domenica 30 novembre 2014

La poesia della domenica - Bertolt Brecht, Fra tutti gli oggetti

Incredibile come una poesia (una breve lirica su cose antiche o vecchi utensili) possa divenire, forzando il concetto brechtiano, una dichiarazione politica di primissima portata.
Contro l'odierno usa e getta che danna congenitamente gli oggetti alla mediocrità, può opporsi l’oggetto di Brecht, semplice, quotidiano, inavvertito: una brocca, una pietra, una forchetta; e tali oggetti "migliorano forma, si fanno/preziosi perché tante volte apprezzati”; attraverso essi si viene in contatto un’umanità tradizionale, semplice, solidale, capace di tramandare una cosa e di caricarla, magicamente, di perizia, amore e devozione. Rame, legno, pietra, marmo, erba, la materia millenaria degli artigiani e delle famiglie: la radice prima della bellezza.
Il nostro tempo ha immiserito il gusto; soppresso, di fatto, la bellezza. Qualunque cosa tocchi viene reso goffo e vistoso attuando la parodia delle antiche forme.
Assieme alla bellezza intima degli oggetti, però, svaniscono anche gli uomini che l'hanno concepita e preservata: i caduti di una guerra che abbiamo perso tutti.

Fra tutti gli oggetti i più cari
Sono per me quelli usati.
Storti agli orli e ammaccati, i recipienti di rame,
I coltelli e forchette che hanno di legno i manici,
Lucidi per tante mani: simili forme
Mi paiono tutte le più nobili. Come le lastre di pietra
Intorno a case antiche, da tanti passi lise, levigate,
E fra cui crescono erbe, codesti
Sono oggetti felici.
Penetrati nell’uso di molti,
Spesso mutati, migliorano forma, si fanno
Preziosi perché tante volte apprezzati.
Persino i frammenti delle sculture,
Con quelle loro mani mozze, li amo. Anche quelle,
Vissero per me. Lasciate cadere, ma pure portate;
Travolte sì, ma perché non troppo in alto stavano.
Le costruzioni quasi in rovina
Hanno l’aspetto di progetti
Incompiuti, grandiosi; le loro belle misure
Si possono già indovinare; non hanno bisogno
Ancora della nostra comprensione. E poi
Han già servito, sono persino superate. Tutto
Questo mi fa felice.

sabato 29 novembre 2014

Un ricordo di Maria Grazia Pighetti Carbone

Assolutamente affascinante e carismatica!
Così definirei la signora Maria Grazia Pighetti Carbone, morta a Genova alcuni giorni fa, mamma di Maria Teresa.
Ho avuto la fortuna di conoscerla,  anche se per poco tempo, e ho intrattenuto con Lei un rapporto telefonico: io a Roma, Lei lontana, nella mia Liguria.
“Sa, ora sto rileggendo i tragici greci, in lingua originale s’intende”, mi diceva in una delle nostre ultime conversazioni.
Solo due anni fa, nel libro Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945, della giornalista Donatella Alfonso, è stata raccolta una Sua testimonianza che oggi mi sembra il modo migliore per ricordarLa e far sentire a Maria Teresa l’affetto e la vicinanza di tutti noi (a. rava).

Donatella Alfonso, Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945, De Ferrari Editore, 2012.

