sabato 23 novembre 2013

La buccia in una lingua, la polpa in un'altra

Dal numero 117 della rivista "Lettera internazionale", in arrivo nei prossimi giorni in libreria, anticipiamo un intervento di Sarah Zuhra Lukanić, scrittrice croata da qualche anno residente in Italia.
 
Sarah Zuhra Lukanić *

Leggo. È come una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi: giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di carta trovati per strada. ricette di cucina, libri per bambini. Tutto ciò che è a caratteri di stampa.
Agota Kristof, L’Analfabeta, 2005

Bisogna educare. L’uomo ha bisogno di simboli per non perdersi nella miseria quotidiana. Il bagaglio di un immigrato ha sempre un’impronta dolorosa, persino se è lui stesso a scegliere, per amore, di andare via dalla sua terra. Figuriamoci se è costretto a rifugiarsi dalla guerra, dalla carestia, dalla dittatura, dalle persecuzioni, anche da quelle psicologiche. La società odierna, ma anche quella che ci ha preceduto, non ama la diversità come soluzione, come proposta, come equilibrio collettivo.

Ho il vissuto di una che è nata e cresciuta in una terra a cui ho regalato la mia parola d’onore di pionir (1). Sono cresciuta godendo dell’ubriacatura che veniva dai promettenti orizzonti marxisti, tra compagni di banco che tenevano stretta in mano la loro piccola tessera rossa rossa; con quella si sentivano prediletti e membri di un regno inimitabile che era considerato una specie di Svizzera comunista. Adesso ne sono certa: la morte di Tito per sempre avrebbe portato con sé anche la gradita scomparsa del mio paese. Già allora, come soluzione per non essere parte di quel nuovo sistema sciovinista che non condividevo e che mi avrebbe fatto diventare cattiva, avevo in mente l’esilio: cercare altrove un rifugio e una nuova educazione. L’immigrato non ha altra soluzione, deve reinventarsi la vita, comunicare, sensibilizzare alla diversità.
Il processo è doloroso: avvicinarsi simbolicamente alla nuova patria, costruire attorno a sé un immaginario positivo delle transumanze, evidenziare la difficoltà, veicolare contenuti anti-razzisti, non dispotici. La testimonianza di una diversità. Dopo un’educazione che sembrava un poligono in allerta sotto un dittatore buono, eravamo tutti felici e pronti. Certo non è un’educazione stravagante come quella del libro Educazione siberiana, ma è altrettanto dolorosa e totalitaria.
Quasi sempre un immigrato prova un senso di colpa verso la sua terra di origine, oppure inconsapevolmente si serve del dialogo socratico, creato da Platone nel Teeteto, per rimuovere i propri pensieri contrastanti o incerti. Questo metodo permette di farsi strada a poco a poco nell’infondatezza di tutte quelle sicurezze personali che siamo educati a considerare verità attendibili, e che invece svelano, con una riflessione accorta, i nostri preconcetti. Lo sforzo è quello di persuadere, con pertinente imparzialità, l’interlocutore, come facevano i sofisti, conducendolo per mano in una sequenza di domande e risposte veloci, in modo da spingerlo ad ammettere la propria ignoranza: a riconoscere di non avere verità definitive. Questo metodo lascerà spazio a domande brevi per sfidare l’interlocutore ad accettare le verità altrui.
Mi viene sempre in mente il libro di Agota Kristof, L’Analfabeta, che è la testimonianza di chiunque passa a un’altra educazione. Pensandoci bene, quanti chilometri ha percorso Agota con la bimba piccola in grembo per raggiungere una nuova patria, la Svizzera (per di più quella francese: inospitale, fredda e asettica)? Pochi, davvero pochi in un’Europa che vive di rendita e che decide di dimenticare che quella signora mite proveniva da una nazione che è stata la culla di un regno imperiale, quello austro-ungarico. Ogni cultura, così come anche ogni educazione, ha in sé una chiusura e l’arrogante certezza di fare bene, la convinzione provinciale di essere la più importante. L’Analfabeta di Agota Kristof è stato per me un incontro fulminante, avuto al Festival delle Letterature di Roma a Massenzio. Era il 2005. Agota stava seduta su una sedia. Leggermente piegata in avanti, come una sarta che cuce il vestito più prezioso leggendo il suo L’Analfabeta. Lo stesso processo di una rieducazione interiore l’ho sentito dentro di me. Come se fino a quel momento fossi stata malata gravemente, ma nessuno riuscisse a indicarmi la diagnosi. Il processo di una rieducazione interiore è doloroso. Molto intimo. Lasciare un’identità per indossarne un’altra che ti sta scomoda, stretta; un tessuto che provoca bolle che danno prurito. Provare a farlo attraverso i nostri figli, ai quali devi in qualche modo trasmettere la tua identità precedente, il DNA di appartenenza. Perché è prezioso. Perché con quello potrebbero anche difendersi, se serve. L’attraversamento delle identità si chiude in un frutto nuovo, che maturerà solo quando saremo pronti per abbandonare le nostre sicurezze personali. In fondo, è un gioco bello, ma la migrazione è dolorosa e non consente di distrarsi, altrimenti sei tagliato fuori. C’è una meravigliosa poesia dell’amica poeta Barbara Pumhösel:

