giovedì 18 aprile 2013

Balestrini: Sperimentare sperimentare sperimentare...


Maria Teresa Carbone
Il Gruppo 63 ha cinquant'anni. I giovanotti che circondavano Giuseppe Ungaretti in una fotografia divenuta celebre sono per lo più – quelli che ci sono ancora – distinti signori carichi di onori e di riconoscimenti. Eppure, a leggere certi articoli usciti per la ricorrenza (che sarà celebrata in autunno con un convegno, come con un convegno in autunno tutto è cominciato), viene da pensare che, mezzo secolo dopo, quel “Facciamoli incazzare” di Nanni Balestrini da cui, stando alla testimonianza di Umberto Eco, nacque la decisione di dar vita al Gruppo, rimanga una parola d'ordine esplosiva, come se la spinta iconoclasta di allora non si fosse esaurita.
Possibile? chiedo a Balestrini, che in questi cinquant'anni ha scritto decine di libri tra romanzi e poesie, ha avviato riviste su carta, in rete, in tv, ha coagulato intorno a sé giovani autori e critici, ha sviluppato un'attività sempre più intensa di artista visivo, senza mai sfilarsi il suo manto di soave pigrizia (e senza neppure negarsi qualche capitolo di vita avventurosa).
Come è possibile che ancora oggi, intorno a un'occasione tutto sommato polverosa come un anniversario, il Gruppo 63 abbia il potere di far incazzare?
Forse, per capire, bisogna ricordare che il Gruppo 63 è nato da una spinta incredibilmente forte. In effetti, tutto era cominciato prima, alla fine degli anni '50, con Luciano Anceschi, che aveva avuto il coraggio di chiamare dentro la sua rivista, “il Verri”, una quantità di giovanissimi molto diversi fra loro, ma accomunati da un rifiuto radicale delle generazioni precedenti, ormai fuori dalla storia. In Italia c'erano state enormi trasformazioni economiche e sociali: il paese, da agricolo, era diventato industriale; le migrazioni interne portavano a un rimescolamento di cittadini mai visto; nascevano le metropoli, luoghi dove le persone non si conoscono ma comunicano e mettono a confronto tradizione, cultura, lingua. Del resto, la lingua italiana, quella che parliamo oggi, è nata con l'immigrazione, la scuola dell'obbligo, la tv. A farla breve, una trasformazione così in Italia non c'era stata dai tempi di Roma antica. E noi ci trovavamo nel mezzo di questo cambiamento, e dato che lavoravamo con il linguaggio, non potevamo non vedere che gli scrittori della generazione precedente ignoravano questa società, parlavano di contadini e di villaggi, non avevano idea di cosa fossero le tecnologie e, soprattutto, scrivevano nella lingua di Manzoni. E allora ci siamo detti: che fare? E la risposta è stata: sperimentare.

