sabato 31 gennaio 2015

La poesia della domenica - Aleksandr Puškin, Un fiore secco, un fiore senza profumo

Puškin apre un volume a caso; vi trova un fiore appassito e dimenticato, usato come segnalibro. Il poeta, preso da una vertigine, subito interroga quell'umile reperto: chi l'ha colto? In quale tempo? È, forse, un pegno d'amore? E, se sì, chi sono i due amanti? E dove sono? Sono ancora fra noi oppure, trascorso il tempo fugace della felicità, vivono di nostalgie oppure sono appassiti, come il fiore, e riconsegnati alla nuda morte?
Il poeta riunisce in sedici versi i doni della semplicità e della profondità.
Semplicità. Le parole sono usuali, quotidiane. La traduzione non le ha falsate. Sono termini che ciascuno intende, ieri come oggi, a qualsiasi latitudine del corpo e dell'anima.
Profondità. La lirica oscilla fra i soli due poli del cuore conosciuti dall'uomo, la Morte e la sua breve eccezione, la Vita. Morto è il fiore, che fu colto in un momento irrecuperabile, e scomparso nella moltitudine del tempo; e morti son forse gli amanti che lo condivisero, oppure morto è il loro amore. Mors omnia vincit. Eppure, dice Puškin, c'è stato un attimo in cui la Vita ha trionfato: il fiore, infatti, testimonia di un incontro, di un fatale abbandono, o di una passeggiata solitaria nei boschi: di una vittoria sulla morte.
"E lui è vivo, ed è viva lei? E dov'è ora il loro angolino?", si chiede ancora Puškin. E qui sorge la contraddizione fatale che rende ancor viva tutta la lirica occidentale. La risposta alle domande del poeta, nascosta al lettore, ma in realtà intimamente conosciuta, è: sì, quei momenti e i loro attori sono appassiti, dileguati, così è sempre avvenuto, questa la tragedia dell'umana natura; eppure, quando operiamo tale constatazione amarissima, sappiamo che no, quegli attimi e quegli amanti non sono morti, ma vivono attraverso l'ispirazione di Puskin; sappiamo, ora, che quel fiore ritrovato in un libro qualsiasi resiste alla memoria da almeno due secoli: un poeta russo ha eternato la testimonianza di esistenze altrimenti perdute.

Un fiore secco, un fiore senza profumo
Dimenticato in un libro io vedo;
Ed ecco che già di uno strano sogno
Si è colmata l'anima mia:

Dove è fiorito? Quando? In quale primavera?
E a lungo è fiorito? E chi l'ha colto,
Una mano nota o forse estranea?
E chi l'ha posto in questo libro?

Forse in ricordo di un tenero incontro,
O di un fatale abbandono,
Oppure di una passeggiata solitaria
Nel silenzio dei campi, nell'ombra dei boschi?

E lui è vivo, ed è viva lei?
E ora dov'è il loro angolino?
O forse sono già appassiti,
Come questo fiore sconosciuto?

Da Poesie, traduzione di Eridano Bazzarelli.

venerdì 30 gennaio 2015

Appuntamenti con la poesia

Il 5 febbraio a Roma presso il Tempio di Adriano si terrà Ritratti di Poesia, una rassegna di grandi voci poetiche (per citare solo pochi nomi, le italiane Rosaria Lo Russo e Giovanna Frene, la statunitense Moira Egan e l'egiziano Youssef Rakha).  Il giorno precedente, mercoledì 4 febbraio, presso la libreria Enoarcano, Alessandro Canzian, Flaminia Cruciani, Claudio Damiani, Sonia Gentili, Giovanna Iorio, Sandro Pecchiari, Maria Pia Quintavalla, Gabriella Sica, Luigia Sorrentino, Isabella Vincentini, Zingonia Zingone leggeranno i loro testi nel corso di una serata, intitolata ASPETTANDO RITRATTI DI POESIA. L'incontro è organizzato da Samuele Editore, che Monteverdelegge ha ospitato in uno dei suoi "autoritratti di editore" all'interno dei laboratori di Officina Poesia curati con appassionata competenza da Sonia Gentili presso Plautilla. Con particolare piacere, quindi, abbiamo inserito l'appuntamento nel nostro calendario e anticipiamo i testi che Sonia Gentili leggerà durante l'incontro. 


Notturno

Gli alberi, le teste buie
al vento, l’occhio invisibile
ed attento
di due volpi

nel tormento
oscuro delle foglie, dei rami che torcendosi
abbracciano ora il tempo
sinistro del naufragio, tutto ritorna
al cielo cancellandosi, le linee
tradiscono le forme
abbandonandole e il vuoto
sale al niente, è pietra
circolare, cieca, è torre
senza finestre che ha
nelle budella
un trono

il buio riempie i tronchi
come un coro
di foglie insonni
di rami che torcendosi
abbracciandosi
resistono al frastuono
della vita impaurita
dalla notte

rumore notturno della vita: per il ribrezzo
del niente che la sfiora
si ritrae torcendosi, ancora
più cupamente
viva

anche stanotte il sonno
non basta per morire

Istante

La guancia che si volta, scalfita
dalla luce, e non sa di attendere
una pena

la figura piena, dissolta
al centro da uno scorrere
di luce

il sole era l’immensa
radura al centro
della ragazza in piedi sul sentiero
che conduce dentro a un nero
d’alberi e dietro
al ginocchio intanto
nasceva un lago
d’ombra

