martedì 17 marzo 2015

Come distruggere l'economia locale. D'Annunzio, l'olio d'oliva e i fessi italiani


di Alceste


Olio con sapiente arte spremuto
dal puro frutto degli annosi olivi,
che cantan - pace! - in lor linguaggio muto
degli umbri colli pei solenti clivi,
chiaro assai più liquido cristallo,
fragrante quale oriental unguento,
puro come la fè che nel metallo
concavo t’arde sull’altar d’argento,
le tue rare virtù non furo ignote
alle mense d’Orazio e di Varrone
che non sdegnàr cantarti in loro note ...

Una poesiaccia di Gabriele D'Annunzio sull'olio. L'olio d'oliva, quello spremuto dalle olive, i frutti che crescono sugli olivi, insomma. Ho voluto esser didascalico per tema d'un fraintendimento. Pochi sono avvezzi alla terra ormai; pochi oggi hanno visto dal vivo un pollo o un coniglio o un castagno (anche se li pappano regolarmente); la natura, anche la nostra, la mite natura mediterranea, entra in rapporto con l'uomo postmoderno solo traverso la mediazione del supermercato; o della boutique alimentare. Anzi, molte volte l'uomo di tal fatta crede la natura - quella vera - sia tale e quale come appare dagli involucri dei prodotti commerciali. Ha una fede inestinguibile in tale bric a brac di folclore disneyano: crede che le mucche ridano; i maiali si rotolino nel fango profumato agitando la coda a cavatappi per la contentezza; che le pecore sia come Shaun, quella del cartone animato; e che i villici siano uomini con appena un velo di barba incolta, sorridenti pure loro, al massimo con un cappello floscio alla Antonio Misseri; e che le campagnole siano o villiche in carne, fresche e sorridenti, o foresette col canestro appresso, pronte a far ingurgitare gelatine ai cavalli. Spesso, quando tale arcadia si infrange sulla verità, l'uomo postmoderno ha un moto di ripulsa: ad esempio quando scopre che le villiche sono omicide seriali di animali da cortile (cruente quanto indifferenti), che il contado bestemmia sovente e vanta una igiene, come dire, poco igienica; e via così. Conoscevo un tale che era ghiotto di zabaione; tutte le mattine si faceva preparare un bell'uovo fresco (davvero fresco: ancora caldo di gallina) con caffè e latte; ah, che goduria! Poi si rese conto che l'uovo (l'interno dell'uovo, quello che lui sorbiva) proveniva da un uovo (col guscio, tutto intero) e che quell'uovo (il secondo che ho detto) aveva tale guscio, come dire, tutto chiazzato dai recenti sforzi della gallina ovipara - sforzi volti a estromettere, in ultima analisi, lo stramaledetto uovo testé menzionato (nella seconda accezione). Lo shock di quell'uovo garbatamente smerdato fu una scena primaria così forte che il nostro per poco non cadde in deliquio; e mai e poi mai volle più assaggiare uova fresche che, lo seppi de relato poco tempo dopo, secondo lui "puzzavano". Questo per dire che il cittadino della società digitale vive in una landa tutta sua e mai esperisce la reale realtà che produce, volente e nolente, il cibo e le leccornie da lui gustate. Egli ha in mente Dulcinea del Toboso, bellissima e olente: mai si sognerebbe una solida massaia, colle maniche rimboccate e il culo basso; rischierebbe la pala del mulino sulla zucca.
E così per l'olio. Se lo chiede mai l'italianuzzo chi lo fa l'olietto? Chi lo produce? Chi lo materializza tutte le mattine presso il locale (super)mercato o boutique alimentare?
Non so davvero chi egli pensi produca l'olio. Willy Wonka? Antonio Banderas? Non lo so. Posso supporlo, però. Posso supporre? Una supposizione tutta mia, arbitraria. Non l'ho letta su Wikipedia. Sono proprio idee che nascono in me, tutte da sole. Allora, attenti, che suppongo.
A mio avviso:
un 33% non si pone la questione. Va al supermercato e compra. 5 litri 12 euri, offerta speciale. E amen. Come possa costare un litro di olio neanche tre euro è un mistero misterioso che non lo sfiora. Lui compra. Entra nel super e compra. Finché riesce a entrarci nel super; a forza di junk food superare i tornelli diventerà difficile.
Un 33% crede che lo porti la cicogna. Quando nessuno vede. Di notte, come la Befana. Stormi di cicogne al tramonto, come in una poesia medioevale cinese, si alzano in volo, a frotte; da ogni becco pende un candido fagottino entro cui riposa una bottiglia ialina; in essa il liquido verde smeraldo imprigiona gli ultimi raggi del sole morente ingiallando in un tripudio di calde e cangianti nuance. E la mattina dopo ...
Un 33% crede, invece, che fra Atlantide e le Isole Fortunate, oltre l'orizzonte e il capitalismo, vi sia una cornucopia immensa, sempre attiva; ad essa sovraintende un dio benigno, la cui espressione rivela insieme la ruvida energia del marinaio, propria d'un baffuto Nettuno, e il furbo ammicco del satiro, dionisiaco e farinettiano: e da tale corno mai cessante escono, ordinate, in fila, come brigate aeronautiche comandate da generali di brigata aeronautici, tutte le leccornie e i cibi d'Italia che, dopo un volo favoloso, al suono celeste di flauti oceanini, planano, inosservati, negli scaffali delle boutique del gusto italiane. O dei migliori (super)mercati. E la mattina dopo ...