Una sperimentazione tutt'altro che omogenea, che ha avuto diverse fasi.
Sì, già all'inizio eravamo diversi, anche se tutti ci riconoscevamo in quella utopia di cambiamento e di uguaglianza che da due secoli pervade la società e soprattutto in comune avevamo questo desiderio fortissimo di rompere con il passato, di agganciarci a quanto si era prodotto in campo culturale fuori dall'Italia negli anni precedenti e che da noi non era arrivato a causa del fascismo. A spingerci, insomma, era la necessità di essere contemporanei. Ogni scrittore desidera essere contemporaneo, ma la nostra, allora, era una situazione di emergenza. In quei primi anni '60, ci siamo trovati ad avere veri e propri scontri perché dovevamo demolire quanto era stato scritto prima, dovevamo fare a pezzi i nostri avversari. Volevamo dimostrare che la letteratura era diventata incomunicabile e portavamo all'estremo la situazione facendo cose incomunicabili. Da questo punto di vista l'esempio più radicale è il mio Tristano. Per tutti, comunque, l'idea di fondo era che il mondo è composto di tante storie che si accavallano e che di questo accavallarsi oggi siamo consapevoli, per cui non possiamo tornare alle narrazioni lineari di un tempo. Già il nouveau roman, in Francia, aveva cercato di rispecchiare questa situazione, di portare nel linguaggio quanto si era fatto sul versante dell'arte e della musica. Così scrivevamo cose deliberatamente illeggibili, anche se, a differenza di quanto allora e dopo hanno detto in molti, non volevamo distruggere la letteratura.
E così, si può dire, è cominciata la seconda fase della sperimentazione, quella in cui avete ripreso a “costruire”. Secondo quali forme?
Beh, a furia di distruggere, ci eravamo formati degli strumenti linguistici ben affilati e quindi abbiamo cominciato a usarli, in tempi e modi diversi, come diversi eravamo stati dall'inizio. Così è stato per Arbasino che in Fratelli d'Italia ha elevato un certo chiacchiericcio a letteratura, così è stato per Eco che con Il nome della rosa non ha rinnegato le teorie esposte in Opera aperta, ma ha scritto un testo fondato sui suoi studi delle tecniche di comunicazione. E così è stato per me, da Vogliamo tutto in poi: sono partito dall'idea che l'oralità è, oggi come e più di prima, pervasiva, e ho messo a punto una scrittura che mima la lingua parlata attraverso una serie di procedimenti stilistici, dalle ripetizioni all'abolizione dei punti e delle virgole. Una oralità scritta che è, naturalmente, quanto di più letterario si possa immaginare.
Oralità letteraria... In Africa si parla di “oratura”, ma è tutta un'altra cosa. In questi termini sembra un ossimoro.
Forse, ma quello che voglio dire è che a me, di raccontare la realtà, non interessa affatto, non ha mai interessato. Il mio obiettivo è fare letteratura o, se vogliamo metterla diversamente, a me piace armeggiare con le parole, a prescindere dal loro contenuto. Anzi, sogno da sempre di scrivere un romanzo dove le parole non dicano niente. Mi piace pensare che con le parole non ho niente da dire ma solo qualcosa da fare. E però, siccome il contenuto è una condanna alla quale, a quanto pare, non si sfugge, scelgo temi che mi appassionino, la politica spesso, e cerco di attingere, in un modo o nell'altro, a materiali che trovo stimolanti: penso a libri come l'Autobiografia della leggera di Danilo Montaldi e poi, naturalmente, alle cronache dei giornali.
Questo discorso vale anche per i testi poetici?
Per quanto riguardo la poesia, fin dagli inizi la molla che mi ha spinto a scrivere è stata una vera fascinazione per l'idea della variante infinita. Avevo letto da ragazzo le varianti di Ungaretti e mi aveva colpito il pensiero che l'elettronica potesse dare una risposta a questa infinità di variazioni, dove fosse esclusa la nozione di “edizione principe”, come un albero le cui foglie sono tutte uguali e al tempo stesso tutte differenti.
In certo senso, anche in prosa, la versione 2007 del Tristano, dove – grazie all'editoria digitale – ogni copia è diversa, è la realizzazione di quel sogno. Il che porta a chiederci: cosa è cambiato rispetto a mezzo secolo fa?
Difficile immaginare oggi una sperimentazione simile a quella degli anni 60, opere come il Laborintus di Sanguineti, per esempio. Eppure le reazioni al Gruppo 63, l'avversione della generazione successiva, i legami con quella che è venuta dopo, negli anni '90 e di cui fanno parte alcuni degli autori e delle autrici più interessanti di oggi, perfino le polemiche attuali, mostrano che la carica di quel periodo non si è esaurita. Diverso, oggi, è il divario tra letteratura e editoria. Giangiacomo Feltrinelli nel '61, quando ho cominciato a lavorare per lui, mi ha detto per prima cosa che compito dell'editore è vendere libri. Eppure pubblicava i libri del Gruppo 63, che non vendevano affatto, perché capiva l'importanza di allevare nuovi autori, un po' come fanno le squadre di calcio. Oggi invece l'editoria cerca un profitto immediato.
Anche questo è, in effetti, la spia di cambiamenti profondi, avviati con la globalizzazione e di cui sono segnali gli scontri sociali sempre più forti. Impossibile pensare a un nuovo Gruppo 2013 o 2023, che si stia preparando a dare una nuova scossa poderosa all'esistente?
Mi sembra presto, di solito i grandi ribaltamenti non sono mai troppo ravvicinati. Però, forse, tra un po' di tempo, chissà.

L'intervista a Nanni Balestrini è uscita sul numero 14 (aprile-giugno 2013) della rivista "Il Reportage"

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