Fiat lux

Che la luce cada rompendosi
sul mondo
cada la luce rompendosi
nel fondo
ma brilli, e le ossa rotte
le nasconda

resti distesa e poi
potrà svanire
pensi a brillare e poi
potrà morire

brilla la luce caduta
in superficie, sale dall’orizzonte
nella spinta breve di queste
arcate di nubi
chiare

brilla il tuo corpo, luce, sei distesa
sul mondo
stai morendo
eppure il tuo mattino è un mondo
chiaro

vada la luce, consumi le pianure
e vada poi perdendosi, già morta,
dentro le vene aride di dio
dentro le vene aride che io
sento distendersi immortali nelle
notti
sento confondersi ai mortali nella
notte
le vene della mano che domani
frantumerà ancora sul mondo
le ossa della nostra
luce




giovedì 29 gennaio 2015

La non-morte del neoliberismo

L'11 febbraio 2015 nell'aula magna dell 'IIS Federico Caffè viene presentata la seconda edizione di In difesa del Welfare State di Federico Caffè, curata da Paolo Ramazzotti, edita da Rosenberg&Seller. 
Alla tavola rotonda, moderata dalla giornalista Roberta Carlini, partecipano Enrico Giovannini, docente a Tor Vergata e ex Ministro del Lavoro del Governo Letta; Paolo Leon, docente emerito a RomaTre; Tommaso Nannicini, docente alla Bocconi e consigliere economico di Renzi; Paolo Ramazzotti, docente Università Macerata. Proponiamo alcune righe dall'introduzione.

Paolo Ramazzotti
Poco dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2007 Elisabetta d’Inghilterra chiese, con un candore concesso solo a una regina, perché gli economisti non fossero stati in grado di prevedere la crisi. In effetti, benché, come si è detto, vi fossero economisti che – ispirandosi all’insegnamento keynesiano e minskiano – avevano segnalato la tendenza in atto, la gran parte della categoria, specie quella legata all’approccio neoliberista, non riteneva che si potesse verificare quanto poi è avvenuto. La domanda avrebbe suggerito un riesame del modo di indagare l’economia da parte di chi confidava nell’intrinseca stabilità del sistema.
Eppure, se si fa eccezione per la riflessione autocritica proposta da un autorevole esponente del pensiero neoliberista come R. Posner e le pragmatiche manovre di politica finanziaria e monetaria, volte a evitare il collasso del sistema bancario o la disgregazione dell’eurosistema, l’impianto generale delle politiche economiche e del modo di indagare
l’economia non sono cambiati. Viceversa, sembra prevalere l’opinione secondo cui i drammi sociali – disoccupazione, precarietà di reddito, sperequazione distributiva e povertà crescente – che i cittadini di molti paesi si trovano a subire per effetto di tali politiche siano necessari affinché l’economia riprenda a funzionare. Ci si è trovati, quindi, in presenza di quella che C. Crouch (2012) ha definito, nel titolo inglese del suo libro, «la strana non-morte del neoliberismo».
Occorre osservare, tuttavia, che malgrado una certa incomunicabilità al suo interno, la comunità degli economisti non è monolitica. Negli ultimi decenni sono fiorite sia riviste sia associazioni che si pongono in modo critico verso l’approccio dominante. Viene da chiedersi perché esse non riescano a creare opinione e a modificare il senso comune
del pensiero economico.
Va da sé che gli interessi costituiti, quelli in grado di finanziare la ricerca a carattere economico sia nelle università sia nei centri di ricerca privati, privilegiano quegli approcci teorici che sono a loro congeniali. Che favoriscano indagini documentate o studi realizzati in
modo affrettato, è evidente che la quantità di materiale prodotto crea opinione, specie in presenza di ridotti fondi alla ricerca indipendente da parte dell’operatore pubblico.

martedì 27 gennaio 2015

Quello che gli italiani (non) leggono

Proponiamo in versione integrale ai lettori di Monteverdelegge  il comunicato stampa con cui l'Associazione Italiana Editori (Aie) annuncia la sua più recente indagine  sulla lettura in Italia.  Si parla di "grande trasformazione" e di "radicale cambiamento". Ma quel "+ 0,1 % complessivo" che dovrebbe forse rallegrarci, testimonia in effetti come di cambiato ci sia poco. E se qualcosa è cambiato, è in peggio, visto che è calato di parecchio il numero dei lettori "deboli", quelli che dichiarano di avere letto almeno (o soltanto) un libro l'anno. Insomma, ben poco di nuovo sotto il sole (mtc). 

