lunedì 1 luglio 2013

Mario Dondero, o la tenerezza del fotografo

Maria Teresa Carbone
Se ho scelto di fare il fotografo e non il giornalista, è per pigrizia: chi scrive deve faticare di più” dice Mario Dondero, e lo dice con un tono così garbato e convincente, che quasi ti viene voglia di credergli e di dimenticare che questo signore di 85 anni suonati trascorre ancora gran parte della vita tra un treno e l'altro – e quanto al passato, basta sfogliare Dalla parte dell'uomo, il catalogo della mostra che gli ha dedicato il Palazzo Ducale di Genova nel 2012 (testi di Nanni Balestrini, Letizia Lodi, Massimo Raffaeli, Rosaria Gioia, Edizioni Il Canneto) per accorgersi che di posti nel mondo dove Dondero non è stato ce ne sono pochi. Il contrario della pigrizia, insomma.
Eppure qualcosa di vero c'è, nel suo desiderio di evitare gli sforzi inutili, e te ne accorgi dal fatto che lui viaggia leggero, niente a che vedere con il cliché del fotografo bardato di un ingombrante armamentario, e più ancora dalla sua inclinazione per la mossa del cavallo, quella che ti spiazza e riporta il gioco in mano a lui. Come in questa intervista, dove le domande servono semplicemente come segni di interpunzione in un flusso di parole che appartiene tutto a Dondero, il quale (ha scritto Massimo Raffaeli) “così come ha abolito la nozione di confine geografico, ignora a priori qualsiasi gerarchia di classe e di genere”.
E che dunque, sovvertendo l'ordine delle cose, esordisce prima ancora che gli sia stata rivolta una domanda: “Nella mia vita ho fotografato migliaia di manifestazioni, un po' perché i miei committenti erano per lo più giornali di sinistra, un po' perché a Parigi, dove ho vissuto per quarant'anni, abitavo in place du Temple e le manifestazioni passavano sotto casa mia, per cui bastava che mi affacciassi alla finestra e facessi clic. Ma in realtà, fotografare le manifestazioni non serve, bisogna andare dove ci sono le cause delle manifestazioni, in quelle fabbriche dove le persone stanno male per i vapori cattivi che respirano, dove le donne perdono i capelli perché sono obbligate tutto il giorno a stare con le cuffie di plastica in testa”.
Muoversi di continuo, andare alle radici delle cose... Per un giovane fotografo oggi, però, la situazione è più complicata, gli spazi di movimento si sono ristretti.
Sì, è così. Per chi comincia adesso e soprattutto per chi cerca di muoversi liberamente, il mestiere è più difficile, forse anche più pericoloso di un tempo. I giornali tendono a incastonarti in un ruolo e se vuoi sopravvivere, ti tocca ubbidire. Per la verità, non è una cosa nuova, è toccato anche a me in Francia, dove per anni sono stato considerato il fotografo degli scrittori, perché ho scattato una immagine, che poi è diventata celebre, con tutti i protagonisti del Nouveau Roman. Ma io sono contrario a questa specializzazione, che oggi è sempre più rigida e che corrisponde solo a esigenze commerciali. Quello che interessa a me, è andare in profondità e spesso, più del soggetto generale, sono i dettagli minimi a raccontare meglio quello che accade.
Il catalogo dell'esposizione genovese rispecchia una attenzione al mondo che non si lascia ingabbiare dalle categorie: ci sono i ritratti di scrittori e le foto di guerra, la stazioncina di Illiers cara a Proust e i griots depositari della tradizione orale in Mali...
P
er tanti anni mi sono rifiutato di fare mostre perché ti costringono a essere un certo giorno in un certo posto e puoi stare sicuro che quel giorno succederà qualcosa altrove e tu non ci sarai. Una delle prime, negli anni Ottanta, me l'hanno organizzata i ferrovieri, che insieme ai portuali sono i lavoratori che preferisco. Così ho scoperto che Il bello delle mostre è che ti permettono di colloquiare in modo più tranquillo con le persone. In fondo, il fotografo è un viaggiatore solitario, costretto a incontri e ad amori un po' casuali, ma il mondo è pieno di persone affascinanti che meritano di essere conosciute. Questa curiosità verso gli altri, del resto, è la molla che mi ha sempre guidato: penso che un bravo fotografo debba possedere una buona cultura generale, leggere tanto, informarsi il più possibile, ma la cosa davvero importante, quella senza la quale tutto il resto vale poco, è che deve amare il mondo. Il fotografo a cui fin dall'inizio ho cercato di ispirarmi, Robert Capa, è sempre riuscito a inserire nelle sue immagini una grande tenerezza, un senso di profonda umanità per le persone che ritraeva. 

Il testo integrale di questa intervista a Mario Dondero si può leggere sull'ultimo numero della rivista "il Reportage", in uscita nei prossimi giorni in libreria

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