martedì 31 marzo 2015

Georg Heym, poeta di Berlino e della metropoli moderna

Georg Heym (1887-1912) è, probabilmente, uno dei maggiori poeti tedeschi del Novecento; sicuramente sconosciuto ai più.
La sua tragica morte, avvenuta ad appena venticinque anni (fu inghiottito dalle acque ghiacciate dell'Havel), avrebbe dovuto congiurare a un suo romantico ripescaggio letterario, ma, a parte un fuoco d'interesse innescato dalla traduzione Einaudi di Paolo Chiarini nei primi anni Ottanta, il suo nome sembra dimenticato.
Solo un breve, seppur meritorio, florilegio delle liriche, ha recentemente rotto il silenzio (Ci invitarono dai cortili, 2011, a cura di Claudia Ciardi).
Heym fu cantore di Berlino, e della moderna metropoli, caotica, mefitica e labirintica - una Lulu capace di irretire l'individuo tramite accorte malie, e di perderlo colla sua sfrontata inumanità.
Il retaggio culturale di Heym è, latamente, quello comune all'espressionismo di area germanica; Benn, Stramm, Ewers, Kubin, Meyrink, Wedekind; Heckel e Kirchner nella pittura; e Rye, Wegener, Wiene, nel cinema. Il simbolismo, le deformazioni prospettiche, il senso del fantastico e del demoniaco, certe intuizioni necrofile, sono parte di quel mondo d'inizio Novecento, d'ambientazione metropolitana, in cui si avvertivano, al contempo, il fascino del progresso industriale e tecnico e il disagio della liquidazione del vecchio ordine.
Heinrich Kley, Metropoli
L'epoca della macchina e della massa sostituiva irresistibile l'antico pantheon; gli artisti, e i poeti, avvertirono oscuramente tale potente irruzione che donava sì nuovi miracoli, ma esigeva, in cambio, sacrifici dapprima sconosciuti (Nelle tempeste d'acciaio di Junger descrive lucidamente tali immani ecatombi lungo il fronte della Grande Guerra).
Se stilisticamente Georg Heym è profondamente consono alle voci tedesche a lui coeve, ideologicamente egli trova compagni inaspettati nel mondo angloamericano, teatro del capitalismo più avanzato. Le descrizioni di Londra, di Arthur Machen, Stevenson e Edgar Allan Poe (L'uomo della folla) o quelle di New York, a opera di H. P. Lovecraft, sono resoconti assolutamente infernali, laddove la città, rigurgitante e tentacolare, si anima come un golem maligno, sotto la sferza di una nuova deità, crudele e meccanica - quella della modernità e dell'indifferenza.

Il dio della città

Sopra un blocco di case sta seduto,
gli cingono la fronte i venti neri,
e guarda irato ove laggiù, sperduti,
si confondono gli ultimi quartieri.

Accende il rosso ventre, a Baal, la sera,
e le grandi città stanno in ginocchi
a lui d'intorno. Innumeri rintocchi
salgon dalla marea di torri nera.

Danza di coribanti per le strade
rimbomba il ritmo della folla. Denso 
di ciminiere e fabbriche a lui sale
il fumo, come nuvola d'incenso.

Sulle sue sopracciglia il tempo abbuia.
nella notte sprofonda ormai la sera.
Intorno alla sua chioma, irta di furia,
come avvoltoio rotea la bufera.

Nel buio tende il pugno suo massiccio.
Lo scuote. Un mar di fuoco avvampa intorno
per una via, crepita il fumo arsiccio
e la divora, finché spunta il giorno.

Berlino VIII 

Le ciminiere stan sull’alto sfondo 
della luce invernale, ne portano il gran peso: 
fosca reggia d’un cielo che s’abbuia. 
Ma l’orlo suo, giù, brucia – soglia d’oro. 

Lontano tra spogliati alberi, case 
e steccati e depositi, là, dove la metropoli s’appiana, 
su rotaie di ghiaccio avanza a stento 
un treno merci e lento poi scompare. 

E di poveri spunta un cimitero, pietra su pietra, nero, 
scrutano i morti da quel loro buco 
la fiammeggiante sera. Di vino forte ha il gusto. 

Le spalle al muro, siedono tessendo, 
berretti di fuliggine sopra le tempie ossute, 
la Marsigliese cantano, l’antico inno di lotta. 

Berlino I

Seduti sopra l’erto e polveroso
argine della strada, contempliamo
la calca innumerevole e confusa
e, nella sera, la città lontana.

Le vetture dei tram imbandierate 
s’aprono colme un varco tra la folla. 
Fendon gli omnibus carichi le strade. 
Suonar di clackson, fumo e automobili. 

Verso l’immenso mare di cemento. 
Ma ad ovest si disegna fusto a fusto 
la filigrana delle chiome spoglie.

Il sole pende enorme all'orizzonte
fiamme saetta l'arco della sera.
E il sogno della luce, alto, su tutto.

* * * * * 

Il dio della città e Berlino I sono tradotte da Paolo Chiarini.
Berlino VIII da Antonio Caponnetto.