Resta stabile la spesa per leggere degli italiani. E’ un primo dato di quanto emerge dall’indagine dell’Ufficio studi dell’Associazione Italiana Editori (AIE) sul mercato del libro 2014, che sarà presentato il 27 gennaio, nella giornata inaugurale del XXXII Seminario di Perfezionamento della Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri, in programma fino al 30 gennaio a Venezia.
Il 2014 si conferma infatti un anno di grande trasformazione per il settore del libro: diversi indicatori risultano negativi ma, sommati, dimostrano complessivamente come l’andamento della spesa degli italiani in libri, ebook, e-reader e collaterali – in altre parole in ciò che serve a leggere – registri un +0,1% complessivo.
Quanto hanno speso dunque gli italiani nel 2014 per leggere? Quasi 1,5miliardi di euro (per la precisione 1,452miliardi): 51,7milioni di euro è la stima del mercato 2014 degli ebook venduti, 1,2miliardi il mercato dei libri di carta secondo Nielsen nei canali trade (librerie, librerie online, grande distribuzione), 111milioni di euro quanto pagato dagli italiani per gli e-reader (stima provvisoria su dati Assinform, non si sono considerati i tablet), 54,3milioni di euro la spesa per i collaterali. La somma dei fattori si traduce in un dato sorprendente e soprattutto in una sfida implicita: “La sfida - sottolinea Giovanni Peresson, responsabile Ufficio studi AIE – di fare in modo nuovo il mestiere del libraio o dell’editore, innovando tutti quegli elementi che ci obbligano a guardare in modo diverso i comportamenti del lettore e cliente. Alcuni dati, presi singolarmente, possono risultare negativi ma aggregati all’interno del “sistema lettura” ci possono raccontare una storia diversa. La storia di una trasformazione”.
Diminuisce la lettura in Italia ma… – Secondo i dati Istat si passa dal 43% di italiani con più di 6 anni che leggono almeno 1 libro all’anno del 2013 al 41,4% del 2014. I forti lettori restano sostanzialmente stabili (-0,02%), crollano i lettori occasionali. Se si vuole fotografare la lettura nel lungo periodo, tra 2010 e 2014 si sono persi qualcosa come 2,6milioni di lettori (il 10%).
Parallelamente nel 2014 cresce, secondo Istat, del 32,2% la lettura di ebook: quasi 7milioni di italiani (il 13,1% della popolazione) hanno letto un ebook nell’anno passato.
Diminuisce la produzione di libri di carta, cresce quella degli ebook – Gli editori hanno prodotto nel 2014 63.417 titoli, il 5,1% in meno rispetto al 2012 e con un prezzo di copertina alla produzione in media di 18,14 euro (il -7,2% rispetto al 2012). Parallelamente cresce la produzione di e-book: nel 2014, si stimano 53.739 titoli in digitale (esclusi i gratuiti) nei vari formati (epub, pdf, mobipoket), l’88,4% in più rispetto al 2012 e con un prezzo di copertina alla produzione in media di 6,96 euro (-22,8% sul 2012).
Cala il mercato del libro di carta nel 2014 rispetto all’anno precedente, ma progressivamente meno. Cresce del 40% il mercato e-book – Il 2014 si chiude per i libri di carta con il segno meno nei canali trade, secondo i dati Nielsen: -3,8% il giro d’affari, -6,5% le copie vendute, in ripresa rispetto ai primi mesi dell’anno e anche rispetto agli anni precedenti. Il libro di carta si compra prima di tutto nelle librerie di catena (pesano per il 40,6%, anche se in leggero calo rispetto al 2013), un pochino meno nelle librerie indipendenti (al 30,7%), sempre più nelle librerie online, che oggi pesano il 13,8% (+ 8% rispetto al 2013). Diminuisce invece in modo significativo la grande distribuzione. Parallelamente il mercato degli ebook si stima al 4,4% del mercato del libro, con un fatturato di 51,7milioni di euro (+39,4% sul 2013).
“Questo quadro – conclude Peresson – ci dice che siamo entrati in una nuova fase: di lettura, di acquisto, anche di produzione. I paradigmi stanno cambiando. Non è in crisi il libro. Siamo di fronte a un radicale cambiamento nel mix, in cui innovazione è la parola chiave per tenere conto di una società più liquida e fluida”.

domenica 25 gennaio 2015

La poesia della domenica - Friedrich Nietzsche, Il pino e la folgore

Una breve poesia del filosofo tedesco, piana e semplice, ma indicativa del suo pathos per la distanza, dell'anelito per un nuovo uomo, selezionato, voluto, elevato, aristocratico.
Come scrisse lui stesso in Al di là del bene e del male:
"Ogni elevazione del tipo “uomo” è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica – e così continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù. Senza il pathos della distanza, così come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante esercizio nell'obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, la elaborazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste, insomma l’innalzamento appunto del tipo 'uomo', l’assiduo 'autosuperamento dell’uomo' ..."
Un tale oltreuomo è, in un'epoca di gnomi, il filosofo, vale a dire Nietzsche stesso, Zarathustra, colui che annuncia la fine dei tempi metafisici -  a prezzo della propria vita.

Troppo io crebbi al di sopra
   Degli uomini e degli animali
E quando parlo, nessuno parla con me.

Troppo solitario e troppo alto
   Son cresciuto:
Ora attendo - che cosa aspetto mai!

A me troppo vicina è la dimora
   Delle nuvole,
La prima folgore attendo.

Da Poesie, 2004 (traduzione di Giuseppe D'Ambrosio Angelillo)