Genova - Martedi 24 aprile 2012
«Non sono antifascista perché mi sono iscritta tra gli antifascisti. Io sono nata antifascista, e lo sono stata benché mio padre fosse fascista convinto, avesse fatto la marcia su Roma, portasse la divisa e io le divise le ho sempre odiate … A sei anni mi ero già ribellata all’idea di metter la divisa di piccola italiana: quelle calze lunghe le ho sempre odiate, mi mettevo dietro tutte le altre per non far vedere che io portavo le calze corte! Sono nata antifascista, ripeto, perché non mi piaceva la disciplina, quella che mi vogliono imporre gli altri: mi piace la mia, di disciplina. Non sarei stata neanche una buona comunista, non riuscivo stare alle regole. Ho scelto comunque un partito di massa, che era la Democrazia Cristiana, perché c’era bisogno di partiti di massa, per costruire il paese. E oggi, che ho vissuto tanto e ho avuto tanto dalla vita, io non cambio cittadinanza: cerco di vivere da anarchica. E cristiana. Perché Cristo era un anarchico che proteggeva le donne di strada, le adultere… e trattava da pari tutti. il vero inventore del comunismo è stato lui».
Maria Grazia Pighetti, «la Pighetti come mi hanno sempre chiamato» ironizza lei, è seduta vicino alla finestra della casa piena ovunque di libri, sulle alture di Castelletto, a Genova. Novant’anni già passati, tra cultura, scuola e passione civile; i quotidiani accanto, le telefonate e le visite dei due figli e dei nipoti, anche per commentare un libro sulla storia greca «che sto chiosando» spiega lei «e che mi fa tornare in mente la voglia di rileggere Eschilo, Senofonte...». Insegnante di storia dell’arte, storia e filosofia per 25 anni e per altri quindici preside del liceo linguistico Grazia Deledda, ha partecipato da protagonista alla vita culturale genovese; ma, come racconta, senza scegliere invece la via della politica, nonostante le tante sollecitazioni a candidarsi per questo o quell’incarico elettivo. E insieme a lei, presenti sempre in ogni manifestazione di impegno civile, il marito Enrico Carbone, scomparso nell’agosto 2009 dopo 61 anni insieme. Una storia, la loro, nata proprio durante la Resistenza.

«Ho letto tutto quello che si poteva ma la scuola non mi piaceva. Però è proprio grazie alla scuola, al liceo D’Oria, che ho incontrato due delle persone che più mi hanno formato; don Guano insegnante di religione al ginnasio, che mi fece capire la differenza tra cristiano e cattolico e come si poteva essere entrambe le cose restando coerenti; e poi Caterina Marcenaro, che diventò la famosa soprintendente dei beni culturali del dopoguerra, e che fu
mia insegnante di storia dell’arte; mi insegnò che si poteva dire no. Allora era più azionista che comunista, mentre più avanti aderì al Pci, pur essendo una grande, raffinata borghese; una persona di grande dirittura morale. Il terzo incontro per me fondamentale fu quello con Giuseppe Dossetti: e peraltro fu una cosa casuale… una discussione durata un’ora e mezza, nel 1945, che mi ha segnato per sempre. Io non so se c’è Dio ma personalmente ci credo, è una decisione mia. Sono cattolica perché è la mia religione, ma le religioni sono costruzioni umane, ogni popolo e ogni persona fa la sua; guai se lo conoscessimo, la fede è un atto volontario.
Ho già detto che mio padre, avvocato, era fascista convinto e io me ne vergognavo. Ma non ho mai nascosto cosa pensavo io, e devo dire che comunque anche mio padre decise di aiutare molti ebrei… considerava assurde le leggi razziali, quella persecuzione, con il suo modo di vedere il fascismo, proprio non c’entrava nulla. D’altro canto lui era scappato di casa a quindici anni, si era dichiarato anarchico, poi fu dannunziano e infine fascista e lo fu tutta la vita. Però gli riconosco la coerenza e comunque il rispetto anche verso le mie idee che erano contrastanti, oltre all’amore per i libri che mi ha trasmesso. in seconda liceo mi ricordo che molti miei compagni volevano festeggiare la presa di Barcellona da parte dei franchisti; solo io e due mie compagne decidemmo di non partecipare, di entrare a scuola. Sulla lavagna campeggiò per un mese Pighetti crumira. Ed ero così apertamente antifascista che dopo la maturità, nel 1939, la Marcenaro e Dusetti, che era il mio professore di filosofia, mi dissero quanto erano felici a vedere che una persona nata in una famiglia fascista fosse antifascista, e che questa era una speranza per l’Italia futura.
La mia attività di supporto alla Resistenza comincia nel ’43 a Pieve Ligure, dove ero sfollata e da dove venivo, regolarmente a piedi, fino a nervi per prendere il tram e andare all’università. insieme a me c’erano le sorelle Gulberti, due amiche con le quali facevamo piccole azioni; portare documenti, ma anche armi. Mi ricordo che una volta mi diedero due bombe a mano da portare a Genova… lungo la strada incontro l’avvocato De Maestri che era in carrozza
e che ha insistito per darmi un passaggio. io non potevo dire di no e allora salgo e mi dicevo, oddio se ci fermano questo qui lo arrestano e lui non c’entra nulla… ma andò bene, superammo il posto di blocco senza problemi».