lunedì 30 marzo 2015

MVL teatro: A Roma torna Il ritorno a casa di Pinter-Stein


Maria Cristina Reggio
Le tragedie di Harold Pinter si compiono sul palco con apparente naturalezza, di fronte agli sguardi sorpresi  e divertiti, ma al tempo stesso inorriditi di chi vi assiste  e anche in Il Ritorno a casa, un testo del 1964,  in scena al Vascello con la regia di Peter Stein  la platea risponde alle battute a raffica degli attori con un inseguirsi di sorrisi trattenuti  e scoppi increduli di risate sofferte, consapevole che in questa pièce si ha  ben poco a che fare con il teatro comico. Si ride per l'eccesso di crudeltà che straripa  dai personaggi e perché, ridendo,  si assume, più o meno consapevolmente, il punto di vista del crudele, pur di sfuggire dal ruolo della  vittima. Il ritorno a casa è infatti  uno straordinario affresco sullo scambio,  in una famiglia, dei ruoli di vittima e carnefice, in cui una donna, moglie di un professore di filosofia, sceglie di restare, dopo una breve visita compiuta con il marito ai famigliari di lui,  fratelli maschi e padre compreso, proprio in quella casa.  L'apparentemente fragile giovane donna, sempre vestita con un elisabettiano cappottino celeste e borsetta, (che abbandona per un sexy quanto monacale tubino nero), si rivela, nell'incedere del tempo scenico,  la dominatrice di fronte alla quale tutti i maschi (tranne il marito) infine si prostrano e che decide di vivere in quella situazione piuttosto che altrove, come se questa fosse l'unica scelta di una  convivenza possibile. L'attacco di Pinter alla famiglia è violento quanto lo sono, in modo diverso, tutti i suoi personaggi e senz'altro la sua interpretazione simbolica del nucleo piccolo borghese sconcerta, ma viene anche da chiedersi oggi, nell'epoca delle famiglie allargate fino allo sfascio, e delle violenze esibite nei reality planetari, quanto quel quadretto che ritrae il vecchio padre e i figli, tutti avviluppati intorno alla donna-madre-vittima e regina della casa non resti,  per gli spettatori, soprattutto un perturbante quanto oscuro oggetto del desiderio.

sabato 28 marzo 2015

La poesia della domenica - Gioachino Belli, Il marchesino Eufemio

William Hogarth, Il risveglio
L'esame di un perfetto somaro, un nobile, che si risolve, ovviamente, con un successo. Ciò che avviene oggi, pressappoco, ma senza il blu del sangue. La stolida asineria passa agevole dall'aristocrazia alla borghesia. Già un altro atrabiliare, Gadda, descriveva così altri giovani imbecilli:

"Idioti dentro la capa più che se la fosse fatta di un tubero, infanti una pur che fosse favella: dopo dodici generazioni di granoturco e di migragna dai piedi verdi venuti fuori anche loro dall’Arca bastarda delle generazioni, a cercar di barbugliare una qualche loro millanteria tirchia nel foro: lo sbilenco foro di Pastrufazio! venuti giù, giù, dai formaggini fetenti del Monte Viejo alle più trombose bocciature dell’Uguirre, muti e acefali in castigliano, sordi al latino, reprobi al greco, inetti alle istorie, col cervello sotto zero in geometria e in aritmetica, non sufficienti nel tiralinee, perfino con la geografia erano insufficienti! bisognava sfiatarsi per delle settimane, degli anni, a fargli capire che cos’è una carta del vittorioso Maradagàl! e come si fa a far le carte: e ancora ancora non ce la facevano, poveri tesori! Eppure venivano giù come un olio al loro imbandierato varo, varati finalmente nel sciocchezzaio con tutti gli onori e i carismi: carene insevate da stupidità. Più insulsi erano, e più felice e liscio gli andava sottoculo lo scivolo, giù, giù ...".

Ma sì, va tutto bene agl'ignoranti. Ignoranti, ignorantissimi. Meno sanno, più si innalzano. Siamo in Italia, certo, ma non è colpa della nazione dei somari. Non solo almeno: è proprio lo Spirito dei Tempi (Zeitgeist) a imporci gli Eufemii del ventunesimo secolo.

A dì trenta settembre il marchesino,
d'alto ingegno perché d'alto lignaggio,
die' nel castello avito  il suo gran saggio:
di toscan, di francese e di latino.

Ritto all'ombra feudal d'un baldacchino 
con voce ferma e signoril coraggio,
senza libri provò che paggio e maggio
scrìvonsi con due g come cuggino.

Quindi, passando al gallico idioma,
fe' noto che jambon vuoI dir prosciutto,
e Rome è una città simile a Roma.

E finalmente il marchesino Eufemio, 
latinizzando esercito distrutto, 
disse exercitus lardi, ed ebbe il premio!

venerdì 27 marzo 2015

Laboratorio di traduzione: Eleanor Wilner, La ragazza di Vermeer, una restituzione


Un'intensità erotica che esige in cambio qualcosa di altrettanto reale e umano. Benché il rapporto sia solo con un'immagine, esso coinvolge tuttavia tutto quanto l'arte dovrebbe tenere sotto controllo. – Edward A. Snow, A Study of Vermeer, 1979

Per un attimo, la vedo, prima che il suo volto diventasse un cliché,
dove era appesa, sulla parete accanto alla porta d’ingresso,
ai piedi della scala, nella piccola casa
della nostra infanzia,  sospesa su di noi, una presenza
costante, silenziosa, accanto alla porta stile
olandese, di cui d’estate spalancavamo la parte alta.

Hanno sporcato La ragazza con l’orecchino di perla,
sottoposta al loro sguardo impudico, romanzata,
erotizzata, ridotta a pettegolezzi e insinuazioni,
raccontata come serva, spina nel fianco
di una moglie, oggetto di desiderio, figlia della miseria, muta
per timore e diffidenza sociale, quasi potesse conoscere
l’opinione dei posteri sul pittore– tutto ciò
da un bagliore misterioso e un’espressione indecifrabile,
l’illusione di essere visti dal suo sguardo, un luccichio
di perla, pennellate di lapislazzuli, frantumati a intensificare 
l’azzurro.
                                       Sovraesposta, anche al cinema,
dove l’hanno seguita fino alla buia stamberga
della sua famiglia, fino alle pietre bagnate del mercato dove
incontrò il figlio del macellaio, sposato poi
per la carne–dio mio, non potevano lasciarla
in pace, nella regione occulta dell’arte dove lei è,
così splendidamente, nessuno–né serva, né amante,
né la figlia Maria, ma anonima,
segreta, che nessuno può nominare, puro mistero
dell’essere, restituita nel tempo
dall’arte, che non tiene nulla  sotto controllo.


VERMEER'S GIRL, A RESTORATION
An erotic intensity that demands something just as real and human in return. The relationship may be only with an image, yet it involves all that art is supposed to keep at bay. -Edward A. Snow, A Study of Vermeer, 1979

For an instant, I see her, before her face was cliché,
where she hung, on the wall by the front door,
at the foot of the staircase, in the little house
of our childhood, and floated above us, a presence,
always there, silent, by the Dutch-style
door, whose top we swung open in summer.