ci sono parole che hanno
la buccia in una lingua
e la polpa in un’altra
con un morso si attraversa
due mondi e il nocciolo
germogliando partorisce
una terza che contiene
noi, gli altri e il passato,
ci avvolge e ci sopravvivrà

Sembra una pozione magica, una soluzione. Transiti di lingue, intersezioni di segmenti preziosi di identità plurime avvengono, se cerchi in qualche modo il meglio, il succo, così casomai, come canta e incanta Barbara, può germogliare un bocciolo prezioso, unico e raro. Probabilmente la Poesia salverà il mondo, ma gli ordinary people non hanno la fortuna dei poeti, bisogna indicar loro la strada. L’educatore alla diversità come ricchezza deve essere per forza un amante della poesia, se è anche un poeta è ancora meglio. Un’anima poetica sarebbe perfetta. Alcuni anni fa, un noto economista americano propose di assumere un artista per salvare l’impresa. Propongo di assumere un poeta educatore per salvare l’educazione.
Sono sempre stata una specie di nomade, un cane sciolto pronto ad accucciarsi. Attraverso le pagine dei libri, ho scelto una strada diversa. Forse più rognosa. Come diceva Melville: Una baleniera è stata la mia Harvard o la mia Yale. Così è capitato che un’altra immigrata, che ha scelto l’altrove per necessità, abbia incantato i miei orizzonti.
I miei libri sono rimasti sparpagliati nelle mie varie dimore. Forse per lasciare il segno della mia presenza. O, forse, come facevano Hänsel e Gretel, li ho sparsi come sassolini. Per poter tornare di nuovo. Per avere una scusa valida. Per riprenderli e rileggerli. Di nuovo. Ma probabilmente è soltanto un miraggio.
Il mio elogio a un libro o ai miei libri. Una prospettiva seducente per l’oggetto più caro per la mia famiglia. Ma forse non per me. Lo so che non avrò mai una biblioteca come quella che aveva mia madre o la mia professoressa di lettere, la mitica Mirja Dvornik. Tenevano i loro libri come reliquie rare, come i morosi del passato. Io prediligevo le fotografie, le spille che si infilavano nei cappelli curiosi e stravaganti, i carillon, i documenti, le lettere o le cartoline che erano vere opere d’arte.
Qualcuno potrebbe storcere la bocca, ma per me raschiare il passato nelle soffitte non ha a che vedere con la lettura. E poi i libri pesano. Assai.
Oggi, a distanza di tempo, penso che siano due i fattori che hanno prevalso nel mio comportamento con l’oggetto-libro. Uno è l’influenza del mio compagno di università Irvin Lukežić, oggi docente in quella facoltà di Fiume che allora frequentavamo assieme. Sua madre Iva, anche lei docente nello stesso ateneo, si occupava di archivistica e di libri antichi. Ci faceva intere lezioni che trattavano dell’usura dei libri, e dell’intero zoo di animali, insetti, malattie e batteri che vivono assieme ai libri.
L’altra concausa formativa della mia visione dell’oggetto-libro è stata la visita all’archivio storico della città di Zagabria, che mi fece capire la definitiva decomposizione delle pagine. Le archiviste erano travestite come nel film Ebola. Conciate come se dovessero affrontare un’epidemia contagiosa e rischiosa. Non esagero. Una di loro si tolse i guanti davanti a me. Io avevo sulle unghie, come al solito, uno smalto rosso carminio. Lei, a quel punto, si dilungò a spiegarmi quanto quei libri fossero dannosi per la sua salute e, soprattutto, si lamentò di non riuscire più a mettere lo smalto sulle unghie, tanto si erano imputridite e curvate, colpite dalle varie micosi che non guarivano mai. L’archivista aveva le manine piccole e rossicce. Quando tolse i guanti mi sembrò che avesse addosso un ulteriore paio di guanti. La cute era rossiccia e ruvida come la pelle di una scrofa adulta. S’inchinò verso di me, io tolsi la mano veloce. Lei afferrò il mio gesto e ribatté: Non è contagioso. Sono i libri. Maledetti.