Maria Grazia Pighetti aderisce ai Gdd, i gruppi di difesa della donna, e fa parte di una rete che prepara e diffonde informazioni, volantini, materiali; poi si iscrive alla Dc, e nelle organizzazioni giovanili incontra il futuro marito, Enrico Carbone «con il quale cominciai a discutere nel 1945 dell’idea di Dio e abbiamo smesso solo perché lui non c’era più». Ma sono anche i tempi dei comizi, della propaganda, dei circoli e delle sezioni da organizzare nei paesi e nei quartieri, per le prime elezioni libere. Però la scelta finale è quella di continuare ad insegnare, e fare politica così, piuttosto che entrare in una lista dove peraltro sarebbe stata eletta senza problemi. Ironica e disincantata, oggi la politica la segue sui giornali e nei talk show televisivi («purchè non sia quello di Vespa» avverte) e confessa: il nostro però era un altro mondo.

«Era un gioco, anche, ci siamo divertiti tanto. Avevamo anche un giornale che si chiamava L’età nuova in cui io scrivevo di cultura, libri, cinema, teatro; ed Enrico che studiava economia e commercio, curava la parte economica. Io ero, e sono rimasta sempre, della corrente di sinistra, lui era più moderato. Nel gruppo più a sinistra, allora, c’era anche Gianni Baget Bozzo. D’altro canto non dimentichiamo quanti cattolici hanno aderito alla lotta partigiana, da Paolo Emilio Taviani, Pittaluga, allo stesso Bisagno, Aldo Gastaldi, e poi il professor Achille Pellizzari: tutti comandanti. Io l’ho fatta, la Resistenza, perché faceva parte della mia vita. Ma non ci ho mai pensato e non ci penso neanche di essere riconosciuta ufficialmente come partigiana; ho avuto tanto dalla vita, non ho chiesto nulla. Voglio essere io a stimare me stessa, non cerco qualcuno che lo faccia per me.
Così è stato per la politica: credo di essere moderatamente intelligente ma non furba, e in politica questo serve; io sono di una onestà maniacale e anche se non disprezzo la politica anzi, continuo appassionatamente e arrabbiatamente a seguirla; non so se ci siano o ci siano stati politici integralmente onesti perché non so se sia possibile. Quando andavamo in giro per comizi, mi ricordo che mangiavamo in qualche trattoria e spendevamo due o trecento lire; ci capita di andare a Portofino e spendiamo mille lire, pur mangiando le solite cose semplici. Io e mio marito rimaniamo fulminati! Per fortuna io, che avevo il mio stipendio di insegnante, quei soldi
li avevo, ma come dirlo al partito? E invece, quando l’ho raccontato, mi sono sentita dire: ah, non preoccuparti, lì c’è andato Taviani e ha speso tremila lire…»

Nel 1943 la laurea in storia; l’anno seguente Maria Grazia comincia, pur poco convinta, a insegnare a quella che allora si chiamava Regina Margherita, scuola per signorine benestanti. «Una scuola per ragazze ricche e ignoranti che andavano a scuola per avere una vernice di cultura» le bolla lei, che era stata chiamata a insegnare storia, filosofia e arte; ma l’anno seguente, dopo la Liberazione, la scuola non solo cambia nome e viene intitolata alla scrittrice premio Nobel Grazia Deledda, ma cambiano anche le allieve: tornano molte che erano fuggite da Genova per la guerra, e la giovanissima insegnante si trova ad avere allieve più grandi di lei . Intanto, anche il ruolo delle donne nella scuola e nella cultura risente del nuovo clima. Ma la strada da fare, commenta oggi Pighetti, è ancora lunga.