They have sullied The GirI with the Pearl Earring,
subjected her to their prurient gaze–novelized,
eroticized, reduced her to gossip and innuendo,
backstoried her as servant, thorn in the side
of a wife, object of desire, poverty's child, mute
with class diffidence and awe, as if she could be
aware of posterity's view of the painter–all  this
from a mysterious glow and unreadable expression,
the illusion of being seen by her gaze, a shimmer
of pearl, brush strokes of lapis lazuli, crushed
to intensify blue.
                                    Overexposed, even in film,
where they followed her to her family's dark
hovel, to the wet stones of the market where
she met the butcher’ s son she would marry
for meat–my god, couldn' t they leave her
alone, in the nether region of art where she is,
so beautifully, no one– not servant, or mistress,
or his daughter Maria, but anonymous,
secret, what no one can name, pure mystery
of being, restored across time
by art, which keeps nothing at bay.
 
da  Eleanor Wilner, Tourist in Hell, 2010
Il testo è riprodotto per gentile concessione dell’Autrice

mercoledì 25 marzo 2015

Una poesia araba: Al-A'sha, Va’ amica mia, sei libera

G. Luca Chiovelli

Maymun ibn Qays noto come Al-A'sha (570 circa-625 circa) ovvero il Nittalopo, a causa della sua vista indebolita e della conseguente preferenza per la semioscurità.
La poesia è tratta da un volume Donzelli del 2003 che raccoglie liriche della tradizione araba, persiana, turca ed ebraica.
Dal libro in questione traggo altresì la fulminea biografia del Nostro: "Nacque e morì in un oasi a sud di Ryad ... viaggiò ... molto, probabilmente come mercante. In una delle sue poesie racconta come, per far soldi, abbia girato il mondo: Oman, Homs e Gerusalemme, ma anche Etiopia, Iraq, Iran e Arabia meridionale".
Si spinse forse a Bisanzio.
È considerato poeta preislamico anche se, forse, fu tentato dalla conversione. O forse no, come vedremo.
Di Al-A'sha non so nulla. Ignoro il contesto storico. E la lingua. Le allusioni, i riferimenti. Il senso di pietà e comprensione per la sua donna che emerge da tale solitaria lirica. Eppure son grato a questo libro: prima di crepare ho conosciuto un nuovo amico: Al-A'sha, nato in una oasi dell'Arabia centrale.
Nella poesia a volte meno si sa meglio è. L'ignoranza stimola la leggenda e, perciò, ancora, la poesia, che ne esce doppiamente amplificata. Come accade quando scorriamo le storie dei poeti della Provenza, condensate in rapide biografie, dette vidas: dicono qualcosa, tutto e niente, ciò che è filologicamente inattendibile, ma poeticamente rilevante. Meglio così. Come per Jaufré Rudel, che scrisse sei poesie e divenne immortale per la meravigliosa vida che apposero al suo minuscolo canzoniere: quasi una settima poesia, forse la più bella.

Jaufré Rudel de Blaia era uomo molto nobile, principe di Blaia. S'innamorò della contessa di Tripoli, senza averla mai vista, per il bene che ne sentiva dire dai pellegrini che venivano da Antiochia ... per il desiderio di vederla si fece crociato e si mise per mare; sulla nave lo prese una malattia; fu condotto a Tripoli, in un albergo, e dato per morto. Fu fatto sapere alla contessa, ella venne da lui, al suo capezzale e lo prese fra le braccia. Egli si rese conto che si trattava della contessa e di colpo recuperò l'udito e l'odorato e si mise a lodare Dio di avergli concesso di vivere tanto da poterla vedere; e così morì tra le sue braccia. Ella lo fece seppellire con grande pompa nella casa del Tempio; poi, in quel giorno, si fece monaca per il dolore provato per la sua morte”.

E poi basta farsi cullare dai nomi: Bisanzio, Gerusalemme, Ryad.
E poi: un'oasi a sud di Ryad. Oasi, cioè beduini. I beduini mi fanno venire in mente una noterella a una poesia di Abu Nuwas, contenuta nel citato libro di Donzelli; vi si nomina la tribù beduina di Banu 'Udhra:

"Banu 'Udhra era una tribù araba, famosa per la devozione dei suoi membri alla poesia e la loro consacrazione all'amore semplice e disinteressato, qualcosa a metà tra l'amore platonico e l'amore cortese". 

Insomma, nel cuore dell'Arabia si nascondevano provenzali e stilnovisti. L'avreste mai detto? Altrove leggo:

"I beduini della tribù preislamica di Banu 'Udhra ... avevano abbracciato il culto di una forma platonica d'amore, un amore contrastato, a distanza, che sarebbe durato sino alla morte".

Un amore a distanza? E chi ci ricorda? Nientemeno che Jaufré Rudel, il provenzale che morì bramando l'amore della principessa di Tripoli. L'amore a distanza ("amor de lohn"), l'inappagato, il più perfetto.
Vedete come tutto si tiene quando si parla fra amici.
Possiamo folleggiare ancora.
Si dice che Al-A'sha fu un nestoriano cristiano ("almost christian"). Si dice. I nestoriani credevano a una doppia natura del Cristo, umana e divina. Maria era madre della natura umana, ma non di quella divina, ineffabile. Il nestorianesimo, tenacemente combattuto, si diffuse in Persia, Cipro, Mesopotamia, Arabia; persino in India e Cina. Oggi sopravvive in piccoli gruppi. Eugenio Montale, in una sua lirica, si paragona a un "povero nestoriano smarrito". Il credo nestoriano fu, secondo alcuni, alla base del pervicace mito medioevale del Prete Gianni, monarca cristiano dell'Asia. In una famigerata lettera, ritenuta apocrifa, egli così si descrive:

"Sappi e fermamente credi che io, Prete Gianni, sono signore dei signori e in ogni ricchezza che c'è sotto il cielo, e in virtù e in potere supero tutti i re della terra. Settantadue re ci pagano i tributi. Sono un devoto cristiano e ovunque proteggo e sostengo con elemosine i cristiani veri governati dalla sovranità della mia Clemenza"