sabato 24 gennaio 2015

Roma Caput Immundi: il Ponte della Scienza Rita Levi Montalcini


G. Luca Chiovelli

Se potessi esprimere un desiderio - solo per togliermi uno sfizio e ridere alle spalle dei romani - bene, il desiderio sarebbe questo: "Oh Signore Dio, Causa Efficiente e Finale dell'Universo, governatore dell'Assoluto e Facitore del Tempo e della Materia, per favore, per piacere, se non disturbo, ascolta il tuo servo ed esaudisci questa sua breve preghiera: fai sparire tutti i monumenti costruiti a Roma prima del 1945, chiese ponti colonne palazzi, tutti, falli sparire tutti, ti prego, fallo per me; e poi, se vuoi, nascondiamoci dietro le quinte, assieme, per vedere le reazioni di quei quattro minchioni e farci qualche sghignazzata".
Cosa sarebbe di Roma in quel caso? Diverrebbe appetibile turisticamente come Milano 2, certo, ma con questa differenza: che Milano 2 al confronto di questa NeoRoma rileverebbe quale città ideale rinascimentale (e, infatti - non sto scherzando - Berlusconi l'ha pensata proprio come città ideale, influenzato dalla lettura giovanile dell'Utopia di Tommaso Moro. Non ci credete? Leggete qui, Silvio era un utopista di grana fina).
Insomma, privata del suo passato urbanistico e architettonico, che i nostri attuali amministratori, peraltro, dilapidano costantemente con tranquilla inettitudine (chiamiamola così), la NeoRoma si ritroverebbe esclusivamente Corviali, Torbellamonache, Nuovi Salari, Tiburtini III, le varie follie abitative deposte accanto alla Casilina, nonché, in buon ordine lo stupidissimo Ponte della Musica, la goffa scatola da scarpe che contiene l'Ara Pacis, ulteriori ammassi di materiali a casaccio firmati da Calatrava e Fuksas più archeomostri a piacere di cui non mi ricordo e che non voglio ricordare. 
Il Ponte della Scienza è uno di questi orrori.
Preparato negli anni (tanti anni) da diatribe, opposizioni, progetti, riunioni, ciacole, unzioni di ruote amministrative, annunci e preventivi buoni per almeno tre piramidi di Cheope, il pedonale Ponte della Scienza, dal 29 maggio scorso è, purtroppo, realtà.
A cosa serva non lo so. Sicuramente ad affliggere la memoria dell'incolpevole Montalcini (o di Vittorio Gassman, cui hanno dedicato il Lungotevere adiacente). Direbbe Groucho Marx: a tale vista i miei antenati si rivolteranno nella tomba. E mi toccherà rimboccargli la lapide! 
Serve forse a collegare la zona Marconi alla zona Ostiense? Per ora vedo solo un collegamento fra due lungotevere luridissimi, abbandonati a se stessi, folti di erbacce, accampamenti abusivi, rifiuti vecchi di decenni, officine sgangherate, supermercati, chiese postmoderne (ah, la morte del sacro ...) ed esornati dal caro, immancabile e inamovibile monumento della periferia e semiperiferia romana: lo sfasciacarrozze ("Che ciai er fanale de dietro destro daa Yaris?").


Altri babbei: è il primo passo della riqualificazione dell'intera area! Come no ... che sia un primo passo, è indubbio, vista la fatiscenza dell'area anzidetta, ma pongo una domanda: come si può riqualificare un luogo qualsivoglia con tale accrocco? Meglio non fare niente, allora. Come la lettura: se devi leggere Fabio Volo è meglio che guardi la televisione.
Il ponte è inutile, possiamo dirlo. Inutile. E brutto, Cristo santo. Brutto. Mi si intenda, però. Brutto in modo cool, postmoderno, avanzato. Di quella bruttezza che scaturisce dall'ignoranza di qualsiasi euritmia, garbo, e simmetria (come le abbiamo apprezzate nei millenni) e da quel minimalismo micragnoso e inumano spacciato per progressismo concettuale. Ma non vedete l'angustia mentale, e la piccineria della concezione, che sovraintendono maestre a tutto? Osservate bene: i lampioncini stitici, le solite panchine nichiliste a parallelepido, la balaustra col filo di ferro, il cestino di rifiuti buono neanche per il McDonald's. A sette anni col Meccano costruivo modellini più aggraziati ... e poi la struttura ... la forma ... Leggo da Wikipedia: "Il Ponte della Scienza nasce dall'unione di due concetti strutturali: quello della trave a sbalzo da un triangolo, la cosiddetta stampella, e quello della travata centrale appoggiata con post-tensione esterna". Eccola più sotto. Complimenti a tutti.


Brutto. Talmente brutto che le scritte vandaliche, subito comparse, donano paradossalmente al ciofecone un'arietta più accettabile.
Debbo confessare, però, che il ponte ha cambiato d'un sol colpo le urgenze urbanistiche per la riqualificazione dell'intera area. Ora la prima è, indubbiamente, il suo abbattimento.


Foto tratte dai siti Romafaschifo.com e Skyscrapercity

venerdì 23 gennaio 2015

Come nacque la "scuola di razza"

Alla vigilia della Giornata della memoria pubblichiamo un testo tratto da Sui banchi del regime, una pubblicazione che il Cesp - Centro Studi per la Scuola Pubblica ha realizzato per far conoscere agli studenti di oggi una delle pagine più vergognose nella storia della scuola italiana.