«Pensiamo che nel 1904 Maria Montessori fu la prima donna a laurearsi in medicina e negli stessi anni una cugina di mia madre si laureò in lettere a Pavia con un abito di velluto con lo strascico e tutti i professori della commissione in frac. E se a metà degli anni ’60 c’erano solo quattro ragazze iscritte a ingegneria a Genova e ora sono più dei maschi, significa che sul piano della dignità pubblica passi avanti ne sono stati fatti, sotto quello della dignità privata, invece no.
Tendiamo ancora ora ad essere oggetto nelle mani di coloro che amiamo, siano mariti, amanti, figli; io sono un’eccezione saggia. Perché, anche se lo pensavo, non ho mai fatto sentire a mio marito che lo consideravo da meno di me né che io volessi essere da più di lui. L’errore, e in questo la società è cambiata male, è stato quello di considerare più la superiorità dell’uno dell’altro che non la parità vera. E se c’è ancora tanto cammino da fare per le donne, non dimentichiamo che c’è la rabbia dei maschi, che non accettano di essere messi in un ruolo inferiore o che le donne scelgano per sé. Per questo c’è tanta violenza, perversione, schiavitù persino… d’altronde forse nemmeno quelli che conoscono un poeta raffinato come Novalis ricordano che scriveva, rivolgendosi alla fidanzata diciottenne morta: “Sono contento che tu sia morta perché ora sei veramente mia”. E le cose non sono cambiate, quante donne vengono uccise perché gli uomini dicono “tu mi fai rimanere solo, ma tu sei solo mia”?
Io vedo tutto questo e mi dico che sono così vecchia… aspetto solo di sapere cosa c’è dall’altra parte. vedere se c’è Dio, visto che ci ho creduto. E se non c’è nulla, allora dormo».

sabato 22 novembre 2014

La poesia della domenica - Edgar Allan Poe, Un sogno dentro un sogno

Non un sogno, ma un sogno dentro un sogno, la somma irrealtà. E se la realtà svanisce in un qualcosa di impalpabile, anche la vita si sfilaccia in tanti momenti irrecuperabili, come i grani d'una clessidra, in un filo di polvere e tempo impossibile da arrestare.
Poe, perfetto decadente ottocentesco, si avvale nella composizione di due concetti eminentemente barocchi, secenteschi. Ma se Calderon (La vita è sogno) o gli elisabettiani (fra cui Donne, i metafisici) potevano contare su una visione ultraterrena che compensasse la miseria della condizione umana (per usare una locuzione del Papa Lotario di Segni, Innocenzo III), Poe, come tutti i moderni, è assolutamente solo di fronte a tale rivelazione glaciale e definitiva.
Cosa resta del balsamo divino che medicava il terrore della morte?
Nulla. Si affronta il destino e la realtà forti o della consapevolezza estrema o d'un breve momento di nostalgia e rimpianto (Questo mio bacio accogli sulla fronte!), che è la poesia stessa, unico risarcimento al dolore.


Questo mio bacio accogli sulla fronte!
E, da te ora separandomi,
lascia che io ti dica
che non sbagli se pensi
che furono un sogno i miei giorni;
e, tuttavia, se la speranza volò via
in una notte o in un giorno,
in una visione o in nient'altro,
è forse per questo meno svanita?
Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno.