L'epistola giunse a Manuele Comneno, imperatore di Bisanzio, al papa Alessandro III e a Federico Barbarossa. Il mito del Prete Gianni incendierà l'immaginazione di tutta la letteratura europea del tardo Medioevo. Marco Polo, Ariosto; e i poeti siciliani del Duecento, inventati alla corte di Federico II, stupor mundi; e influenzati pesantemente, scopertamente, dai francesi di Provenza - quei provenzali che, secondo alcuni studiosi, trassero linfa, a sua volta, dai poeti arabi moreschi, andalusi. Stroficamente, concettualmente; e musicalmente: e infatti il liuto è arabo (al 'ud). Come araba fu la Sicilia, per più di un secolo.
Il Prete Gianni. Non conoscete la leggenda del Prete Gianni, imperatore delle tre Indie? Peggio per voi. Significa che siete sfortunati, o malaccorti, o semplicemente degli zotici, e, per soprammercato, degli Yahoo, gli scimmioni de I viaggi di Gulliver. Senza offesa.
Mi viene in mente altro? A proposito di Yahoo, Oriana Fallaci. Nel clima post 11 settembre, isterico e psicopatico, licenziò alcuni goffi libelli antimusulmani o antiarabi. In essi esaltava la civiltà occidentale contro la civiltà degli stracci in testa. In un passo d'uno di questi, scorreggiato a nove colonne da Il Corriere della Sera, ella cicalava, pressappoco: "A Firenze abbiamo Michelangelo, Dante e la cupola del Brunelleschi. Noi siamo l'Occidente. Abbiamo dato tanto al mondo. E loro, invece, cosa ci hanno dato? Al massimo qualche poesiola di Omar Khayyám".
Se l'avessero sentita, tra gli altri, il fiorentino Guido Cavalcanti, accusato di eresie averroiste, o il fiorentino Dante, idolatra di Federico II, uno che con il Medio Oriente aveva commerci concettuali fiorentissimi (stavo per dire: fiorentinissimi), l'avrebbero cacciata in convento. Ma non è colpa sua; della povera Oriana, intendo. Era una giornalista. Bisogna comprenderla, anche se il suo disprezzo è di una superficialità e di una meschinità accecanti, imperdonabili. In tal caso l'ignoranza non genera poesia, ma solo altra ignoranza. Evidentemente esistono due ignoranze; una felice, che si nutre della favola e della meraviglia e incita alla conoscenza; e un'ignoranza della mediocrità. Dalla prima nascono i fior, dalla seconda Giuliano Ferrara, un altro di cui non rimarrà niente.
Leggete, allora, il mio amico Al-A'sha, il mezzo cieco dell'oasi di Ryad; e, se lo trovate, anche il libro della Donzelli, in cui c'è posto per geni conosciuti (Hafiz, Nizami, Khayyám) e qualche sconosciuto, come Abu Nuwas, o Al-Hallaj, o il persiano Rudagi (Come acqua salsa è il baciare/a ogni sorso s'accresce la sete); Rudagi, che in vita sua scrisse 180.000 poesie. Qualcuna in più di Khayyám, e di Dante, e di Guido.

Va' amica mia, sei libera.
Tale è la sorte umana, di giorno o di notte.
Lasciami, perché andarsene è meglio del bastone
che sarebbe stato appeso, minaccioso, sopra la tua testa.
Non perché tu abbia commesso alcun grave torto
né ci abbia causato alcuna grave calamità -
Va' incolpevole e pura,
amante e amata.
Prova un altro uomo, e io
un'altra donna, proprio come vuoi tu.

Traduzione di Anna Linda Callow, da Ti amo di due amori, Donzelli, 2003.
Traduzione della vida di Rudel di R. Gagliardi.

martedì 24 marzo 2015

Mvl cinema: Damien Chazelle, Whiplash


Whiplash, Usa 2014
Regia: Damien Chazelle
Interpreti: J. K. Simmons, Miles Teller, Melissa Benoist, Austin Stowell

Maria Vayola
Whiplash di Damien Chazelle è, a mio avviso, un film sulla passione, non quella amorosa, ma sulla passione in generale, nella fattispecie la musica, e uno strumento in particolare, la batteria.
Andrew (Miles Teller), protagonista del film, ha verso lo strumento una dedizione totale, la sua musica è il jazz, frequenta il Conservatorio di Manhattan e viene scelto dal prestigioso insegnante Terence Fletcher ( J.K.Simmons) a far parte della sua band, considerata un'eccellenza.
Andrew è provvisto del talento necessario a emergere come musicista e della volontà proporzionata affinché questo possa avvenire; esercita così la sua passione in modo esclusivo facendo intorno a sé un volontario vuoto relazionale e affettivo, concentra la sua vita nello studio del suo strumento e nella realizzazione di sé attraverso quello. In questo quadro personale del ragazzo si inserisce la figura di Fletcher, il suo corso è ambito dagli studenti, è lui che li sceglie, come fa con Andrew, è lui che li espelle se non corrispondono alle sue aspettative. E' uno scopritore di talenti, ma il suo corso è un girone dell'inferno per chi vi partecipa, vuole essere, il suo, uno stimolo all'impegno assoluto, al sacrificio di qualsiasi altra cosa esuli dallo studio per far emergere le proprie capacità.

I suoi metodi, vanno, però, oltre qualsiasi umana concezione dell'insegnamento, è con il terrore che esercita la sua professione, incutendo paura, usando
l'insulto personale come stimolo alla perfezione esecutiva, insinuando una rivalità malata carica solo di arrivismo e competitività privi di qualsiasi elemento di solidarietà e comprensione umana, stabilendo un clima di sottomissione in cui il dissenso non è previsto se non come mezzo per essere escluso. Trasforma l'amore per la musica nel fango di un campo d'addestramento dei marines, la scena in cui "rimprovera" un suo studente "non magro"sembra quasi una citazione del tenente Hartman di Full metal jacket, e non a caso, come quello, provocherà il suicidio di un ragazzo.


Nessuno della band si ribella, ormai assuefatto al motto mors tua vita mea. E  seppur la severità può essere una metodologia di insegnamento per spronare allo studio intensivo e per far emergere delle eccellenze, la malvagità e i metodi quasi razzisti sono un modo di annientamento di qualsiasi personalità e dignità umana.
Andrew, in questo contesto, porterà all'esasperazione lo studio del suo strumento, fino a macchiare col sangue delle sue mani la batteria, nel tentativo si eseguire alla perfezione il brano in 7/4, (ritmo complicato e difficile da realizzare) Whiplash, il cui significato, Frustata, sembra una metafora delle lezioni di Fletcher.