Gianluca Gabrielli
Durante l'estate del 1938 il ministro Bottai inviò una circolare ai presidi e direttori didattici per avviare le prime procedure di censimento degli ebrei presenti tra i docenti, gli studenti e gli autori di libri di testo adottati dalle classi. Una procedura burocratica che, con tempi diversi, produsse tra settembre e novembre l'espulsione di 279 tra presidi e professori e di un numero ancora ignoto di maestre elementari, la cacciata di migliaia di studenti e la sostituzione di oltre un centinaio di libri scolastici già adottati. Fu un'azione che, confrontata ai ritmi solitamente lenti e farraginosi della burocrazia ministeriale, si può definire fulminea. Nel giro di tre mesi la campagna razzista del fascismo produsse proprio nel mondo della scuola i suoi effetti più drastici ed immediati; la scuola italiana si trovò sconvolta nel profondo e – pur per breve tempo – strappò alla scuola nazista, ove ancora vigeva la politica del numero chiuso rispetto agli studenti ebrei, il triste primato della radicalità razzista.
Bottai credeva nell'utilità della campagna antisemita ed il suo ministero la condusse con uno zelo particolare, riconoscendo la centralità della scuola e delle istituzioni culturali al fine di diffondere in profondità e capillarmente la visione del mondo razzista. Le caratteristiche del calendario scolastico imposero al ministro tempi strettissimi per colpire con la massima forza gli ebrei riducendo al minimo il rischio di una fraternizzazione solidale di compagni di classe e colleghi; bisognava agire prima dell'inizio delle lezioni e così fu fatto, in modo che il nuovo anno scolastico cominciasse con l'istituzione già pienamente traghettata nella nuova condizione prodotta dalla persecuzione, senza ebrei dietro ai banchi e dietro alle cattedre, senza nomi ebraici sui frontespizi dei libri di testo: il XVI anno dell'era fascista era anche il I anno scolastico dell'era razzista. D'altronde il regime aveva già mostrato di saper condurre le campagne ideologiche in tempi efficaci per una loro valorizzazione scolastica: due anni prima la guerra di conquista dell'Etiopia era stata anche il capolavoro della propaganda scolastica del regime: cominciata in corrispondenza dell'apertura dell'anno scolastico, la vittoria e l'impero erano stati celebrati il 9 maggio, un mese prima della chiusura estiva, giusto il tempo di festeggiare la vittoria in mille iniziative in piazza e nel cortile degli istituti.
Agire in questo modo, cacciando gli allievi e i docenti ebrei, non significava solo perseguitare una categoria di cittadini, ma aveva anche la valenza di mettere a segno un'azione pedagogica di formidabile efficacia per inculcare una mentalità razzista negli allievi. Più che lo studio, i fatti: cosa c'è di più potente nel formare razzisticamente le menti degli alunni italiani che cacciare i loro compagni di banco ebrei? Come affermare in modo più spietatamente efficace l'inferiorità degli alunni ebrei se non privandoli da un giorno all'altro del diritto di continuare a frequentare le scuole di tutti?

mercoledì 21 gennaio 2015

Storia di Jean Seberg, la diva suicidata dal potere

Dal blog Perdentipuntocom scegliamo un articolo che tratta di Jean Seberg (1938-1979), la diva americana di Fino all'ultimo respiro di Godard, che ebbe carriera e vita distrutte dal Federal Bureau a causa del suo impegno politico a fianco delle Pantere Nere.
A mo' di introduzione riportiamo l'estratto da un altro articolo, a firma John Kleeves, dal sito Bye bye Uncle Sam:
"La Seberg ... debuttò nel 1957 con Saint Joan (Santa Giovanna) di Otto Preminger e quindi lavorò regolarmente. Fra gli altri film ricordiamo Bonjour Tristesse (Idem, 1958) sempre di Preminger; The Mouse That Roared (Il ruggito del topo, 1958) di J. Arnold, con P. Sellers; A bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1960) di J.L. Godard, con J.P. Belmondo; A Fine Madness (Una splendida canaglia, 1967) di I. Kershner, con S. Connery; Pendulum (Idem, 1969) di G. Schaefer, con G.Peppard. Per la fine dei Sessanta era una diva conclamata, al livello di Jane Fonda, e arrivò all'apice nel 1970, quando uscirono ben quattro film che la vedevano protagonista: il grande successo Airport (Idem) di G. Seaton, con B. Lancaster, D. Martin, V. Heflin, J. Bisset e G. Kennedy; Paint Your Wagon (La ballata della città senza nome) di J. Logan, con C. Eastwood e L. Marvin; Macho Callaghan (Idem) di B. Kowalski, con L.J. Cobb; e la produzione italiana Ondata di calore di Nelo Risi.
Erano però gli anni del movimento per i diritti civili dei neri e delle Pantere Nere. L'FBI era stato incaricato dal Congresso di eliminare tali movimenti, usando i mezzi repressivi consueti per il regime statunitense: false accuse giudiziarie; persecuzioni dell'IRS (Internal Revenue Service, il fisco americano) e della DEA (Drug Enforcement Agency, l'antinarcotici); licenziamenti da parte dei datori di lavoro; diffamazioni; omicidi anonimi per strada compiuti da agenti travestiti ... Il programma preparato dall'FBI in merito era stato chiamato COINTELPRO ... La Seberg in privato era sempre stata simpatizzante del movimento dei neri e raggiunta la grande notorietà nel 1970 pensò di usarla per pubblicizzare la causa. L'FBI la inserì nelle liste di COINTELPRO, e poco dopo venne da sé una occasione di diffamazione: la Seberg era incinta e al momento adatto l'FBI concertò una campagna di stampa insinuando che il padre era un leader delle Pantere Nere. Appresa la notizia la Seberg entrò nelle doglie e diede alla luce un bambino prematuro che morì tre giorni dopo, l'8 settembre 1970. La donna, sgomenta per tanta malvagità, non riuscì mai a superare il trauma; tentò subito il suicidio, e di lì in poi avrebbe ripetuto il rito ad ogni anniversario della morte del piccolo.
Intanto tutti in America l'avevano abbandonata; nessun produttore poteva offrirle parti, nessuno dei colleghi di ieri - Eastwood, Lancaster, Marvin, Peppard, Connery, Sellers e così via - si azzardò a offrirle sostegno, anche solo morale ... L'8 settembre 1979, a Parigi, il suo decimo tentativo riusciva e moriva suicida. Da allora l'USIA ostacolò la riprogrammazione dei suoi film ovunque poté, certo in Italia, perché la gente non doveva focalizzare sulla donna e la sua vicenda. Ecco perché pochi ora ricordano Jean Seberg".
Ed ecco l'articolo di Alessio Altichiari
Qui la fonte originale

