venerdì 27 febbraio 2015

Scrivere di sé: "AntoloGaia" di Poropora Marcasciano

"Scrivere di sé" è il titolo che Monteverdelegge ha scelto di dare al gruppo di lettura della stagione 2014-2015. Un tema che ricorre in molte delle novità in uscita: tra queste Antologaia di Porpora Marcasciano, di cui, grazie alla disponibilità delle Edizioni Alegre, proponiamo qui sotto uno stralcio.

Porpora Marcasciano
Molto di quello che succedeva in giro per il mondo restava sconosciuto ai più, la stragrande maggioranza delle persone non ne sapeva niente o non riusciva a decodificare i segni di quella rivoluzione. Nelle metropoli le micce si erano accese e ne avevamo sentore dalle scintille provenienti dal Vietnam, dalla Primavera di Praga, dalla Bolivia, da Chicago, da Woodstock. Io lo intuivo ma niente e nessuno me lo aveva comunicato con chiarezza, si percepiva nell’aria ma non c’era condivisione. La cosiddetta “controinformazione” correva su canali particolari, più difficili da scoprire, non esistevano i moderni Google su cui digitare “liberazione gay” o “trans” per poter trovare tutto quello che c’era da sapere. Anche il termine “omosessuale” non era usuale e, riprendendo il titolo di un opuscolo redatto dal FUORI!, era una «pratica innominabile». La prima volta che ne sentii parlare pubblicamente fu nel novembre 1975 in seguito all’omicidio di Pier Paolo Pasolini. La televisione faceva delle allusioni, più che vere e proprie dichiarazioni, sulla sua omosessualità accertata o presunta. Fu proprio in occasione dell’assemblea scolastica indetta per il suo omicidio che, sostenuto dai compagni del collettivo, feci il mio primo coming out.
Alle assemblee di solito partecipavano quasi tutti gli studenti, esclusi quei pochi che non erano interessati o i fascistelli che restavano una sparuta minoranza. Quel momento me lo ricordo bene, ero emozionatissimo perché parlare in pubblico per me era un dramma. Un compagno del collettivo, introducendo l’argomento all’ordine del giorno, disse che a parlare dell’omicidio di Pasolini sarebbe stata una persona che viveva direttamente l’esperienza dell’omosessualità. Non ricordo le parole esatte e neanche le argomentazioni che portavano avanti i relatori che mi precedettero, né ricordo quello che dissi io, tanto ero agitato ed emozionato. Ricordo solamente che uno dei fascisti partecipò incuriosito a quell’assemblea dicendo qualcosa come «…ora pure i froci devono parlare» e a quel punto fu invitato con maniere non molto gentili ad uscire.

Non esisteva ancora la pratica del coming out o almeno io non ne ero a conoscenza, comunque non si chiamava così e non era una pratica politica riconosciuta.

Nel mio istituto avevamo diritto a quattro ore al mese di assemblea che di solito noi facevamo diventare cinque o sei. Le ore in più venivano richieste o pretese per quelle che noi consideravamo urgenze o emergenze e l’omicidio di Pasolini fu considerato tale. Il mio intervento fu deciso all’interno del collettivo che di solito si riuniva nel pomeriggio in un orario in cui la scuola, su nostra richiesta, rimaneva aperta per approfondire lo studio, ma più che colmare lacune volevamo cambiare il mondo e quindi facevamo politica.

Da quando era cominciato il mio nuovo percorso non facevo più mistero della mia omosessualità, anzi, sostenuto da amici e compagni e forte di una nuova coscienza, ne andavo orgoglios*.