Il conflitto  che si instaura tra discente e docente si svilupperà a livello psicologico, emotivo e anche fisico; si ribellerà il ragazzo al maestro, anche con l'aggressione e con la denuncia, fatta in forma anonima, al conservatorio. Neanche da lui avremo, però, un moto di ribellione diretto ed esplicito a favore dei suoi compagni che restano tutti in balia di Fletcher che, sebbene abbia una sua autorevolezza, che gli deriva dalle sue capacità professionali, impronta il suo insegnamento sull'esercizio di una autorità esacerbata e diseducativa.
La tenacia del ragazzo e una certa casualità lo porteranno alla fine a suonare in pubblico con la band di Fletcher, ottenendo riconoscimento e applausi meritati.


Il film ha una sua specificità formale, adeguata al contenuto e con un suo fascino, la scena iniziale in cui la telecamera si muove all'interno di un corridoio avvicinandosi al ragazzo che suona la batteria è preludio di un atmosfera claustrofobica, è, infatti, dal buio di quella stanza che apparirà Fletcher quasi come un demone che si materializzi; la maggior parte delle scene sono realizzate all'interno del conservatorio mantenendo così un clima cupo a contrasto con le scene girate in esterno che sembreranno quasi disturbare l'attenzione dello spettatore.


Sono spesso usati dei primi piani molto ravvicinati, quasi si volesse entrare dentro i personaggi o farli uscire fuori dallo schermo.
Tornando a quanto detto all'inizio, secondo me, il nodo centrale del film è la passione, non quella passiva in base alla quale si ha uno specifico interesse per qualcosa di già esistente, letteratura, cinema,arti figurative etc. che pure può prendere una grossa fetta della propria vita, ma quella attiva in cui un particolare talento o addirittura una forma di genialità si rendono partecipi del processo creativo. In tutti e due i casi la propria vita ha una marcia in più per cercare un senso e una realizzazione di sé stessi, ma nel secondo la dedizione può essere totale ed esclusiva, tanto da risultare l'unico elemento significativo dell'esistenza.  L'egocentrismo e una visione univoca attraverso cui filtrare la realtà portano a uno straniamento dagli altri, a una concentrazione delle proprie energie verso l' alimentazione della passione, emarginando quasi completamente gli altri stimoli della vita a cose secondarie e accidentali.

Andrew rientra appieno in questo tipo di persona, è con lui che la trama sviluppa quello che può essere avere una passione ed egli sceglie di viverla fino in fondo; quale sia poi un giudizio qualitativo su questo tipo di vita, è discussione interessante ma non può rientrare in questo post.
Si può discutere invece sulla figura di Fletcher, sui suoi metodi di insegnamento e su quanto essi possano avere un effetto positivo, come sembra suggerire la conclusione del film,  su un processo di crescita personale del tipo sopra descritto.

A parte gli elementi diseducativi quali l'istigazione a una competizione senza regole e l'umiliazione dell'individualità dei discenti, non mi sembra che un atteggiamento violento, urla in faccia e insulti, possano stimolare la creazione di talenti e alimentare in loro la passione per qualsiasi cosa; è un processo interiore quello dell'esercizio di una passione; se disciplina ci deve essere sarà autodisciplina, se esclusione dalla quotidianità è necessaria sarà auto esclusione, se in parte sottintende la negazione di una parte di sé, ciò non significa la rinuncia alla dignità e alla pretesa del rispetto personale.
Chazelle, ha spostato il tema del successo dalle edulcorate e ambigue ambientazioni di Hollywood,  a un austero conservatorio di Manahattan, ha costruito un film originale come tematica e come struttura, ha però inserito un elemento, l'insegnamento di Fletcher, che io, in base naturalmente alla mia personale percezione del suo lavoro, trovo come punto debole e fuorviante, sopratutto se lo si vuole mostrare con una valenza positiva.



sabato 21 marzo 2015

La poesia della domenica - Amir Khusrow, Colorami dei colori d'amore

Presso il Museo Nazionale d'Arte Orientale Giuseppe Tucci, di Roma, ebbi, qualche tempo fa, una rivelazione; una delle tante che regolarmente mi fanno visita. Non rivelazioni di verità supreme, ma la rivelazione, letteraria e inconfutabile, dell'angustia del nostro conoscere. In breve: in una bacheca notai la traduzione di un frammento di poesia indiana o persiana in cui l'autore - anonimo - paragonava l'amata a un cipresso. La metafora, che non ha eguali o quasi nella lirica occidentale, mi piacque da subito. E allora volli saper chi fosse tale meraviglioso cantore e, perciò, scoprii Amir Khusrow (1253-1325). Una personalità gigantesca, e tuttora molto popolare nel continente indiano. Khusrow non fu solo un poeta noto per la raffinatezza delle composizioni, ma anche un musicista innovativo (a lui si ascrive addirittura l'invenzione del sitar). Compose in hindi (la lingua parlata dal popolo) e in persiano (lingua di corte del Sultanato islamico di Delhi). Le sue liriche furono riunite in cinque diwan (canzonieri; Goethe alludeva al diwan quando scrisse il Divano occidentale-orientale).
Attraverso Khusrow si entra in contatto con un mondo poetico (Persia, India - e tralasciamo l'Arabia, la Cina etc) assolutamente sterminato. Questa è la rivelazione di cui parlavo. Un territorio conosciuto esclusivamente da qualche specialista accademico: Hafiz, Khayyám, Nizami Ganjavi, Anwari, Lalla, Bilhana, Bharavi ... un universo stordente di nomi, traslitterazioni, allusioni, rimandi, metafore, leggende e concetti metafisici a noi stranieri, ma dal fascino così profondo da essere perturbante. Di tutto questo - di tale continente letterario parallelo - ignoriamo quasi tutto; se cominciamo a studiare subito, con amore e dedizione, ne potremmo arrivare a conoscere una minuscola parte; qualche traduzione qua e là è stata pubblicata persino in italiano. Shakespeare, Dante, Omero, Cavalcanti, Villon: e va bene, ma quanti loro omologhi orientali giacciono non tradotti e da noi colpevolmente negletti? 
Mi piacerebbe avere sette vite, come i gatti, per leggere tutto ciò che merita di essere letto.
Ah, Khusrow, che peccato averne una sola, di vita!
Cercherò di non sprecare quello che ne rimane leggiucchiando Elena Ferrante.