Per me, ancor più di Brigitte Bardot, Jean Seberg, americana a Parigi, ha incarnato l'icona femminile del cinema francese anni sessanta, con il suo casco d'oro, emblema della femminilità parigina. Certamente il suo è stato un suicidio, ma come dichiara anche il figlio, credo proprio che l'FBI abbia fatto il possibile per renderlo attuabile. Lei, nata a Marshalltown, Iowa, 3 matrimoni con  François Moreuil (1958-1960), Romain Gary (1962-1970), Dennis Charles Berry (1972-1979), ma anche molte altre relazioni (sapevate che BB ha fatto sesso con Jimy Hendrix, incontrato all'aeroporto a Parigi nel '68?).
“Vuoi fare l’attrice?”, le chiesero al suo primo provino, a soli 17 anni. “Very badly”, rispose lei. Di tutte le principesse tristi esistite e tragicamente finite, Jean Seberg è una di quelle che viene ricordata meno. Nata a Marshaltown, in Iowa, Jean fu una delle ‘vittime’ della maledizione legata al ruolo di Giovanna d’Arco. Otto Preminger la volle come protagonista di quello che oggi verrebbe considerato un blockbuster; la ricerca per il ruolo di Santa Giovanna fu la più pubblicizzata al mondo dai tempi di Rossella O’Hara. Jean finì su 'Life Magazine', ma non ebbe la copertina. Questa sembra essere la cifra che ha caratterizzato tutta la sua vita: nota, ma mai famosa, attrice, ma mai diva. Era l’attrice carina che piaceva, quella che “sì, l’ho vista da qualche parte”, ma di cui mai nessuno si ricordò davvero. La sua vita fu breve, ma intensa – e non è la solita frase banale. I suoi 40 anni furono davvero molto vissuti, con quattro matrimoni, attivismo politico, malattie depressive, la perdita di una figlia appena nata e tante, infinite stroncature da parte della critica.

“I soldi non possono comprare la felicità. Ma la felicità non è tutto”. Forse l’unico modo per capire le scelte personali di Jean Seberg, specie il suo matrimonio con Romain Gary, è ricordare queste sue parole.
Nel 1959 Jean-Luc Godard la volle come protagonista per il suo Fino all’ultimo respiro, magnifico esercizio di stile dall’esile trama, che giocava a rompere gli schemi. Jean era perfetta proprio perché, da attrice insesperta qual era, guardava dritta in macchina, fornendo infinite inquadrature enigmatiche all’autore che puntava a demolire gli schemi del linguaggio cinematografico e a dichiarare l’autorialità assoluta del realizateur. Da quel momento Jean divenne la musa incontrastata della Nouvelle Vague e un’icona di stile. Il suo taglio garçon era il più imitato in tutta la Francia, il look “preppy” à la Seberg fece epoca tra le donne di Parigi. Eppure, quello della giovane americana Patricia Franchini, sebbene fu il ruolo che la rese una diva angelicata, fu anche la sua trappola. Ancora oggi Jean viene identitifata con ‘la protagonista del film di Godard’, quella che si passa il dito sulle labbra in un lungo primo piano alla fine del film.

martedì 20 gennaio 2015

Anticipazioni: Il mio corpo mi appartiene

Amina Sboui

Febbraio 2013.
È su Internet che è cominciata la mia storia «pubblica». Come tutte le ragazze della mia età, passavo ore e ore connessa, a navigare da un sito all’altro, in contatto tramite Facebook con i miei amici in Tunisia, ma anche con altri sparsi un po’ dappertutto nel mondo.
Un giorno, senza cercare nulla di preciso, ma digitando di continuo parole come «donne» e «condizione delle donne», sono capitata su un sito d’informazione che parlava di una manifestazione in India. Le foto erano incredibili. Provocatorie direi. Un gruppo di donne completamente nude reggevano uno striscione con la scritta: «Indian army rape us», «L’esercito indiano ci violenta». Denunciavano le aggressioni sessuali compiute da alcuni militari dell’esercito indiano nel Kashmir e in altre province, in cui erano impegnati in missioni repressive. Sotto le foto, poche righe di testo spiegavano che lo stupro era considerato praticamente normale lì. Ero soprattutto stupita di scoprire che quelle donne avevano avuto il coraggio di adottare una soluzione tanto coraggiosa: mostrare il proprio corpo nudo in risposta all’oppressione maschile. Era la prima volta che vedevo corpi
femminili esposti in quel modo davanti all’obiettivo di una macchina fotografica e nell’ambito di una contestazione politica.
Incuriosita ho cercato di saperne di più e ho digitato su Google: «manifestazione di donne a seno nudo».

domenica 18 gennaio 2015

Le note di Leo/Il misterioso Monsieur de Saint Colombe

Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica al lunedì. 
Leonardo Castellucci*

Figura misteriosa(di lui si conoscono pochissime notizie biografiche) Monsieur de Saint Colombe fu, probabilmente, un grande maestro appartato che scelse di vivere la musica come un privatissimo privilegio, in una sorta di ritiro interiore che lo fece assomigliare ad un monaco laico che rifuggiva la ribalta della corte del Re Sole, preferendo una vita umile, sostenuto dalla presenza delle due figlie, anch'esse, come lui, gambiste. Eppure questa sua scelta un po' misantropa non gli impedì di lasciare un segno determinante in tutti i musicisti più giovani che brulicavano attorno alla corte del potente re di francia. Fra questi Marin Marais, soprattutto, fu una sorta di continuatore delle sue concezioni musicali, ma anche Antoine Forquray e Francois Couperin, solo per citare i più noti.
Da un punto di vista musicale Saint Colombe è interessato a cercare(o 'ricercare') l'essenza della musica, un lunguaggio che rifugge abbellimenti e vistuosismi, preoccupato soltanto di avvicinarsi alla verità di un'ispirazione che nasce, sorgiva, dallo spirito. 