Sto nel fragore
di un lido tormentato dalla risacca,
stringo in una mano
granelli di sabbia dorata.
Soltanto pochi! E pur come scivolano via,
per le mie dita, e ricadono sul mare!
Ed io piango - io piango!
O Dio! Non potrò trattenerli con una stretta più salda?
O Dio! Mai potrò salvarne
almeno uno, dall'onda spietata?
Tutto quel che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno?

venerdì 21 novembre 2014

mvl teatro: BEING NORWEGIAN alla Sala Studio del Vascello



 
Maria Cristina Reggio
Cosa succede a due persone di sesso diverso che si conoscono in un locale e poi lui la invita a casa sua? Ce lo mostra al Vascello l'ottimo teatro d'attore di  Elena Arvigo - anche autrice della traduzione - e Roberto Rustioni - quest'ultimo anche regista della pièce - in Being Norwegian, testo del drammaturgo scozzese David Greig, nato a Edimburgo e cresciuto, per motivi famigliari, in Nigeria.  Argomento di tante commedie, sia teatrali sia cinematografiche, l'incontro fortuito tra un uomo e una donna si svolge in genere seguendo un reiterato copione sociale, con regole di comportamento che a mano a mano si sono codificate, forse proprio attraverso il teatro, il cinema, la tv: l'ospite offre qualcosa da bere, mette su una musica, accende una luce soft, si siedono sul divano, lei copre o mostra la coscia, lui ci prova e, se lei ci sta l'incontro può dirsi riuscito, e li vediamo rotolarsi finalmente sul divano stesso, sul letto, e perché no, sul tappeto.   Anche in questo caso si vorrebbe che finisse così, ma qui l'autore, lo spazio della rappresentazione e gli attori stessi mettono gli spettatori di fronte a uno specchio ben diverso, nel quale si riflette, pur tra molti scoppi di risate sommesse, un'umanità perduta, disperata, strappata, quello che noi siamo.   
Lei è una solare trentenne con calza nera e abito da sera, una donna " che vive in un seminterrato e abituata ad arrangiarsi da sola" - dice lei stessa, a un certo punto - che si mostra simpatica, disponibile e civetta quanto può, ma senza convinzione, se non quella di essere diversa, speciale, forte, "altra", insomma, in una parola, norvegese. Instancabilmente prova a entrare nel copione, ma altrettanto incessantemente se ne tira fuori arroccandosi in una immaginaria rude "norvegese" alterità, promette spesso di andarsene, ma resta e vuole restare. Lui è meraviglioso, quasi un perfetto scozzese: carnagione pallida, magrezza di uomo poco atletico, un corpo e un viso di chi ha chiuso le emozioni dentro una mancanza di espressività e in una prossemica incerta, i cui arti leggermente scoordinati sembrano capaci solo di muoversi in uno spazio conosciuto, insomma un uomo abituato a vivere in uno stesso spazio da solo. Quando si siede sul divano accanto alla ragazza pronuncia la fatidica frase inutile "Eccoci qua", due parole che non dicono nulla se non attestare un'evidenza senza possibilità di fuga. Si è là perché si è stati catapultati senza volerlo su quel divano, accanto a quella buffa sconosciuta, a cui non si sa cosa dire e che, forse, si vorrebbe che uscisse al più presto dal proprio spazio vitale. Ma lo spazio vitale di Sean, questo il nome del protagonista maschile, separato con due figli e uscito da poco di galera, non è un loft con design confortevole, ma un appartamento disadorno, che ricorda gli ambienti degradati dei film di un regista nordico, (non norvegese, ma finlandese) Aki Kaurismaki, arredato con oggetti miseri e con tanti scatoloni ancora chiusi disseminati qua e là nei quali l'uomo inciampa sovente.  
Il fatto curioso è che questa pièce si dà non sul palco del Vascello, ma nella sala Studio, che sembra diventare per l'occasione davvero un appartamento, con tanto di porta in laminato. Un soggiorno con un'illusoria vetrata che lo chiude, e che divide lo spazio degli attori da quello degli spettatori: all'inizio, infatti, lei indica tra noi che sediamo, un ipotetico splendido quanto disperante panorama metropolitano notturno. La vicinanza degli spettatori con i corpi degli attori è tale che se ne sente il respiro, forse addirittura i battiti cardiaci, e agli spettatori sembra di essere dentro a quella casa, di assistere, non visti, a un incontro reale tra due persone senza trucco, due autentici esseri umani che vivono un frammento della loro storia di vita. E il finale, allora, commuove davvero.
Fino al 23 novembre al Teatro Vascello,  Sala Studio
 
