mercoledì 21 agosto 2013

Su Teju Cole: la parte dell'ombra


Teju Cole, Città aperta (Open City)
traduzione di Gioia Guerzoni
Einaudi, pp. 270, euro 17, 50

Fabio Pedone
«Ho esplorato me stesso»: il frammento di Eraclito che, non denunciato, fa da titolo alla seconda parte di Città aperta di Teju Cole (Einaudi, traduzione di Gioia Guerzoni) delinea il rapporto tra io e mondo in questa esperienza sì ibrida ma tutt’altro che caotica; aperta come la città da cui prende spunto ma composta, piana, intessuta di sensazioni sottili e di ricordi, soprassalti, momenti di conoscenza inaspettata. Questo “romanzo” in realtà è il resoconto calmo, disponibile a ogni deviazione dettata dalla memoria o dal caso, dei vagabondaggi newyorkesi del protagonista. Ennesimo attraversamento spaesato di una città su cui così tanto è stato scritto. Open city: New York come città aperta alle migrazioni e alla varietà di contatti ed esperienze interetniche, ma anche la città come libro da leggere e “museo di tutto” carico di segni che vanno colti seguendo le vie inaspettate dello sguardo (optic) e decodificati con l’aiuto dei più vari e vitali riferimenti culturali, delle opere storiche, dei resti del passato esposti nei musei (op. cit.). Viviamo un’epoca eminentemente frammentaria. Relitti e frantumi di un altro tempo si incistano nel presente, nella forma attuale di una città, mutati in immagini-ombra. Ma è la città che infine legge l’uomo, lo squaderna a se stesso; lasciando però punti ciechi e angoli sfocati in quel testo interiore.
Julius, cresciuto in Nigeria ed emigrato a New York da adolescente, proprio come l’autore, è un casuale flâneur. Non colleziona, bensì intercetta i segni che il passato ha lasciato sparsi per la città malgrado tutte le sue trasformazioni. Psichiatra nella vita, Julius lavora nella parte dell’ombra, da dove (come stelle la cui luce arriva ancora a noi dallo spazio profondo ma che potrebbero essere già scomparse) gli fanno cenno i milioni di dimenticati, rimossi dal cuore stesso dell’America: le minoranze, i perseguitati, gli schiavi neri su cui le banche hanno costruito le loro fortune immani; le ossa di quegli uomini e donne riaffiorano ancora oggi a migliaia dai terreni dell’antico Negro Burial Ground su cui si ergono i grattacieli della finanza. E Julius passeggia, si perde, osserva immagini e ascolta storie, ricomponendo in sé i sedimenti della città.

Non c’è nulla di nuovo in una modalità di percezione che intende New York quale metonimia del mondo intero, né nella visione della città come coacervo di found imagery, palinsesto eternamente cancellato e riscritto; ma ciò che impedisce a questo libro di essere uno slegato collage di impressioni e ne fa un’opera coerente e intensa è il più fondante dei ritrovati narrativi: una voce interiore che da sola, nel proprio flusso, crea la finzione di una coscienza umana, un tono introspettivo ma mai compiaciuto o imperioso che trasferisce le tessere di esperienza, le sopravvivenze e le cose nascoste trovate dall’open eye nello spazio intimo di un open I. Il quale a sua volta si scopre specchio di una città e dell’aria di un’epoca. Come l’individuo anonimo sulla cartolina che appenderà a una parete del proprio nuovo studio, Julius è un testimone e un osservatore: un common man aduso all’estraneità, al muoversi al margine del proprio stesso distacco, alieno agli entusiasmi politici e all’afflato delle grandi cause, ma il cui scetticismo non gli impedisce di trarre lezioni per il presente dall’esperienza concreta.
Libro d’ombre, Città aperta. Perché, proprio quando più crediamo di toccare corpi saldi, abbiamo sempre a che fare con ombre. Si sa quali siano le più incombenti a New York. Di fronte alla voragine di Ground Zero, attraversata incredibilmente da un treno della metropolitana come una vena ancora pulsante in un cadavere, il protagonista può interrogarsi sulla fatalità atroce che nella tragedia vuole l’annullamento delle ombre, la sparizione dei corpi, negati alla nostra epoca fatta di immagini fantasma. Oppure può chiedersi come fanno i ruandesi che degustano aperitivi a Bruxelles a simulare innocenza dopo le violenze a cui, da ragazzi, hanno assistito o anche partecipato; e ancora medita se non vi sia un dolore planetario e imperscrutabile dietro la morte delle api o l’invasione delle cimici. Invano Julius tenta di coltivare una saggezza della superficie mossa da gangli di immagini, che lo mantenga nel suo distacco. Tutto questo attraversare e farsi attraversare non ne riscatta l’interiorità dal confronto con i lutti non elaborati, ed è questo il centro attorno al quale orbita il libro. Il lutto del mondo convoca quelllo dell’io. Che anche Julius debba inaugurare una ricerca dell’origine ne è un segnale chiaro. E tutto diviene allegoria per chi sappia leggere la faccia in ombra della realtà, il senso di una perdita irreparabile e il peso che ne deriva. Così per il narratore i ricordi hanno la stessa concretezza dei palazzi e dei volti anonimi della folla spettrale che incontra per strada, e il dolore del mondo che risuona nel proprio lo porta a pensare ai prigionieri, ai vinti, a chi ha perso tutto. Epperò, come lo stesso Cole scrive a proposito dell’ultimo Mahler, al centro di questo dolore sospeso, di questa incertezza, può covare un’inesausta fame di vita, quella che ci spinge fuori da noi stessi, a scrivere, a vivere, a testimoniare la nostra presenza e quella degli altri.
Man mano che Città aperta intreccia le sue piste emergono i toni di una fedeltà fondamentale a un istinto intimamente americano, quello che ha fatto scrivere a Whitman «Chi tocca questo libro tocca un uomo». Perciò questo non è un libro su una città in particolare più di quanto non lo sia su un individuo, sulla sua ricerca di quanto resta visibile, nell’ora, di dolori e tragedie strappati a forza dal muro della memoria. Ci si interroga poi sul senso della fine proprio perché niente è definitivo. In un finale notturno, una visione di sapore ominoso svela i piedi d’argilla del mito americano e fa pensare che come la ricerca di un modo umano di stare nel mondo, anche quella della verità su se stessi non sarà mai pacificata.

Nessun commento:

Posta un commento