I

Colorami dei colori d'amore,
tu sei l’amante delle amanti,
colorami del tuo amore.
Colora la mia sciarpa e il mio turbante d’innamorato,
colorali entrambi dei colori della primavera.
Qualunque cosa chiederai in cambio
io te la darò.
Darò in pegno la mia gioventù
se tu lo vuoi.
Tu sei l’amante delle amanti,
son giunto alla tua porta,
ti prego custodisci il mio orgoglio e la mia dignità.
Colorami in colori d'amore,
tu sei l’amante delle amanti,
colorami del tuo amore.

II

Le tue labbra son più dolci del miele più dolce
e non c’è una bambina come te, bambina mia.
Quando il tuo splendore il Cielo vede, e il tuo abbaglio
esso dice: “Questa è una luna più bella della mia”.
Il parco ha cipressi, larici e pini
ma nulla ti somiglia mia divina, mio cipresso.
Non hai bisogno di pugnali o spade o coltelli
un dardo dal tuo occhio mi rubò la vita.
Il fuoco d’amore è dolce, oh, quanto dolce
ma quest’inferno lo preferisco al paradiso.
Bacia gli occhi del tuo Khusrow, sciocca ragazza,
ogni sua piccola lacrima è come una perla.

giovedì 19 marzo 2015

Emily Brontë - "Son davvero felice quanto più lontana reco ..."

C. D.Friedrich, Mare e luna

Sulla Brontë come poetessa Oscar Wilde ebbe a dire: "Le poesie di Emily Brontë, che son sempre sul punto di diventare grandi". Ma il vecchio Wilde le conosceva solo in parte, e non per sua colpa (morì prima che fossero pubblicate organicamente). Questa lirica è, invece, davvero grande. Essa esula dal cosiddetto ciclo di Gondal, un mondo immaginario, d'intrighi rinascimentali, tradimenti e sangue, cui Emily dedicò gran parte delle sue duecento composizioni.
Qui l'ispirazione è la fuga dalla realtà. L'urgente anelito alla disincarnazione: quando non sono ("When I am not").
Lo straniamento persino dall'amata natura, sempre ricorrente (luna, vento, nuvole, la brughiera) e l'annullamento in qualcosa di indefinito che regala, finalmente, la felicità.
Un percorso mistico disegnato con assoluta semplicità di mezzi espressivi.

Son davvero felice quanto più lontana reco
l'anima mia dalla sua veste d'argilla
nel vento della notte quando splende la luna
e spazia il mio sguardo su mondi di luce

quando non sono e nessuno mi è accanto
la terra o il mare o un cielo senza nubi
ma è solo lo spirito che vaga lontano
nella vastità immensa dell'infinito.

martedì 17 marzo 2015

Come distruggere l'economia locale. D'Annunzio, l'olio d'oliva e i fessi italiani


di Alceste


Olio con sapiente arte spremuto
dal puro frutto degli annosi olivi,
che cantan - pace! - in lor linguaggio muto
degli umbri colli pei solenti clivi,
chiaro assai più liquido cristallo,
fragrante quale oriental unguento,
puro come la fè che nel metallo
concavo t’arde sull’altar d’argento,
le tue rare virtù non furo ignote
alle mense d’Orazio e di Varrone
che non sdegnàr cantarti in loro note ...

