: "Chi c’è? Chi ha parlato?".
Al Capitano il cuore batteva all'impazzata. Possibile?!

Teo, non credo che mi potrai vedere… Io stesso quasi non mi vedo... Questa del resto è la vita che mi hai dato: essere nient’altro che coscienza e parola. Teo, sono la tua creatura, il Capitano!

Oddio, biascicò tra sé Teo, Oddio, sento le Voci. Oddio, il Capitano... Sto impazzendo!

No! No! Teo, tranquillo, non sei pazzo! Io stesso, tuo prodotto, posseggo una coscienza molto  ragionevole, te lo posso garantire!
Ora ti spiego. Sono venuto fuori tre giorni fa, quando tu avevi appena spostato l'azione in Indonesia. Chissà, forse è stato il brusco cambiamento di clima... Insomma, come sia successo non lo so… Certo è che mi sono trovato qui, buttato dentro la  tua  cucina.
In principio, devo confessarlo, ti detestavo. Davo a te tutte le colpe delle mie sventure. Poi, sentendo i tuoi pensieri, accorgendomi di quanto anche tu soffri, è cambiato tutto. M'è venuta una...

"Una pena, vuoi dire? Compassione? Pietà?" chiese Teo stridulo: "Dillo, dunque! Dillo!"

Una tenerezza, volevo dire: solo che mi sembra un termine troppo sdolcinato...
Un'empatia, ecco cosa m'è venuta per te: em-pa-ti-a! Nel senso che patisco delle tue umiliazioni e godo dei tuoi successi.
E' stato allora che...
Ma che fai, Teo, piangi?

Teo singhiozzava.
Ecco è finita! pensava, sono davvero rovinato. Sto parlando con le voci, sono da manicomio... Questa è la punizione, Dio Santo Benedetto, per aver osato sperare d'essere un vero scrittore... Oddio, perdonami: non alzerò più gli occhi, farò sempre libracci per von Z... Non telefonerò alla Coniglio... Non spererò più niente... Me ne starò fermo e buono nella mia stanzetta a scrivere merda per Zeitmerde... Farò la tartaruga, mi seppellirò... Farò lo struzzo...

Smettila, idiota! Basta con gli atti di dolore! Ragiona! Se anche fosse pazzia, se pure io fossi solo il prodotto della tua mente malata, che tipo di pazzia sarebbe? Vergognosa? Pericolosa?
No,  casomai una modesta follia scrittoria. 
Ma cosa credi? Che Dostojewskij non parlasse con l'Idiota? Che Amleto non sussurrasse le sue ideuzze  all'orecchio di  Shakespeare?...

"Io Shakespeare non l'ho mai letto" sussurrò meccanicamente Teo.

Lo leggerai, lo leggeremo insieme, sarà il caso!
La devi smettere di avere tanta paura di vivere!
Teo! La vita non è eterna. Non puoi perdere altro tempo... Non per essere scortese, ma hai già i tuoi anni...  Ti muovi, amico mio, come se avessi davanti  tre vite...




Il silenzio di Teo era penoso. Dentro, aveva l’inferno, dibattendosi invano tra la prudenza e l’ardimento.
Alla fine pensò in modo intelligibile: bah, in fondo che ho da perdere? Mi conviene di starci, anche perché questo non mi molla... Sospirò profondo, come un nuotatore prima di tuffarsi, e chiese: "Allora, tu saresti il Capitano Giona Missing?"

Per servirti, in immateriale mente e coscienza: per servirti, padron mio!

"E... ehm, saresti emerso dalle pagine quando?”

Tre giorni fa, te l'ho detto, nel primo pomeriggio. Ti ricordi che sei sceso a prenderti un panino al bar? Tutto è successo mentre eri via. Sono stato scodellato in cucina, ma sembrava un aeroporto cadente. Ero furibondo. Poi hai scritto, ti ricordi?, che Leyla mi toccava l'uccello. E’ troppo!, penso, e ti faccio svenire. Così  riesco a cancellare la frase. Allora...

"Come sarebbe a dire: 'riesco a cancellare'?" interruppe Teo.

Non lo so come, Teo: ci penso forte, e la scrittura spallidisce....

Una possibilità mostruosa si presentò alla mente di Teo. Sussurrò: "Non è che c'entri tu anche con la riscrittura? Con i nuovi capitoli?..."

Ah, Teo, aspettavo a dirtelo, carissimo...

"Carissimo un cazzo! Così mi ammazzi!" urlò Teo: "Allora è vero: non valgo una sega! Le uniche cose belle che avevo scritto, adesso salta fuori che non le ho scritte io...”

Teo, calmati. Ascolta! Io l’ho vista la tua fantasia, ci sono stato dentro! C’è un tesoro! Storie, storie infinite, è tutto un brulicare... Sentimenti, idee... Da lì ho preso le mie invenzioni... Tutta farina del tuo sacco...

"Ah. Resta sempre che non sono stato io a scrivere..." brontolò Teo, un po' riconsolato.
Poi chiese: "Che hai fatto stanotte? Hai lavorato ancora?"