 

mercoledì 19 novembre 2014

Due poesie di Optaziano Porfirio, poeta enigmistico

Nato in terra d’Africa (fra il 260 e il 270), Optaziano fu tra i comites (consoli) presso la corte imperiale di Costantino, nella guerra contro i Sarmati. Caduto in disgrazia (forse per un adulterio, forse per la pratica di arti magiche), riuscì a riabilitarsi (compose una raccolta di panegirici in lode all’imperatore) sino a occupare cariche molto elevate, sino alla prefettura di Roma.
Come si legge in Introduzione alla poesia latina (cura di Luca Canali): “fu maestro di tecniche astruse: L’Anthologia Latina conserva alcuni suoi versi ‘anaciclici’, coppie di distici elegiaci leggibili indifferentemente dall’inizio alla fine o viceversa. Affiancò a simili sofisticati giochi metrici dei veri e propri calligrammi, in cui i versi disegnano un oggetto. Ma la sua specialità – e forse addirittura invenzione – sono i carmi con versus intexti, cioè contenenti versi ottenuti all’interno dei normali versi, collegandone le lettere con inchiostro speciale, (minio), a originare, oltre a scritte, disegni e ornamenti geometrici.
Fra questi tracciati spicca il monogramma di Cristo, che andrà inteso almeno come un omaggio a Costantino, se non come segno di una tardiva adesione – forse superficiale e interessata – alla nuova religione di stato”.
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Testo (da “Prodentur minio coelestia” a “felicia facta nepotum”)

I segni celesti saranno svelati dal minio a chi legge. O Costantino, decoro del mondo, aurea luce di questa età, con quali nuove preghiere può cantare, o sommo duce, i i tuoi trofei misti ad ammirevole pietà la mia pagina esultante, emula del Clario genitore di Calliope, bagnata di tale liquore? L’Elicona emani per la nostra gioia le onde da cui nascono versi, e faccia scaturire dal petto clemente un nuovo nume; infatti io cantando ritmici versi celebrerò gli scettri del magnanimo duce. La Grecia ci dà i doni di Gaza, e tu dai sicurezza a questa età col confine degli alleati Blemmi, o luce Romulea. Canto cose fiorenti, degne dei nuovi voti, scritte col voto. Marte, assicurata questa regione, con pari diritto si dirige verso il cielo. Sicché è chiaro che il Rubicone sconfigge ormai nella guerra ogni cittadino di Misia. Ormai la difficile Musa felice ed esultante mi spinge a mostrare con le lettere le sue visioni di pace; ora, lieto, per mezzo mio Febo mostra difficili gioie. O alloro, canta anche la trama col nuovo plettro intrecciato, plaudendo alla felice età con arte dipinta di lettere. Così il poeta, prendendo il mare, o sommo Pizio, sotto una guida sicura, ora tranquillo, ora temerario lo disprezzi; io certo ora ben sarei capace di fendere col remo il mare di Siga, se tendo le vele difficile per tutto il Nottifero, spingendo la nave. La Musa mi concede di intrecciare la nave da me immaginata; questa più la nobile speranza congiunta al tuo voto. La mia lode dipinta, che rispetta il piede, non spezzi a me insaziabile con la sua gran mole d’insegnamento la mente stanca per i suoi giri. Con sacra eloquenza svelerò con buona intenzione felicissime immagini; le disprezzerà forse la clemenza, quando farà a gara con le più grandi speranze dopo aver sconfitto Marte? Così che tu, fatto imperatore, fai crescere per noi l’età dell’oro, poi vincitore renderai ormai al Lazio i doppi ventennali che la mia devozione dipinga con carme dedicato al tuo nome meraviglioso. La fortunata pagina esprime il voto tracciandolo con vario fiore, ricordando gli insigni Fati della Augusta discendenza. Le fortunate imprese dei tuoi nipoti, degne di avere te per giudice o per pio testimone, si uniranno ai meriti dell’antenato.