Una poesiaccia di Gabriele D'Annunzio sull'olio. L'olio d'oliva, quello spremuto dalle olive, i frutti che crescono sugli olivi, insomma. Ho voluto esser didascalico per tema d'un fraintendimento. Pochi sono avvezzi alla terra ormai; pochi oggi hanno visto dal vivo un pollo o un coniglio o un castagno (anche se li pappano regolarmente); la natura, anche la nostra, la mite natura mediterranea, entra in rapporto con l'uomo postmoderno solo traverso la mediazione del supermercato; o della boutique alimentare. Anzi, molte volte l'uomo di tal fatta crede la natura - quella vera - sia tale e quale come appare dagli involucri dei prodotti commerciali. Ha una fede inestinguibile in tale bric a brac di folclore disneyano: crede che le mucche ridano; i maiali si rotolino nel fango profumato agitando la coda a cavatappi per la contentezza; che le pecore sia come Shaun, quella del cartone animato; e che i villici siano uomini con appena un velo di barba incolta, sorridenti pure loro, al massimo con un cappello floscio alla Antonio Misseri; e che le campagnole siano o villiche in carne, fresche e sorridenti, o foresette col canestro appresso, pronte a far ingurgitare gelatine ai cavalli. Spesso, quando tale arcadia si infrange sulla verità, l'uomo postmoderno ha un moto di ripulsa: ad esempio quando scopre che le villiche sono omicide seriali di animali da cortile (cruente quanto indifferenti), che il contado bestemmia sovente e vanta una igiene, come dire, poco igienica; e via così. Conoscevo un tale che era ghiotto di zabaione; tutte le mattine si faceva preparare un bell'uovo fresco (davvero fresco: ancora caldo di gallina) con caffè e latte; ah, che goduria! Poi si rese conto che l'uovo (l'interno dell'uovo, quello che lui sorbiva) proveniva da un uovo (col guscio, tutto intero) e che quell'uovo (il secondo che ho detto) aveva tale guscio, come dire, tutto chiazzato dai recenti sforzi della gallina ovipara - sforzi volti a estromettere, in ultima analisi, lo stramaledetto uovo testé menzionato (nella seconda accezione). Lo shock di quell'uovo garbatamente smerdato fu una scena primaria così forte che il nostro per poco non cadde in deliquio; e mai e poi mai volle più assaggiare uova fresche che, lo seppi de relato poco tempo dopo, secondo lui "puzzavano". Questo per dire che il cittadino della società digitale vive in una landa tutta sua e mai esperisce la reale realtà che produce, volente e nolente, il cibo e le leccornie da lui gustate. Egli ha in mente Dulcinea del Toboso, bellissima e olente: mai si sognerebbe una solida massaia, colle maniche rimboccate e il culo basso; rischierebbe la pala del mulino sulla zucca.
E così per l'olio. Se lo chiede mai l'italianuzzo chi lo fa l'olietto? Chi lo produce? Chi lo materializza tutte le mattine presso il locale (super)mercato o boutique alimentare?
Non so davvero chi egli pensi produca l'olio. Willy Wonka? Antonio Banderas? Non lo so. Posso supporlo, però. Posso supporre? Una supposizione tutta mia, arbitraria. Non l'ho letta su Wikipedia. Sono proprio idee che nascono in me, tutte da sole. Allora, attenti, che suppongo.
A mio avviso:
un 33% non si pone la questione. Va al supermercato e compra. 5 litri 12 euri, offerta speciale. E amen. Come possa costare un litro di olio neanche tre euro è un mistero misterioso che non lo sfiora. Lui compra. Entra nel super e compra. Finché riesce a entrarci nel super; a forza di junk food superare i tornelli diventerà difficile.
Un 33% crede che lo porti la cicogna. Quando nessuno vede. Di notte, come la Befana. Stormi di cicogne al tramonto, come in una poesia medioevale cinese, si alzano in volo, a frotte; da ogni becco pende un candido fagottino entro cui riposa una bottiglia ialina; in essa il liquido verde smeraldo imprigiona gli ultimi raggi del sole morente ingiallando in un tripudio di calde e cangianti nuance. E la mattina dopo ...
Un 33% crede, invece, che fra Atlantide e le Isole Fortunate, oltre l'orizzonte e il capitalismo, vi sia una cornucopia immensa, sempre attiva; ad essa sovraintende un dio benigno, la cui espressione rivela insieme la ruvida energia del marinaio, propria d'un baffuto Nettuno, e il furbo ammicco del satiro, dionisiaco e farinettiano: e da tale corno mai cessante escono, ordinate, in fila, come brigate aeronautiche comandate da generali di brigata aeronautici, tutte le leccornie e i cibi d'Italia che, dopo un volo favoloso, al suono celeste di flauti oceanini, planano, inosservati, negli scaffali delle boutique del gusto italiane. O dei migliori (super)mercati. E la mattina dopo ...
L'1%, invece, sono i Morlock, quelli che l'olio lo fanno davvero.
O meglio: lo facevano. Alcuni perché era il loro lavoro, altri per tradizione di famiglia. L'Italia, con tutti i suoi difetti, è il secondo produttore mondiale d'olio. I miei nonni, ad esempio, con 0,8 ettari di terreno producevano quintali di olio. Olio vero. Olio che si ottiene dalla schiacciatura delle olive (con la mola di pietra) e che provvedeva alle scorte annuali di una decina di famiglie almeno.
Finché si decise che questo andazzo non andava bene mica; e lo Stato cominciò a manganellare questi sovversivi con le sole armi che possiede: leggine insensate e mazzette. Il fine era (ed è) quello di scoraggiare, strangolando lentamente l'economia locale e quella, che tornerà di moda, di sussistenza.
Tale modo di produzione (locale, a chilometri zero et cetera), è meglio dirlo subito, non ha certo esclusivo rilievo economico; il pregio principale, che dovrebbe essere un vanto nazionale, è quello di conservare la tradizione, il paesaggio, la natura, la vita; l'Italia.
Un campo coltivato è spesso identico allo stesso campo coltivato secoli addietro. Ha la stessa fisionomia, le stesse segnature, i medesimi toponimi, gl’identici sentieri. A volte gli stessi ruderi.
Ma questo non va più bene. La mattanza, dopo decenni di guerriglia a bassa intensità, seppur ininterrotta, è cominciata davvero con le università agrarie (o enti affini): queste, destatesi da un sonno neghittoso di qualche decennio, hanno iniziato a chiedere canoni enfiteutici a tutti (cinque anni di canone: uno in corso e quattro arretrati); un'operazione completata dalla recente introduzione dell'IMU agricola (che si basa non sulla proprietà, ma sul possesso), già piuttosto pesante (il primo anno: ma tutti si aspettano una escalation).
A corredo di questo uno-due letale, i saccoccioni statali e regionali hanno inanellato (da decenni) un vero tour de force da legulei defecando le norme e le leggine più assurde, tutte concepite, come detto, non per essere osservate, tanto sono futili e idiote, ma per indurre all'abbandono del ring: dalla qualità dop doc biologico, con gli assolvimenti più folli, alla distruzione delle ramaglie, dall'obbligo dei fitofarmaci sino a occhiuti controlli della Forestale (in loco) e delle ASL e della Finanza (nei frantoi), dalla moltiplicazione di multe salatissime in tema di sicurezza alla ferrea e certosina regolamentazione dell'uso della merda di cavallo.
L'intento è quello di distruggere e scoraggiare, una volta per tutte, e ridistribuire la terra italiana a poche grandi entità: quelle che pagano le tangenti (il tutto in nome della legge, del progresso e dell'Europa unita, però).
Come tale guerra feroce alla produzione locale conviva con gli inni continui allo slow food, alla proliferazione delle boutique del gusto e delle migliaia di trasmissioni e di libri che cianciano di enogastronomia non è dato sapere.
Gli italiani, ovvio, latitano; lo capisco: sono dei coglioni; si limitano a pretenderlo l'olio buono e son disposti pure a pagarlo caro, ma si chiedono cosa ingoiano davvero assieme all'insalata?
Così, per pura curiosità. Parte di ciò che mettono nello stomaco, ad esempio, viene dal Marocco. In Marocco acquistano i nostri frantoi dismessi, ci fanno il loro olio, poi lo spediscono qua sottocosto (non hanno l'euro e i saccoccioni, loro: non ancora) e i nostri baldi imprenditori del gusto ci mettono la patacca tricolore.
Una disfatta in progress.
Di questa disfatta sarà contento Antonio Pascale, il Virgilio fordista, uno che si lamenta degli ulivi nostrani, così commoventi e scenografici, ma tanto improduttivi.
Ora può stare tranquillo: fra IVA, imposte mobiliari, insetti biblici e grida manzoniane il passato sarà sempre più passato. E il futuro, ricco di nastri trasportatori, multinazionali, modifiche genetiche, superconcimi, olio insaporito a tavolino (e venduto in confezioni per gonzi benestanti) e olio di terza mano insaporito chimicamente (per gonzi meno abbienti), irresistibilmente presente.
A Roma, in pieno centro, abbiamo una collina artificiale, il Monte dei Cocci, formata esclusivamente da cocci di giare d'olio importate dalla Spagna e dal Nord Africa durante i primi secoli dell'Impero. Vorrà dire che torneremo a quei tempi. Con questa differenza: che allora Spagna e Africa erano nostre province, ora, purtroppo, nostre concorrenti commerciali.

