domenica 30 giugno 2013

Macadàm - della cura trasparente


“Da quella volta non era più stato solo: almeno sulla strada. La Nazionale infatti era piena di fratelli e di compagni, che lavoravano ogni giorno in fitta schiera sulla sua stessa tratta. Per ciascuno di loro provava un affetto sincero, che di sicuro non veniva dal sangue. Alcuni li conosceva solo per nome, altri per soprannome, altri ancora non li aveva mai visti ma li sentiva tutti ugualmente vicini: dei cugini buoni, dei fratelli carnali.”
Paolo Teobaldi, Macadàm, edizioni e/o

Le case cantoniere per chi è nato alla fine degli anni 80, come me, sono quegli edifici in disuso che si affacciano sulle strade, spesso con i vetri i frantumi, le mura color mattone scrostate e le erbacce a fare da decoro. Sorgono sui rettilinei o agli incroci, fredde e agghiaccianti, disabitate e funeree, in alcuni rari casi colonizzate da inquilini abusivi che contro le recinzioni hanno piazzato reti da letto e canne di bambù. Fantasmi rossastri e muti, a volte impietosamente coperti di scritte, altre volte derubati delle proprie targhe, che per lo meno ne ricordavano l’antica funzione. La casa cantoniera fa parte di quel passato prossimo, trascorso un attimo fa ma già obsoleto, insieme al carosello, alle diapositive, alla macchina per scrivere e agli ossi di seppia. 