Versus Intexti (disegnano il monogramma di Cristo, )

Bisogna pensare che la nave sia il mondo e tu l’arredo all’interno, teso dai possenti venti della tua virtù. Il navigante disprezzi ora, o sommo, sicuro le tempeste; disprezzi ora, o sommo, sicuro, le nere tempeste; sicuro disprezzi cose arricchite di grandissimi trofei; scacciati i cattivi pensieri disprezzi, o sommo, le tempeste; anche Roma con buona speranza disprezzi, o sommo, le tempeste, Roma felice fiorisce sempre per i tuoi voti

Grazioso tale componimento in cui svela all’amico cornuto, nei versus intexti, il nome dell’amante della bella moglie Imnide.

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Testo (Da “ingemui graviter” a “Fryx coiux, crede canenti”)

“Molto io piansi commiserando l’amico greco, al quale l’animo mio, dolente per ciò che è stato perpetrato, desidera raccontare tutto, sicché egli, leggendo da solo questi fatti che gli sono nascosti, si infiammi di ira, perché possa tenere in catene il dissoluto e colpevole, ma evitando la presenza di gente, che un marito non può volere testimone di vergognosi litigi, ed evitando poi che la bellissima donna istupidisca il greco con i cari dardi, sapendo, scellerata, che niente perse Elena figlia del cigno, la quale ebbe più favore per i due adulterî. Io indico con piacere tutti i nomi: la Musa canta per i Greci. O coniuge frigio, credi a me che canto”

Versus Intexti

O Marco, Nilo possiede tua moglie Imnide

domenica 16 novembre 2014

Autoritratto di editore con Carmine Donzelli

Lorenzo Carlo
12 novembre, secondo incontro del nuovo ciclo 2014-15 di “Autoritratto di editore” dopo la conversazione con Isabella Ferretti di 66thand2nd: questa volta è stato il turno di Carmine Donzelli e Bianca Lazzaro che hanno presentato la casa editrice attraverso sei opere da loro ritenute particolarmente significative della loro produzione.
Con un appassionato e appassionante lungo monologo Carmine Donzelli ha raccontato la più che ventennale vicenda della casa editrice, nata nel 1992 sulla scia della rivista Meridiana. I criteri di scelta delle opere da pubblicare sono dichiaratamente disparati; l’intento principale è quello di rivolgersi ad un lettore generalista, colto, sofisticato, curioso, con un approccio non accademico e non specialistico.
Alla data sono in catalogo oltre 1700  titoli: appunto per il criterio sopra detto non vi è alcun “best-seller” ma vi sono numerosi “long-seller”. Fra questi il titolo più rappresentativo è senza dubbio Destra e sinistra di Norberto Bobbio giunto quest’anno alla sua quinta edizione ampliata ed arricchita di preziosi interventi nel ventennale della prima edizione.
L’editore ha inoltre voluto ricordare:
Guido Crainz e la sua (per ora) trilogia sull’Italia repubblicana: il terzo volume Il Paese reale è il più recente; Angelo Bolaffi e il suo Cuore tedesco che, oltre a far capire meglio la Germania contemporanea agli italiani, ha avuto tale successo da meritarsi numerose traduzioni tramite le quali ha finito - per certi versi - con lo spiegare la Germania anche ai tedeschi; le Fiabe e storie di H. C. Andersen nell’unica edizione completa e integrale mai realizzata in Italia, una magnifica opera editoriale ricca di una straordinaria prefazione di Vincenzo Cerami e di preziose illustrazioni originali di Fabian Negrin; Il pozzo delle meraviglie dove sono raccolte le favole popolari raccolte dal grande antropologo siciliano in dialetto locale, qui per la prima volta rese in italiano (meglio che “tradotte”) da un lungo, esperto ed amorevole lavoro di Bianca Lazzaro ed illustrate dal magico Fabian Negrin; una preziosa edizione de “Il Principe” di Niccolò Machiavelli pubblicata nel 500° anniversario con una traduzione in italiano corrente (a cura dello stesso Donzelli) a fronte che rende l’opera molto più leggibile ed apprezzabile per il lettore contemporaneo.
Il tempo tiranno ci ha costretti a interrompere questo incontro con rammarico unanime: molte erano ancora gli argomenti da toccare e le curiosità da soddisfare. Ci siamo ripromessi di aggiungere un secondo incontro non appena possibile. E prima di salutarci, Carmine Donzelli ha comunque ricambiato l'invito di Monteverdelegge, sollecitando i soci a prendere parte all'aperitivo natalizio che si terrà nella sede della casa editrice, in via Mentana, il 18 dicembre a partire dalle 18.