Ma ai traditori della patria questo interessa poco.

domenica 15 marzo 2015

La paura genera poesia. Quaderno omaggio 2015: Marianne Boruch

a cura di Fiorenza Mormile
Il laboratorio di traduzione di poesia ha deciso di introdurre accanto all’attività già avviata (dedicata quest’anno ad Eleanor Wilner) un quaderno di traduzioni in omaggio a un poeta in visita a Roma: la statunitense Marianne Boruch, che terrà un reading alla John Cabot University martedi 17 marzo alle 18.
                                     
Nella pur breve scelta si individuano tematiche ricorrenti: la violenza, la paura, l’attenzione ai corpi e alla loro fragilità, l’insistenza sulla loro disgregazione. Come in Hands, la sala di disegno e quella di anatomia  si affiancano, necessarie entrambe. Il falco che divora la sua preda, smembrandola meticolosamente, sembra anticipare la dissezione anatomica della mano (Hands), le statue mutile del foro (At The Forum), così come i martoriati martiri di Old Paintings. La minaccia -della morte e non solo- aleggia costantemente sui vivi e la paura è l’inevitabile risposta, come ben sanno l’uccello che dall’alto assiste allo scempio della gracola (The Hawk) e la viaggiatrice notturna terrorizzata dai continui tentativi di forzare la porta del suo vagone letto (Old Paintings). “The old story. Threat meet dread” ci riconferma anche un passaggio chiave di Rom, Du Bist Ein Welt. Ma appare in Boruch anche un altro timore, quello di non ricordare tutto, di non riuscire a ricomporre a distanza, in una poesia, le forti emozioni del momento. Ecco quindi gli schizzi da Gran Tour nella casa di Keats, come la registrazione puntuale di tutti gli stimoli visivi e sonori (silenzio compreso), siano quelli di un cortile pieno di uccelli, dello sbatacchiare di ferraglia di un treno di notte o del vociare che dalla scalinata di Piazza di Spagna penetra nella silenziosa casa-museo.  Boruch sa accendere anche inaspettati sprazzi di humour, collaudato antidoto alla melanconia: il braccio del cadavere che continua ad alzarsi (Hands), la statua del foro che “non tradisce il dolore per il pene smarrito” (At The Forum), l’aureola dei santi che sembra un piatto da torta  ( Old Paintings). E dimostra anche grande capacità di sintesi: secoli di storia romana riassunti nel giro di pochi versi. La pratica di derivazione etrusca del seppellimento simbolico del fulmine  ripropone indirettamente il tema della minaccia e della paura insieme a modalità antiche di esorcizzarle. Ma anche scrivere poesie, sembra dire Marianne Boruch, funziona.
Ad eccezione di The Hawk, che risale al 2004, le poesie tradotte sono tratte da Cadaver, Speak, edito da Copper Canyon Press nel 2014.

Nota biobibliografica
Nata e cresciuta a Chicago (1950), Marianne Boruch ha al suo attivo otto raccolte di poesia. Le più recenti sono The Book of Hours, 2013, per cui ha ricevuto l’ambitissimo Kingsley-Tufts Poetry Award, e Cadaver, Speak, uscito nel 2014. (La successiva, Eventually One Dreams the Real Thing , uscirà nel 2016). Ha pubblicato due raccolte di saggi sulla poesia, In the Blue Pharmacy e Poetry’s Old Air, e un’autobiografia, The Glimpse Traveler. Insegna sia alla Purdue University (Indiana), dove ha fondato e diretto l’MFA  Program di scrittura creativa, sia nel Program for Writers del Warren Wilson College (North Carolina). Presente sulle più autorevoli riviste letterarie e in importanti antologie è stata insignita di molteplici  riconoscimenti, tanto per la qualità letteraria che per quella didattica.                                                                                                
Da Poems: New & Selected, 2004

THE HAWK
He was halfway through the grackle
when I got home. From the kitchen I saw
blood, the black feathers scattered
on snow. How the bird bent
to each skein of flesh, his muscles
tacking to the strain and tear.
The fierceness of it, the nonchalance.
Silence took the yard, so usually
restless with every call or quarrel,
titmouse, chickadee, drab
and gorgeous finch, and the sparrow haunted
by her small complete surrender
to a fear of anything.  I didn't know
how to look at it.  How to stand
or take a breath in the hawk's bite
and pull, his pleasure
so efficient, so of course, of course,
the throat triumphant,
rising up.  Not 
the violence, poor grackle.  But the
sparrow, high above us, who
knew exactly.

IL FALCO
Era a metà della gracola
quando tornai a casa. Dalla cucina vidi
il sangue, le penne nere sparpagliate
sulla neve. Come l'uccello si piegava
su ogni matassa di carne, i muscoli
protesi allo sforzo e allo strappo.
La ferocia del tutto, la noncuranza.
Il silenzio catturò il cortile, di solito
scosso da liti o richiami,
cinciallegra, passero e fringuello cinerino
e quello sgargiante, e la cincia tormentata
dalla sua piccola resa totale
alla paura di ogni cosa. Non sapevo
come guardare. Come restare lì
o prendere fiato tra i morsi
e gli strappi del falco, il suo piacere
così efficiente, così naturale, naturale,
la gola in trionfo,
che si sollevava. Non
la violenza, povera gracola. Ma la
cincia, alta sopra di noi, che
capiva ogni cosa.