venerdì 10 maggio 2013

mvl Teatro: "L' arma" contro un padre sbagliato


Maria Cristina Reggio
Quante volte un figlio diventa unʼarma che si scaglia contro il proprio genitore? Non è neppure necessario che questi sia il padre (o la madre) biologico: al figlio, o alla figlia, viene conferito lʼincarico di distruggere il padre e il sistema che egli ha instaurato, anche se questʼultimo non è affatto ordinato ed è il frutto di una rivoluzione interiore o sociale contro un precedente "ordine" precostituito. Quello dellʼuccisone del padre è un tema tragico per eccellenza nella civiltà occidentale: più come paura del padre che come avvenimento messo in atto, giacché tanti sono i padri mitologici che, per timore di esser uccisi dai loro figli, li hanno esiliati, divorati, oppure hanno dato ordine di eliminarli.  
Il padre protagonista di questo dramma moderno, Lʼarma, con la regia di Aureliano Amadei, tratto da un testo di Duccio Camerini, (in scena al Teatro Vascello fino al 12 maggio) è un "morto che parla", ovvero un padre disgraziato, fatto a pezzi da una figlia adottiva e giovinetta: un padre che narra la propria storia al figlio naturale in una baracca su una montagna dove ha vissuto con quella stessa  figlia, lontano dal mondo.  Ma in scena niente baracche e montagne: solo un beckettiano albero secco sotto al quale siedono, uno accanto allʼaltro, i tre personaggi, poi altri pezzi di tronchi recisi disseminati sul palco, con asce e falcetti conficcati nella "legnosa carne" degli alberi, una pedana che si muove orizzontalmente azionata a braccia dagli attori e, sul fondo la proiezione di  grande cielo in tempesta che cambia colore.
Durante tutto lo spettacolo, i tre protagonisti fanno poco: si avvicinano e si allontanano, entrano ed escono in scena salendo e scendendo dal pavimento della pedana nella quale si aprono alcune botole, ma soprattutto parlano moltissimo, sovrapponendo lʼuna sullʼaltra le loro voci, al punto che, per gli spettatori, è difficile seguire il filo dei discorsi e la successione temporale degli eventi, per non parlare dei fatti narrati. Per esempio, solo da qualche battuta sporadica si scopre che il regista ha scelto di fare parlare il padre come se fosse vivo e vegeto, sovrapponendo i piani temporali delle esistenze dei tre personaggi, mentre la sua voce dovrebbe in realtà provenire da un registratore che il figlio trova nella baracca, dopo la morte del padre.  
Se, dunque, ai fini della comprensione del testo scenico, non è importante la successione lineare dei dialoghi, e neppure  quella degli eventi e delle azioni, cosa resta di questo spettacolo visto al Vascello, che pure  colpisce  come se fosse un montaggio filmico di sequenze sonore frantumate, tanto brevi quanto intense? La risposta viene da un elemento scenico incongruente e per questo curioso, che "colpisce" lʼattenzione, proprio  per via della sua apparente inutilità.  Infatti al centro del palco cʼè una pedana, che figurativamente rappresenta in forma simbolica la baracca, ma che svolge,  piuttosto, la funzione di un dispositivo sonoro. Infatti, il suo spostamento, azionato dallo sforzo fisico dei personaggi che letteralmente "tirano" una corda che la fa scorrere in orizzontale, non serve a creare alcun cambio di scena, ma  genera solo un suono di vento impetuoso, di tormenta, che ricorda il rumore spaventoso dei temporali in montagna. È un boato, un fruscio che assorbe tutti gli altri rumori e "si porta via" letteralmente i dialoghi, perché in gergo tecnico "audio" si dice che  li maschera, ovvero  li nasconde.
É questo un vento montano che situa il dramma in una solitudine infinita, un vento doloroso che fa porre attenzione non tanto alle parole, quanto al grido angoscioso delle voci dei tre personaggi. Grida che si sovrastano, voci che forse hanno tanto da dire, ma che nessuno rivolge direttamente all'altro, perché ciascuno affronta un proprio sordo monologo, rivolto solo al proprio passato e agli spettatori: rabbioso e disperato il calore della voce del padre interpretato dallʼesperto Giorgio Colangeli, adeguatamente incerta e rassegnata, ricca di pause, la voce imberbe di Andrea Bosca nei panni del figlio, aspra e marcata da un'innocente quanto adolescente cadenza romanesca, la voce stentorea della figlietta omicida, impersonata da una bravissima e acerba esordiente, Maria Chiara Di Mitri.
Il compito di queste voci è di "forzare", ciascuna, lʼattenzione degli spettatori sul personaggio a cui appartiene , creando quellʼeffetto di primo piano che nel cinema è affidato allʼinquadratura, e che, attraverso  un rapido montaggio cinematografico sincopato che qui assomiglia più alla televisione che al cinema, "rompe" la linearità del racconto, proiettando, sullo schermo, uno dietro lʼaltro, immagini forti, squarci di racconto, brevi "flash" che sminuzzano il tempo in rapidi passaggi dal presente al passato e viceversa.  Il risultato è interessante dal punto di vista sperimentale, ma, forse, rischia di sovraccaricare quegli spettatori che si sforzano ancora ad ogni costo di infilare una dietro lʼaltra le situazioni di una pièce teatrale e di comprendere le battute e le risposte che danno senso ai dialoghi dei personaggi di un dramma.

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