Lavori per 2 viole da Gamba.

Las Voix Humaines

Viola da Gamba.Susie Nappe
Viola da Gamba.Margaret Little




*Leonardo Castellucci, fine conoscitore di musica, giornalista, scrittore, oggi direttore editoriale di Cinquesensi Editore.

sabato 17 gennaio 2015

La poesia della domenica - Oscar Wilde, Libero dall'ingiustizia del mondo, e dal suo dolore

Il primo verso è uno dei più belli della letteratura inglese: Rid of the world’s injustice, and its pain (Libero dall’ingiustizia del mondo, e dal suo dolore).
Oscar Wilde è in visita al Cimitero Protestante di Roma, luglio 1877. Si sofferma davanti alla tomba di John Keats, e, di getto, compone questi versi in onore del poeta. Nelle sue parole: “Immobile accanto alla misera tomba di quel ragazzo divino, pensavo a lui come a un sacerdote del bello prematuramente ucciso; e mi tornava alla memoria l'immagine del San Sebastiano di Guido Reni come lo vidi a Genova, bel ragazzo bruno, i capelli forti, ricci, le labbra rosse, legato a un tronco dai crudeli nemici, trafitto dalle frecce, e tuttavia con lo sguardo, uno sguardo sereno, divino, levato a contemplare l'eterna bellezza dei cieli che si spalancavano”.
Wilde ci mostra come la morte, per Keats, sia davvero la prima notte di quiete -  e la vita un fardello insostenibile (fisico e di amarissime delusioni sentimentali e artistiche) da cui liberarsi per ascendere alla purezza celeste.
Non estraneo a tale considerazione fu la leggenda, ingrossata da Percy Shelley, secondo la quale John Keats morì per il dolore inflittogli dalle durissime stroncature del poema Endymion.
Anni più tardi Wilde rielaborerà tali versi appesantendoli con riferimenti classici. Questa versione (compresa in un articolo dell’Irish Monthly), semplice come un epigramma greco e sinceramente commossa, è, però, da preferirsi, assolutamente.

Libero dall'ingiustizia del mondo, e dal suo dolore,
Riposa infine sotto l'azzurro velo di Dio;
Strappato alla vita mentre vita e amore eran giovani
Qui giace il più giovane dei martiri,
Bello come Sebastiano e come lui crudelmente ucciso.
Non l'ombra di un cipresso sul sepolcro, non un cespuglio,
Ma violette umide di rugiada, margherite dai petali rossi,
E sonnolenti papaveri colgono la pioggia della sera.

Tu, il più fiero dei cuori, spezzato dalla miseria!
Il più triste poeta che mai il mondo abbia visto!
Oh, dolcissimo cantore della terra d’Inghilterra!
Il tuo nome è scritto nell'acqua sulla sabbia,
Ma il nostro pianto terrà vivo il ricordo di te,
Verde e fiorito come pianta di basilico (1).

(1) Un chiaro riferimento alla leggenda di Lisabetta da Messina, che irrorava con le sue lacrime un vaso di basilico in cui era riposava la testa dell'amato, ucciso dai suoi fratelli. La leggenda ispirò Boccaccio e proprio John Keats.

giovedì 15 gennaio 2015

Uomini che odiano i cani


No, a Wolfgang Goethe i cani non piacevano proprio.
Nella diciassettesima elegia romana egli afferma di tollerare solo l’abbaiare che annuncia la venuta dell’amata; altri latrati non possono che ferire crudamente i timpani del Vate:

Noia mi dan parecchi rumori; ma sopra ogni altro
Odio il latrar dei cani: lacerami gli orecchi.
Solo un cane sovente io odo con gioia latrare,
E questo è il cane che s'allevò il vicino.
Esso a la mia fanciulla un giorno abbaiava, quand'ella
Venìa furtiva, e quasi n'era il mister tradito.
Ora, appena l'ascolto, mi dico pur sempre: ella viene?
O ripenso quel tempo, che l'Attesa venìa.

Nel settantreesimo epigramma veneziano il tono si fa più conciso e definitivo:

Davvero non mi meraviglia che gli uomini amino i cani,
Un briccone miserabile è infatti, come l'uomo, il cane.

(Wundern kann es mich nicht, daß Menschen die Hunde so lieben;
Denn ein erbärmlicher Schuft ist, wie der Mensch, so der Hund)

Nel Faust, invece, il cane (un can barbone incontrato per caso) diviene il cavallo di Troia di Mefistofele:

Non guaire, barbone! Alle sante armonie
che ora mi prendono l’anima
non s’accorda il tuo ringhio di bestia.
Siamo avvezzi a sentire che gli uomini deridono
quello che non intendono
e di fronte a bellezza e bontà
infastiditi,spesso brontolano. Ringhiare
a quelle vuole, come loro, il cane?
….
Se devo spartire la stanza con te,
smetti di mugolare,
caro cane, smetti di latrare.
Compagnia tanto fastidiosa
Non la riesco a sopportare.
Uno di noi due
Se ne deve andare.
Mi spiace mancare ai doveri dell’ospite.
La porta è aperta,il passo è libero….
Ma che mi tocca di vedere?
Può capitare una simile cosa
In natura? E’ illusione? E’ realtà?
Come si fa grande e grosso!
S’alza di prepotenza,
non ha più nulla che paia di un cane…
Che spettro mi sono portato qua dentro!
Sembra già un ippopotamo. Ha occhi
di fuoco, ha zanne spaventose.