Quasi entità fantasmatiche e prive di spessore per chi ne ha sentito solo cantare le gesta. Figure mitologiche per bambine con le gonne fiorate e i cerchietti imbottiti a righe. Sembrano i palazzi acuti del XV arrondissement di Parigi, come li racconta Callois, o i passages coperti dove ora sostano solo prostitute e si vendono vecchi manici d’ombrello, come li descrive Benjamin. Oggi scomparsi, caduti uno dopo l’altro, ma ricordati come i baluardi di un passato, in realtà recentissimo, in cui tutto andava meglio.
Macadàm, lo stradino del curvone di cui Paolo Teobaldi ci racconta, inquilino caparbio e attento di una casa cantoniera, sensibile amante della stesa d’asfalto, figlio di stradino che non avrà mai un figlio stradino, a un certo punto ha iniziato a scuotere la testa appena sveglio la mattina. A dire che le cose non andavano più bene sul suo tratto di strada, ma non solo lì.
Non andavano bene il traffico caotico, la porno televisione, il selciato non selciato, i chiusini della rete fognaria fatti male, i funerali rumorosi, la faccia dell’uomo-che-ride ovunque, i camionisti sempre più stanchi e incazzati, le gomme masticate e sputate, i marciapiedi fatti saltare dalla gramigna, gli ubriachi mattinieri adolescenti, i fuochi d’artificio sparati per gli onomastici, la pista ciclabile fatta sboccare sulla strada principale, le biciclette elettriche guidate dagli anziani, le panchine liberty della rotonda rotte per goliardia, gli auricolari che fanno sembrare la gente tutta matta. Tutte cose storte, che hanno preso la strada sbagliata, pericolanti e fastidiose, da far oscillare il capo da destra a sinistra tutto il giorno fino a irrigidirlo per il torcicollo.
Sotto gli occhi di Macadàm il Paese cambia, va avanti, sembra perdersi pezzi per strada e smettere di interessarsi a tutto. Non guarda più le doppie file di platani o ippocastani, i mattoni pieni marcati con il simbolo della fornace, la legna presa sull’Appennino, le stufe di coccio per riscaldare le case, le valve di conchiglie come decorazioni, i fabbri che trasformano i bossoli i thermos, le sbarbature con la falce, i sardegnoli che in sardo sono gli asini, i conducenti a cui è vietato parlare ma parlano loro se serve, i contadini del Conte che camminano in fila indiana con davanti il capoccia, i dottori che fanno partorire le mucche, le americane che mangiano wurstel sott’olio, i trasporti eccezionali che sono meglio da guardare della televisione, il pancotto riscaldato, la rastrelliera d’ottone per tenere gli attrezzi come se fossero braccia della Madonna, l’estate del 60 in cui si era dimenticata la Guerra. Chi si ferma è perduto, dice l’Italia, e va avanti, nonostante tutto. Liquida e rapida come un indirizzo http.
Mia madre racconta a volte di mio nonno, bigliettaio dell’Atac, che sugli autobus teneva i bambini come se fosse uno scuolabus. Sapeva i loro nomi, sapeva dove farli sedere. Faceva su e giù tra i sedili; l’aria pacata, la divisa stirata, e salutava dai finestrini. Quei metri quadrati di mezzo pubblico erano anche suoi: arti, gambe e piedi, erano parti di lui. Come lo stradino Macadàm che conta le macchine e ne riconosce il rumore stando coricato; gli fanno prendere sonno.
Facile, forse troppo, dire che prima andava tutto bene, che si diceva di sì e ora non si fa altro che negare, sputare, gridare seduti davanti agli schermi neri. E poi lamentarsi con frasi striminzite e insulti scritti via etere, pillole di veleno lanciate verso sconosciuti che al di là di quello schermo chissà chi sono. Facile. Paolo Teobaldi non lo fa. E allora a cosa può servire l’elenco degli alberi regolarmente tagliati lungo la Nazionale perché pericolosi per chi gira in moto a centocinquanta all’ora, quando il limite è settanta? A redimere e ricordare, forse, che prima si era di più a prendersi cura di questo Paese, magari unicamente per sette chilometri di tratta, caricando moretti immigrati da chissà dove su un’ape scalcinata, parlando solo alla fine dopo che tutti hanno raccontato qualcosa in veranda, litigando quasi muti perché gli ospiti non vanno disturbati, non provando pietà per le processionarie schiacciate dai camion perché fanno venir l’orticaria persino all’asfalto.
A chi importa più se quelle erbacce sono tagliate bene, se sull’autobus c’è un uomo che invece di controllare sorride ai bambini, se quando due macchine fanno un incidente si scende prima a chiedere l’altro come sta perché in realtà quella è una tonnellata di paccottiglia ferrosa?
Macadàm è una fenomenologia di ciò che l’Italia è stata e oggi a volte riesce ancora a essere, ma sempre più di rado, l’Italia provinciale e locale, piccola e dimessa, vigile e sorniona, amante e speranzosa. L’Italia in cui ogni bambino che attraversa male la strada potrebbe essere il figlio mai avuto e va preso per mano, per andare al di là.
Abbiamo urlato, abbiamo sputato sulla folla, abbiamo detto a tutti che qui non va bene niente. Fatto a pezzi e imputato colpe a chi-ride-sempre alla televisione, a chi sui giornali scrive invettive servili, a chi alla posta salta la fila, a chi se ti ruba l’ultimo posto sulla metro si siede soddisfatto, ai ventenni che telefonano per una promozione mentre sei al bagno o all’una spaccata quando tutti si sta pranzando, la forchetta carica di carbonara a mezz’aria.
Ma non abbiamo fatto niente di nuovo, i filosofi, quelli che danno la morale a storia finita, hanno distrutto già quelle cose che ci circondano e che a noi sembra una novità ingiuriare con lingue biforcute e spinose. Li hanno già chiamati dispositivi di controllo, hanno fatto salti metafisici, hanno criticato le carceri, gli ospedali, le scuole, l’esercito, i manicomi, hanno scritto volumi corposi e saggi brevi, hanno fatto conferenze e insegnato, a volte scalzi, nelle università. Tutto già fatto, niente di nuovo. Hanno fatto a brandelli la metafisica, hanno strizzato il pensiero, hanno inveito contro le categorie. Hanno preso a calci persino quello che loro stessi avevano costruito, e ora tutti non fanno altro che alzare la voce e rastrellare il loro metro quadrato di giardino, che rimane comunque secco e senza fiori, mentre sul marciapiede davanti al palazzo ci sono trenta centimetri di foglie marce a ostruire i canali di scolo. Ma tanto non è roba mia, e lo scontrino te lo faccio più basso e ti strizzo anche l’occhio in maniera complice. E dopo aver demolito cosa resta?
Alla fine persino loro, i moralisti della volata filosofica, tornano a prendersi cura.
La cura trasparente, di me e dell’altro, che estende i suoi tentacoli invisibili sul mondo, si allunga a occhi chiusi, fa crescere germogli timidi, si arrampica sulle urla e le fa solo apparire tristi, fuori luogo, ipocondriache, malate, autoreferenziali. Lo spazio inoperoso dell’incontro, un punto a favore della relazione, quello del voler curare e lasciare che gli altri si prendano cura di noi. Un abbassamento delle difese, senza strepiti e a mani alzate. Arrendersi al fatto che siamo qui insieme, come l’Isolina, Macadàm figlio, Macadàm padre, il dottor Gaida, la Marescialla, e il letto vuoto di Renzino.
Il darsi, il curarsi, il guardarsi, il cercarsi, il ricordarsi, il redimersi, come se questo Paese fosse per ognuno di noi quel tratto di strada, quell’on the road vissuto senza muoversi di un metro, quello sguardo attento per cercare gli ossi di seppia. Come se avessimo tutti dei canarini a casa.

“Opposta a questa è la possibilità di aver cura la quale, anziché intromettersi al
posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la «cura», ma per inserirli autenticamente in essa. Questa forma di aver
cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza dell’altro e
non qualcosa di cui egli si prenda cura, aiuta l’altro a divenire trasparente nella
propria cura e libero per essa.”
Martin Heidegger, Essere e tempo.





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