sabato 19 ottobre 2013

John Berger, instancabile indagatore delle topografie del male

John Berger, Contro i nuovi tiranni
a cura di Maria Nadotti
Neri Pozza 2013, pp. 249, euro 14,90

Paola Splendore

Quanto mai opportuna un’antologia come questa a cura di Maria Nadotti, per presentare – soprattutto ai più giovani – una figura poliedrica di scrittore e intellettuale fra le più interessanti del nostro tempo. Berger scrive con altrettanta acutezza di arte, politica, letteratura e attualità; e lo fa con lo sguardo dell’artista, la parola del narratore e l’impegno del testimone.
I materiali raccolti nel volume – soprattutto saggi ma anche stralci da romanzi, poesie, lettere, diari, resoconti di inchieste, appelli militanti ecc. – coprono un arco di sessant’anni, dal 1958 al 2012. Non sono presentati in ordine cronologico né tematico, ma secondo un ordito che rivela via via la straordinaria vivacità e tenuta di questo autore che ancora oggi,
a quasi novant’anni, ha voglia di scrivere, viaggiare, testimoniare, inviarci i suoi messaggi dal mondo.
Quando nel 1972, dopo l’assegnazione del Booker Prize al romanzo G., Berger decise di trasferirsi in un villaggio di contadini dell’Alta Savoia, dove vive tuttora, volle esprimere il rifiuto dell’establishment letterario inglese, nei confronti del quale era stato comunque sempre un outsider. A Quincy, Berger comincia a fare il contadino, a occuparsi di fienagioni, di api e vitelli, ma continuando a scrivere, a disegnare, a partecipare a suo modo alle vicende del mondo.
Stanno a testimoniarlo le visite, in anni recenti, a due paesi difficili e quanto mai emblematici dei conflitti nel mondo contemporaneo: nel 2003 si è recato in Palestina, a Ramallah e nei territori occupati, dove ha tenuto – insieme ad artisti palestinesi – un workshop sulla narrazione; e nel 2008, a ottantun anni, è andato in Chiapas a incontrare il subcomandante Marcos, il mitico rivoluzionario messicano.
Il bel saggio Appunti su un ritratto nella selva riferisce di questo incontro, ci offre questo ritratto: «Dietro il passamontagna, sotto il grande naso, una bocca e una laringe che dall’abisso parlano di speranza. Ho disegnato quello che ho potuto». E così Berger può anche ricostruire con rapidi tratti il contesto sociale, culturale ed economico dello zapatismo. In un altro saggio, Un luogo in lacrime, si legge: «Gaza, la più grande prigione della terra, è trasformata in mattatoio. La parola “striscia” è fradicia di sangue, come sessantacinque anni fa successe alla parola “ghetto”».
Questa apertura al mondo, il coinvolgimento in prima persona, coerentemente con i principi e gli ideali professati, da sempre informano la scrittura di Berger. Instancabile nell’indagare e tratteggiare la nuova topografia del male, nelle sue forme occulte come nella fisionomia ingannevole dei nuovi tiranni di tutte le latitudini, in abiti impeccabili e rassicuranti, impegnati a prendere decisioni pur «senza sapere niente di niente sull’essenza delle cose».
La stessa sensibilità lo porta a occuparsi con grande anticipo di temi oggi pervasivi come l’emigrazione, in un libro sui lavoratori migranti in Europa del 1975, Il settimo uomo; oppure a riflettere sull’uso spregiudicato da parte della stampa delle «fotografie d’agonia» durante la guerra in Vietnam. Chiude il volume il testo del discorso con cui Berger, in quel ’72 accettò sì il Booker Prize, ma attaccando senza quartiere, nell’occasione, i Booker McConnell che potevano farsi protettori delle arti coi proventi dello sfruttamento della canna da zucchero nella Guyana britannica. Tutto da leggere.



Dal numero 32 di alfabeta2 in edicola, in libreria e in versione digitale

Nessun commento:

Posta un commento