Ho finito il terzo e il quarto. Venuti bene, credo.
Guarda tu stesso, leggi!

Teo si portò il manoscritto a letto. Leggendo, spuntò al suo sensorio il pensiero che forse, ma sì!, un po’ del suo zampino c'era... Dopotutto, pensò, con l'aiuto di Giona forse potrò scrivere cose come queste...

Anche meglio, padrone! Tranquillo! Sono sicuro che, se lavoriamo insieme, i tuoi libri saranno il non plus ultra.

Teo cercò invano nell'aria le immateriali spalle per battervi una pacca di solidale affetto. O mia guida, mio Virgilio, pensò.
Poi soggiunse, ghignando: "Resta sempre che, finora, il meglio l'hai scritto tu..."

Ma io son te, Teo, probabilmente...


DISTURBI

Teo s'era lavato. Anche il tavolo era stato rassettato. Il Capitano aspettava con ansia di cominciare: lavorare insieme, suonare la tastiera della scrittura a quattro mani! L’autore e il personaggio, in coro, sostenendosi a vicenda! Quando mai s’era sentita una simile meraviglia?
Teo si sedette, guardò per l'aria invitando: "Allora, si va?".
Insomma, erano pronti (partenza, via!), quando il citofono suonò arrogante.
(Quel citofono, che la sera prima era sembrato gentile sotto le dita di Personne, aveva la capacità di riprodurre, nel timbro, il carattere di chi lo suonava. Né si lasciava ingannare dalle apparenze: se chi lo premeva con mano leggera era per esempio un uomo malevolo, il citofono, su nel piccolo atrio di Marlo, risuonava perfido...)
Il suono sgangherato che ora emetteva Teo purtroppo lo conosceva bene: erano, ahilui, le sue quattro figliole.
Andò alla porta  strascicando i piedi, improvvisamente depresso.
Alzò la cornetta e, prima ancora di chiedere ‘chi è?’, fu investito da una mitragliata di pernacchioni e schiocchi, intercalati dalla ripetizione nasale di un 'PAAAPI!?' che sempre suonava alle sue orecchie come uno sgradito richiamo al dovere della paternità.
"Ok, salite" disse rassegnato.
"Vedrai" confidò a Giona: "vedrai che incubo!".

Le accolse rigido sulla porta: come a difendere, misero, il suo spazio. Ma le quattro, come sempre, penetrarono nell’atrio, travolsero il corridoio, dilagarono nello studio, invasero la camera da letto. Da una stanza all'altra, intercalando pernacchie a gorgoglii, parlavano a voce altissima ed in perfetto coro, come se un'unica mente le dirigesse, e forse così stavano le cose.
Le ragazze erano dotate di una sconcertante peculiarità: i corredi genetici delle quattro, a due a due gemelle, s'erano incrociati ad X. Violenta e Violante erano nate dieci mesi dopo Mora e Mara: ma la scura, pelosa Violante era identica a Mora, e la scialba fisionomia biondastra di Violenta sembrava la fotocopia di quella di Mara.
Non si sarebbero potute trovare in tutta Mongo delle ragazze tanto brutte, ottuse e cattive. Al tempo di questi fatti, le quattro erano tra i dodici e i tredici anni: in quella difficile età che quasi sempre offusca anche le più belle membra, figurarsi loro! Goffe, pesanti, pallidissime, la pelle oleosa, i piccoli occhi miopi strizzati entro palpebre grevi, sopra occhiaie livide, pieno il volto di pustole e punti neri ribelli a qualsiasi cura, amavano l’eccesso. Si infronzolavano di fiocchi e nappe, collane, cerchietti e orecchini, cinture, jabots, colletti. Così si sentivano graziose.

"PAAAPI!?" gracchiarono tutte insieme pensando di trillare: "MAMMA' CI HA LASCIATE DA TE, CI DEVI DARE I SOLDINI PER DEI DELIZIOSI ABITUCCI RICAMATI CHE ABBIAMO FERMATO DA 'JEUNE FILLE'..."

Strascicavano sempre la A di 'papi', ci avevano spazzato marciapiedi, linoleum, corridoi. Nel tempo la vocale s'era fatta laida: puzzava.
Teo guardava istupidito quell'immensità di giovane carne femminile, quelle otto braccia tozze, quei quattro sederoni fasciati nei jeans, e non si capacitava. Gli pareva impossibile che quella montagna umana potesse essere uscita da lui, dai suoi freddi lombi, da due distratti coiti coniugali di cui non aveva memoria.
Gli venivano i brividi se pensava che le bambine erano quanto lui, geneticamente, trasmetteva al futuro.
A meno che (gli sorrise improvviso un angolo di mente), a meno che il suo messaggio ai posteri non fossero piuttosto i libri: quelli che avrebbe scritto con Giona (figlio mio!, sospirò).