Ecco, questi due episodi sono impressi nella mia memoria e, ogni volta che dovevo traslocare, mi venivano in mente le zampine dell’archivista e tutte le malattie e le bestiole delle quali ci raccontava in lungo e largo la mamma di Irvin. Così non avevo rimorsi, perché lasciavo i libri come le mollette che cascano dai frigoriferi nelle fessure dove è difficile ripescarle.
Uno dei miei traghettatori, Marcel Proust, chiamerebbe questo itinerario nel mondo della scrittura una precauzione inutile. Perché, a volte, un lettore è un globe-trotter. Tant’è che un lettore migrante è un girovago privilegiato.
Nei primi tempi, lasciando un alloggio, mi sentivo male se non potevo portare con me i miei libri. Con il passare degli anni, mi sono abituata che una vagabonda come me deve prendere questo fatto semplicemente come una conseguenza pratica. Quindi, lasciavo i miei libri in custodia, pensando che sarei tornata a riprenderli. Prima o poi. Lungo il globo sono disseminati diversi custodi dei miei libri. Oggi sono sicura che siano in buone mani.
Perché i libri hanno bisogno di dita amabili che li sfogliano. E tra un capitolo e l’altro ti potrebbe capitare di trovare i miei soliti appunti, o qualche foglia secca, oppure qualche margherita raccolta qua e là. Pensandoci meglio, potresti trovare una banconota oramai scaduta di un Paese che magari non c’è più. Oppure qualche foto di una gita fuori porta. Così i miei preziosi custodi di libri diventano all’improvviso anche guardiani delle mie cianfrusaglie. Alla fine, non escludo qualche sorpresa, perché, a volte, quando volevo nascondere qualche cosa, la sistemavo dentro i libri. Come penso facciano tanti di noi.
Alcuni giorni fa, ho incontrato un giovane ricercatore che si dedica alla letteratura dei paesi dell’ex Jugoslavia. Matteo sta preparando una ricerca per il suo dottorato che riguarda i possibili cambiamenti di alcuni territori balcanici se toccati dall’eventuale passaggio di un gasdotto dalla Russia. Una tesi piuttosto singolare, e da me voleva conferme sul fatto che potrebbe trattarsi di una nuova opportunità per quei territori. Una nuova sfida, considerata la posizione dei Balcani. Io avrei preferito parlargli di altre cose, di calcio, che è una delle mie passioni, ma ho ugualmente risposto alla sua domanda, o più precisamente alla sua teoria. Matteo parla bene la mia lingua madre, con uno spiccato accento dalmata, piuttosto isolano. Abbiamo parlato dei libri che ci piacciono, segnalandoci e annotando a vicenda dentro i nostri taccuini quelli che dobbiamo leggere. Perché c’è sempre un libro in sospeso, quello che deve essere finito, prima o poi, sul nostro comodino.
Avendo una casa piccina, non ho comodino. Il mio letto è su un soppalco. Le pareti sono invase dai libri nuovi, nuovissimi. Sempre di più penso che mio figlio abbia ragione quando dice: Sai mamma, se togli tutti ‘sti libri, quasi quasi potrebbe essere una casa. I ragazzi hanno sempre ragione. Quasi sempre.
Torniamo a Matteo, il giovane ricercatore calabro-romano, che parla slavo con un accento isolano. Non so perché, ma voleva sapere il mio parere sui manuali scolastici di letteratura.
Non so cosa risponderle, gli ho detto. I manuali di letteratura, almeno quelli nel liceo di mio figlio, ovviamente privilegiano la letteratura nazionale. Ma non ci trovo niente di strano. Allora, dove mettiamo gli scrittori translingue? Mi ha chiesto Matteo. Nel capitolo: “Altro”. Ho risposto. Scherzavo, naturalmente.
Mi ha confessato che è figlio di un operaio e di una casalinga. Sono tre fratelli, tre emigrati. Uno lavora in una fabbrica ligure e la sorella corregge le bozze per una casa editrice milanese. Lui, Matteo, non leggeva nulla, poi, in terza media, la professoressa disse: Potete leggere questo libro, se vi va. A piacere.
Ecco quel a piacere aveva cambiato la vita di Matteo. La libertà di scelta. Così, da allora, non ha smesso più di leggere. Tant’è che le sue continue vacanze nell’ex Jugoslavia si sono sviluppate nell’innamoramento di una lingua per niente facile.