L'1%, invece, sono i Morlock, quelli che l'olio lo fanno davvero.
O meglio: lo facevano. Alcuni perché era il loro lavoro, altri per tradizione di famiglia. L'Italia, con tutti i suoi difetti, è il secondo produttore mondiale d'olio. I miei nonni, ad esempio, con 0,8 ettari di terreno producevano quintali di olio. Olio vero. Olio che si ottiene dalla schiacciatura delle olive (con la mola di pietra) e che provvedeva alle scorte annuali di una decina di famiglie almeno.
Finché si decise che questo andazzo non andava bene mica; e lo Stato cominciò a manganellare questi sovversivi con le sole armi che possiede: leggine insensate e mazzette. Il fine era (ed è) quello di scoraggiare, strangolando lentamente l'economia locale e quella, che tornerà di moda, di sussistenza.
Tale modo di produzione (locale, a chilometri zero et cetera), è meglio dirlo subito, non ha certo esclusivo rilievo economico; il pregio principale, che dovrebbe essere un vanto nazionale, è quello di conservare la tradizione, il paesaggio, la natura, la vita; l'Italia.
Un campo coltivato è spesso identico allo stesso campo coltivato secoli addietro. Ha la stessa fisionomia, le stesse segnature, i medesimi toponimi, gl’identici sentieri. A volte gli stessi ruderi.
Ma questo non va più bene. La mattanza, dopo decenni di guerriglia a bassa intensità, seppur ininterrotta, è cominciata davvero con le università agrarie (o enti affini): queste, destatesi da un sonno neghittoso di qualche decennio, hanno iniziato a chiedere canoni enfiteutici a tutti (cinque anni di canone: uno in corso e quattro arretrati); un'operazione completata dalla recente introduzione dell'IMU agricola (che si basa non sulla proprietà, ma sul possesso), già piuttosto pesante (il primo anno: ma tutti si aspettano una escalation).
A corredo di questo uno-due letale, i saccoccioni statali e regionali hanno inanellato (da decenni) un vero tour de force da legulei defecando le norme e le leggine più assurde, tutte concepite, come detto, non per essere osservate, tanto sono futili e idiote, ma per indurre all'abbandono del ring: dalla qualità dop doc biologico, con gli assolvimenti più folli, alla distruzione delle ramaglie, dall'obbligo dei fitofarmaci sino a occhiuti controlli della Forestale (in loco) e delle ASL e della Finanza (nei frantoi), dalla moltiplicazione di multe salatissime in tema di sicurezza alla ferrea e certosina regolamentazione dell'uso della merda di cavallo.
L'intento è quello di distruggere e scoraggiare, una volta per tutte, e ridistribuire la terra italiana a poche grandi entità: quelle che pagano le tangenti (il tutto in nome della legge, del progresso e dell'Europa unita, però).
Come tale guerra feroce alla produzione locale conviva con gli inni continui allo slow food, alla proliferazione delle boutique del gusto e delle migliaia di trasmissioni e di libri che cianciano di enogastronomia non è dato sapere.
Gli italiani, ovvio, latitano; lo capisco: sono dei coglioni; si limitano a pretenderlo l'olio buono e son disposti pure a pagarlo caro, ma si chiedono cosa ingoiano davvero assieme all'insalata?
Così, per pura curiosità. Parte di ciò che mettono nello stomaco, ad esempio, viene dal Marocco. In Marocco acquistano i nostri frantoi dismessi, ci fanno il loro olio, poi lo spediscono qua sottocosto (non hanno l'euro e i saccoccioni, loro: non ancora) e i nostri baldi imprenditori del gusto ci mettono la patacca tricolore.
Una disfatta in progress.
Di questa disfatta sarà contento Antonio Pascale, il Virgilio fordista, uno che si lamenta degli ulivi nostrani, così commoventi e scenografici, ma tanto improduttivi.
Ora può stare tranquillo: fra IVA, imposte mobiliari, insetti biblici e grida manzoniane il passato sarà sempre più passato. E il futuro, ricco di nastri trasportatori, multinazionali, modifiche genetiche, superconcimi, olio insaporito a tavolino (e venduto in confezioni per gonzi benestanti) e olio di terza mano insaporito chimicamente (per gonzi meno abbienti), irresistibilmente presente.
A Roma, in pieno centro, abbiamo una collina artificiale, il Monte dei Cocci, formata esclusivamente da cocci di giare d'olio importate dalla Spagna e dal Nord Africa durante i primi secoli dell'Impero. Vorrà dire che torneremo a quei tempi. Con questa differenza: che allora Spagna e Africa erano nostre province, ora, purtroppo, nostre concorrenti commerciali.

Ma ai traditori della patria questo interessa poco.

1 commento:

  1. L'articolo è interessante... Ma non si spiega come certe leggi e leggine contribuiscono a strozzare la piccola produzione locale... Io riesco ad immaginare... Anche se non tutto.. Ma chi legge l'articolo e magari è un cittadino DOC :-D, sai quel 99% che descrivi,non riesce a capire bene,visto che oltre tutto,alcune leggi sono messe la per "controllare" la qualità.... Una piccola critica che spero ti invogli a rendere la tua posizione più chiara,perchè ce ne è bisogno ! :-)

    RispondiElimina