"Non ho soldi, ragazze," rispose: "zero via zero. Tra un po' probabilmente guadagnerò di più. L'ho già detto a vostra madre!"
"LA SOLITA MERDA, PRRR..." spernacchiarono inviperite e corali: "VABBE', CHE CI FREGA? SE NON CE LI DAI, I SOLDINI, SALE SU MAMMA' A PRENDERSELI... LO SAI, NO, PAAAPI?"
"Ok. Come volete." disse Teo: “Ora scendete. E quando arriva vostra madre, mandatemela su."
"E' UN TRUCCO! CI SBATTI FUORI E POI NON RIAPRI... NO, CARO FESSO! NOI SIAMO FURBE! NON SCENDIAMO!"
"Va bene, fate come vi pare. Ma ora, signorine, dovete scusarmi, io vado a lavorare. Se vi accomodate in cucina e non fate chiasso..." disse Teo, e scivolò dentro lo studio richiudendosi la porta alle spalle.

Tre minuti (Teo aveva appena fatto a tempo a sedersi e a riacquistare un po’ di calma), e il citofono sbraitò di nuovo. Sollevato dalla forcella, ne esplose una tale violenza che persino i fili della società dei citofoni cominciarono a tremare.
"MI MANDI GIU' I MIEI TESORUCCI, COGLIONE?" tonitruò la signora Giudecca Troni.
"MAMMA', MAMMA'" strepitarono le pupe, che s'erano precipitate all'apparecchio: "LO STRONZO NON MOLLA UN CENTESIMO. SALI!"
Il ruggito che uscì dall'incolpevole aggeggio fece tremare i vetri delle finestre.
Come un lampo, come il tuono, Giudecca Troni straripò dalla porta dentro l'atrio: che tutto tremante si ritrasse.
Effettivamente, la signora faceva spavento. Grande, alta, grossa come un armadio contenente materassi, vestiva un attillato tailleur rosso fiamma da cui si affacciava urlando il verde pistacchio della camicia; una grande spilla color semaforo dardeggiava sull'immenso petto. Le dita, tra i panciuti anelli, montavano lunghi artigli scarlatti. I capelli, rafforzati in nero ‘Ala di Corvo’, si appiccicavano in fitti ricciolini sul volto sudato e tinto di inverosimile rosso. Accecava.
Possibile che quando servono non so mai dove li ho messi?, sospirò Teo pensando agli occhiali scuri.

"MERDOSO CULO FLOSCIO!" lo assalì quella che una volta era stata (ma come era potuto accadere?) la signora Marlo: "TIRA FUORI SUBITO I SOLDI O TI FACCIO NERO!"
"Giudecca, ho in linea la polizia": mentì Teo. "Se ti azzardi a menarmi, saranno qui in due minuti. I soldi non li ho. Pensa che prima stavo per telefonarti per chiederti un piccolo prestito: solo per un mese, sai, sto per consegnare il libro!"
(Questa era una balla. Chiedere un prestito a Giudecca, se appena la conoscevi, era impensabile).
"AAARGH! MA SEI MATTO?" boccheggiò l'armadio (pieno di materassi): "L'HO SEMPRE SAPUTO CHE SEI UN CRETINO, UNO SCEMO, UN IDIOTA, UN DEMENTE, UN COGLIONE..."
"Grazie" mormorò Teo: che cominciava a divertirsi.
"LO SANNO TUTTI CHE SEI UNO SCIOCCO, UN BABBEO... MA MATTO, NO. MATTO, NON LO SAPEVO..."
"Ok, lo chiederò a qualcun altro, il prestito, stai calma": sussurrò il nostro.
"BENEBENEBENE" ruggì Giudecca protendendo minacciosa gli artigli verso il collo di Teo: "ALLORA MI PRENDERO' LA CATENINA DI QUELLA POVERA CRISTA DI TUA MADRE. VARRA' PURE QUALCOSA..."

(Teo, la sua bellissima madre, l’aveva adorata, e dalla sua morte ne portava al collo la catenina. La medaglia, una sommaria riproduzione della Madonna della Lacrima, se la ricordava spenzolare tra gli amati seni. Per nulla al mondo se ne sarebbe separato.)

"AAAAH!" gridò Marlo: "MOLLA L’OSSO, BIECA CICCIONA!": e levò alta una sedia, come fosse clava.
Lo stupore fu tale, talmente assoluto, che Giudecca si afflosciò, ripiegò su se stessa come una mongolfiera bucata. La violenza colorata dei vestiti parve impallidire. La voce le uscì spenta mentre chiamava a raccolta le gemelle, le spingeva alla porta, scivolava giù per le scale senza far rumore.
Teo controllò che fossero uscite proprio tutte. Mise giù la sedia, chiuse  la porta col catenaccio, e scoppiò a ridere di gusto.
Accanto a lui, chiaramente udibile, anche Giona rideva.

(12 - continua)

Poeta, artista visiva, organizzatrice culturale, Franca Rovigatti ha fondato nel 1997 il festival RomaPoesia e nello stesso anno ha pubblicato per Sottotraccia il "romanzo di viaggio immaginario" Afàsia.

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