Una madre immigrata è sempre l’Analfabeta del libro di Agota. Quando comincia la scuola dell’obbligo, la madre immigrata può anche innamorarsi della lingua del Paese che la ospita, perché sarà sempre la lingua di suo figlio. Quindi Agota fece la scuola di nuovo. Pensandoci bene, questa educazione può diventare anche divertente: a volte, la madre immigrata deve inventarsi tecniche convincenti per trasmettere al figlio quell’altra identità che lui vivrà sempre per sentito dire. Ideale per un ragazzo è avere uno dei genitori poeti, così il passaggio sarà sempre leggero, sarà un gioco. Peccato che, aprendo gli occhi, ci si sveglia in un’Italietta non ancora pronta ad accogliere questa modernità liquida, come la definisce il grande Bauman. Un’educazione mainstream che sfocia in modelli folcloristici e che non riesce a diffondere tra i ragazzi una cultura realmente melting pot vissuta come quotidianità. Incredibile come i ragazzi usino le loro diversità come un bagaglio scontato. Crescendo, quello stesso bagaglio potrebbe rivelarsi troppo pesante. Quindi deve essere il loro. Personale. Ben custodito. Qui la famiglia che educa in un modo propositivo potrebbe giocare un ruolo fondamentale. A volte il ragazzo può essere fortunato perché si trova in un posto unico come Roma, dove persino il sindaco deve reclamare la sua romanità. Ma ci sono posti ostili, nel nostro Paese, dove l’astio verso il diverso cela uno sciovinismo culturale che porta a processi dove si rispolverano ideologie che ci hanno quasi sepolti vivi. Deve essere il processo di una piantagione nuova, come suggerisce la filosofa Martha Nussbaum nel suo libro Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea.
Una madre immigrata è sempre in balia, in emergenza. Vigile. In fondo tutto dipende dal rimanere serenamente nell’attesa di quell’incantato e meraviglioso morso che attraversa due mondi e il nocciolo germogliando partorisce una terza che contiene noi gli altri e il passato ci avvolge e ci sopravvivrà.

(1) Appartenenti all’organizzazione giovanile che sosteneva la fede in Tito. Ai pionir erano iscritti i bambini dai 7 ai 13 anni. A 14 anni diventavano omladinci e a 18 anni si poteva prendere la tessera del PKJ (Partito Comunista Jugoslavo).


* Sarah Zuhra Lukanić, scrittrice croata, ha ricevuto, nel 1974, il “Premio Internazionale per i Giovani Poeti Europei”. Nel 1987 si è trasferita a Roma dove vive. Dal 2005 ha scelto di scrivere in italiano, conseguendo vari riconoscimenti in importanti concorsi letterari. Con la raccolta di racconti Rione Kurdistan nel 2006 ha vinto, a Viareggio, il Premio letterario-giornalistico “Mare Nostrum” e, nel 2008, all’Aquila, il Premio per la Pace e i Diritti Umani. Nel 2009, si è aggiudicata il “Premio Internazionale di Scrittura Femminile – Città di Trieste”; il premio speciale del Torino Film Festival per il racconto Fiocchi di neve al concorso Lingua Madre, e il Premio letterario nazionale “Città di Trieste” per il teatro, con il monologo Siamo una perfetta famigliola veneta. Nel 2007, è uscito il suo primo romanzo, Le lezioni di Selma per le edizioni Libribianchi di Milano. Suoi racconti e poesie sono apparsi in varie pubblicazioni. Nel 2011 è stato rappresentato a Roma il dramma Donne sotto l'orologio della Bašcaršija. Collabora con vari blog e ha scritto per Internazionale. Fa parte della Compagnia delle Poete (www.compagniadellepoete.com).

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