Si parlava pochissimo di omosessualità e parlare della propria era tabù. In giro si parlava molto di sessualità, o almeno ci si provava. Credo che solo nei circuiti femministi si affrontasse l’argomento e la questione un po’ più approfonditamente, magari partendo da sé, facendo autocoscienza. Della mia sessualità ne parlavo molto più facilmente con le compagne che con i compagni, con le donne c’era meno imbarazzo, c’era una sorta di compartecipazione, quasi un sentire comune, una comprensione più profonda dei risvolti problematici, una sensibilità maggiore. I compagni erano molto più curiosi, mi ponevano domande infinite che servivano più a rassicurare se stessi, a garantire la loro integrità che a mettersi in discussione. Una volta accertata e sancita la loro possibile integrità sessuale, riconosciuta la loro normalità di genere, ci si lasciava andare a pratiche degeneri. I letti in cui mi sono infilat* sono stati tanti, tanti i prati in fiore, i fienili, le cantine, le soffitte, le baracche, le rive dei fiumi, sotto il sole e sotto la luna, con la neve e con la pioggia, dappertutto ma in silenzio, nell’ombra. Non potevo dirlo, ma intrattenevo storie e affetti con tutti, continuando a chiedermi se la mia fosse un’eccezione, un’esperienza isolata o condivisa da altri. Tutto questo mi divertiva, mi eccitava, mi intrigava, mi faceva sentire esattamente come volevo: anticonformista, ribelle e dissacratorio.

Di solito i compagni avevano nei miei confronti un atteggiamento misto tra la pietà e la comprensione: «capisco quello che provi, mi dispiace ma io non ci posso fare niente», era la frase più ricorrente. Sull’onda del politically correct si avviavano gare di solidarietà e di comprensione e, da grandi pettegole quali sono, i maschietti si accusavano a vicenda di comportamenti scorretti, di sentimenti falsi e di sesso volgare. Tutti si lasciavano andare ai piaceri per poi accusarsi e sputtanarsi a vicenda. Comunque, visti i tempi, avevo avviato una riflessione, non si sa quanto profonda, a proposito di sessualità e omosessualità che fino a quel momento era stata impraticabile.

Le occupazioni dell’istituto, frequenti in quegli anni, erano per me giorni e soprattutto notti indimenticabili: assemblee, ciclostili, turni di guardia, panini, birre, sacchi a pelo e favoloso sesso a gogò.



Una cosa che posso affermare con certezza è che in tutti questi anni di cambiamenti, di rivoluzioni e sconvolgimenti sono tanti coloro che hanno avviato un’analisi profonda di sé e del mondo, molti si sono messi in discussione attraverso una critica radicale, ma tutto questo non ha riguardato assolutamente il proprio essere maschio. Questa è una delle più grandi sconfitte politiche e culturali di quella rivoluzione a cui in tanti aspiravano. L’autocoscienza, l’analisi, la riflessione profonda sul proprio sé ha riguardato quasi esclusivamente le donne, i gay o altri piccoli gruppi. I maschietti, tranne rarissimi casi, non sono stati minimamente sfiorati dall’idea di rivedere la propria posizione identitaria e mettersi in discussione.

La loro crisi, se di questo si può parlare, è stata un riflesso del femminismo, dei cambiamenti che le donne, gay, lesbiche, trans hanno messo in moto. Nella cultura alternativa, di sinistra o di movimento che dir si voglia, degli ultimi decenni i maschi sono stati dei grandissimi oratori, sono loro che hanno gestito tutte le discussioni, i dibattiti, parlando, anzi urlando di massimi sistemi e discutendo di tutti i problemi del mondo, ma mai dei propri. Hanno discusso di rivoluzioni da fare da qualche parte, a volte nelle piazze nostrane, a volte in paesi lontani, ma sempre e comunque fuori e lontano da sé.

Ho avuto tantissimi rapporti sessuali con maschi sedicenti etero, molti con i cosiddetti “compagni”, alternativi o rivoluzionari, ma non ho mai sentito uno di loro che ne parlasse tranquillamente o che lo rivendicasse non solo come relazione personale ma come atto politico rivoluzionario. E questa non è una mia frustrazione ma un loro fallimento. Di tutto questo non avevo coscienza negli anni del mio coming out, ero troppo giovane, ingenuo, i tempi forse non erano ancora maturi per discussioni tranquille e corrette sulla sessualità, l’omosessualità, il transessualismo e la bisessualità.

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