martedì 14 maggio 2013

mvl Cinema, "Un giorno devi andare", nel segno di un "io" etico


Un giorno devi andare: un film di Giorgio Diritti. Con Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Sonia Gessner, Pia Engleberth, Amanda Fonseca Galvao. Durata 110 minuti - Italia, Francia 2013

Patrizia Vincenzoni
Terzo film del regista bolognese nel quale l'estetica poetica sembra essere il prodotto di una soggettiva interrogazione sul senso dell'esistenza, cui si incrociano tematiche di interesse generale. Questa volta Diritti parte dalla perdita, dalla elaborazione del lutto attraversando contesti e accadimenti a forte impatto affettivo e sociale. Tale processo di ri-significazione trova nel suo incontro con comunità umane ai margini del mondo, dimenticate, snodi importanti, punti di attraversamento personali e collettivi.

Augusta, interpretata da una Jasmine Trinca che si offre alla macchina da presa con una spontaneità che ben sottolinea i diversi passaggi emotivi del percorso che il personaggio attua, decide di accompagnare una suora, amica della madre, in Brasile spinta da una doppia perdita: una gravidanza non portata a termine e la separazione, subita, dal marito. La vediamo iniziare un viaggio lungo il fiume che attraversa l'Amazzonia a bordo di una barca con la suora impegnata a portare il Vangelo agli indios che vivono lungo le sue sponde. Augusta sente il bisogno di proseguire per conto proprio, avvicinandosi in modi diversi agli abitanti del fiume e prendendo in affitto una stanza in una favela a Manaus.
In modo parallelo vediamo la madre di Augusta iniziare a sua volta un suo percorso, cercando di uscire a sua volta dal lutto relativo alla morte non recente del marito, grazie alla graduale partecipazione a una comunità religiosa arroccata alle pendici di una montagna, nel nord dell'Italia.
Diritti ci fa vedere le contraddizioni della comunità religiosa impegnata nei villaggi, nella quale entra anche una logica decisionale che non tiene conto del tutto delle prospettive culturali e dei bisogni degli indigeni.
Più in generale, ci porta attraverso la scelta della protagonista dentro le favelas martoriate dagli interessi di lobby affaristiche che vogliono allontanare gli abitanti, relegandoli in altri loculi di legno apparentemente più abitabili, per seguire logiche affaristiche che modificheranno totalmente la vivibilità dell'ambiente anche sul piano della convivenza sociale. L'immagine di una casupola di legno che sprofonda nel fiume è evocativa dell'inabissamento della coscienza collettiva così distante da questo 'altrove' che non ci interpella, sofferenza che non riesce a imporsi alla nostra attenzione.
La trama narrativa si avvale di immagini (e di una fotografia) che possiedono una rara bellezza che non corrisponde, automaticamente, a scorci di una natura suprema che ammiriamo, ma esprime uno stato, direi, sospeso e silente, così da sottolineare la necessaria solitudine per cercare i fili da riannodare di una vita o di più esistenze, come accade nel film. Il regista possiede la non comune abilità di coniugare stati d'animo e sentimenti con le immagini visive, una sinergia che non ha bisogno di parole e enunciati, solo di un essenziale silenzio.
Al tema della perdita si affianca quello della comunità, già rappresentato anche nei due precedenti film. Tale tematica sembra essere un contenitore entro il quale il regista offre l'opportunità di riflettere sul destino individuale e su come esso sia annodato a quello delle comunità che abitiamo, a volte connotando in modo retorico tale intreccio.
 Nella misura in cui superiamo  certe predeterminazioni  che possono limitare la disponibilità in noi ad accogliere la dimensione dell'etica e dell'incontro con la possibile assunzione della nostra responsabilità, possiamo sentirci chiamati in questione di fronte alla vulnerabilità dell'altro.  Etica come espressione stessa dell'esistenza.

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