E un cane, piuttosto prevedibilmente, divenne uno dei motivi delle dimissioni dal teatro di Weimar, dopo venticinque anni di gestione:

"A quel tempo un celebre commediante di nome Karsten si era esibito in tutta la Germania in una commedia intitolata Il cane di Aubry. Il protagonista della pièce era un barbone ammaestrato che era diventato assai famoso anche personalmente. Quando i proprietari del teatro di Weimar decisero di ospitare la commedia, Goethe andò su tutte le furie. Diede  le dimissioni per l’affronto.
Per spiegare la propria posizione scrisse un’irata poesia ad un amico, il drammaturgo e storico Johann Schiller :

Il palcoscenico non è un canile
O un luogo per un botolo.
Il barbone fa il suo ingresso,
Il poeta la sua uscita:
Un artista non s’inchina a un cane” (1)

Chissà quale shock infantile presiedette a tale idiosincrasia, oggi incomprensibile.
Carlo Emilio Gadda era altro famigerato cinofobo (in realtà odiava tutti gli animali, portatori di sozzura e disordine, con l’eccezione del cavallo – del cavallo, però, disciplinato nelle parate militari). In Una tigre nel parco egli definisce le radici psicologiche del suo atteggiamento: si rivede bambino (sì, anche Gadda fu bimbo), a giocare sui prati, imitando, appunto, una tigre:

“Volevo ad ogni costo andare a quattro zampe, nel folto più dei cespi e dell’erbe, onde procurarmi la gioiosa certezza (ogni qualvolta lo ritenessi necessario ed urgente) della mia immedesimazione in una «tigre reale».
Il no dell’Io cosmico si manifestò tutt’a un tratto, l’ultima volta che feci la tigre a quattro zampe, sotto la specie d’una strana marmellata (oh! non era di susine!) che prese a fertilizzare tra le mie dita quella jungla improvvisamente fetida: e nel suo luogo più folto e nel momento mio più tigrino. Ne piansi a dirotto benché tigre: fino alla completa abluzione delle zampe anteriori, cui dalla fedel nutrice venni amorosamente sottoposto, alla più vicina fontanella: e il mio ideale di riuscire una tigre reale vanì, ahi!, per sempre”.

L’infante manina gaddiana affonda, perciò, nella merda -  evento che innescherà, a suo dire, la mania totalizzante per l’ordine e il personale disgusto per cani e cagnette, seminatori di cioccolatini e polpette (e disgusto per i polli, i pesci, i gatti; per la vita in generale):

“Il sole e le luci declinavano verso la loro dolcezza, allorché il figlio discese da Simposio, o forse dalle Leggi, e, senza preveder, aprì la porta di sala. Vi vide la mamma, con gli occhi arrossati dalle lacrime, tener crocchio: all'impiedi: e intorno, come una congiura che tenga finalmente la sua vittima, Peppa, Beppina, Poronga, polli, peone, la vecchia emiplegica del venerdì, la moglie nana e ingobbita dell'affossamorti, nera come una blatta, e il gatto, e la gatta tirati dal fiuto del pesce: ma fissavano il cagnolino del Poronga, lercio, che ora tremava e dava segni, il vile, d'aver paura dei due gatti, dopo aver annusato a lungo e libidinoso le scarpe di tutti e anche pisciato sotto la tavola. Ma il filo della piscia aveva poi progredito per suo conto verso il camino. E sul piatto il pesce morto, fetente. Era enorme, giallo, con gli occhi molli e cianotici dopo l'impudicizia e la nudità; con la bocca rotondo-aperta pareva gli avessero dato a suggere, per finirlo, il tubo del gas. E nel cestello i funghi dall'odor di piedi; per aria mosche e anzi alcuni mosconi, due calabroni, una o forse due vespe, un farfallone impazzito contro la specchiera: e, computò subito, stringendo i denti, un adeguato contigente di pulci. La rabbia, una rabbia infernale, non alterò tuttavia la sua faccia. Aveva una speciale capacità d'odio senza alterazioni fisiognomiche. Era, forse, un timido. Ma più frequentemente veniva ritenuto un imbecille. Si sentì mortificato, stanco. L'antica ossessione della folla: l'orrore de' compagni di scuola, dei loro piedi, della loro refezione di croconsuelo; il fetore della «ricreazione», il diavolìo sciocco; le lunghe processioni verso gli orinatoi intasati, in ordine, due a due; la imperativa maestra che diceva basta a chi la faceva troppo lunga: alcuni rimandavano dunque il saldo a un tempo migliore. Il disgusto che lo aveva tenuto fanciullo, per tutti gli anni di scuola, il disprezzo che nei mesi dopo guerra aveva rivolto alle voci dei cosiddetti uomini: per le vie di Pastrufazio s'era veduto cacciare, come fosse una belva, dalla loro carità inferocita, di uomini: di consorzio, di mille. Egli era uno …
La turpe invasione della folla… Gli zoccoli, i piedi: nella casa che avrebbe dovuto esser sua… I calcagni color fianta, i diti, divisibili per 10, con le unghie… e la piscia del cane vile, pulcioso, con occhio destro pieno di marmellata, dentro cui sguazzavano cicìk e ciciàk le piante quadrupedanti di quegli zoccoli. Un rutto enorme, inutilità gli parvero gli anni, dopo le scempiaggini di cui s' erano infarciti i suoi maggiori…”.

Così l’intrattabile ingegnere ne La cognizione del dolore.
Che gli animalisti si acquietino, tuttavia.
Goethe e Gadda non li legge più nessuno.


(1) Brano tratto da Stanley Core, Cani e padroni: come trovare il cane ideale per la propria personalità, 1999