sabato 15 novembre 2014

La poesia della domenica - Beatrice di Dia, Io ho vissuto in gran pena

Beatrice, contessa di Dia (1140? - ?), originaria del Delfinato (antica provincia francese fra Rodano e Alpi al confine col Piemonte) fu la maggiore trovatrice in lingua provenzale.
Secondo una tradizione preponderante fu moglie di Guglielmo di Poitiers, e si accese di passione per Raimbaut d’Aurenga (1140?-1173), signore d’Orange, altro notevole poeta occitanico.
Di Beatrice sopravvivono cinque composizioni.
In Estât ai en greu cossirier, denotata da una squisita sensualità, si esalta, secondo un riccorrente topos della lirica provenzale, l’amore adulterino; e questo si accende per un cavaliere celato sotto il senhal Florio (che identifica, quindi, Beatrice come Biancofiore).
La leggenda di Florio e Biancofiore fu uno dei cantari più diffusi nell’Europa medioevale (ispirerà anche il Filocolo di Giovanni Boccaccio).
Florio, figlio del re pagano di Spagna, nasce nello stesso giorno di Biancofiore, orfana presso la corte, ma di ascendenze cristiane e romane. Cresciuti ed educati insieme, i fanciulli si innamorano perdutamente. Divisi dal re (Florio è mandato in terre straniere, Biancofiore venduta ai nomadi), i due amanti si ricongiungeranno presso la Corte di Babilonia uniti nella fede in Cristo.
Che i due senhal, Florio e Biancofiore, usati per celare l’identità di poetessa e amante, siano stati usati da Beatrice a causa di quella comune data di nascita?
Impossibile dimostrarlo, ma la supposizione è così bella che mi piace credervi.

Io ho vissuto in gran pena
Per un cavaliere che fu mio
E voglio che per sempre sia saputo
Che l’ho amato  appassionatamente;
Ma ora vedo che son tradita
Perché non gli donai l’amor mio
Per cui mi trovo in gran tormento
Sia nel letto che quando son vestita

Ben vorrei il mio cavaliere
Stringere nudo, una notte, fra le mie braccia,
E che lui si sentisse felice
Solo ch’io gli facessi da cuscino,
Perch’è lui che mi piace più di quanto
Non sia piaciuto Florio a Biancofiore.
A lui consegno il mio cuore e il mio amore,
Il mio sonno, i miei occhi e la mia vita.

Bell’amico, gentile e valoroso,
Or quando vi terrò in poter mio?
Solo una sera insieme a voi giacere
Per farvi dono d’un bacio d’amore!
Avrei gran voglia, ben lo sappiate,
D’aver voi piuttosto che il marito
A patto d’avermi giurato 
Di far tutto ciò ch’io volessi.

venerdì 14 novembre 2014

Giorgio Manganelli e la pisciatina notturna

G. Luca Chiovelli

Una divagazione di Giorgio Manganelli, che lessi su un quotidiano romano decenni fa:

“Tempo addietro, credo fosse la scorsa estate, mi accadde di passare, una sera, per la mirabile piazza della Bocca della Verità a Roma; era con me, dignitosa e virtuosa compagnia, una giovane e brillante giornalista romana; nella sera tiepida si chiacchierava del più e del meno: Dio, l'aldilà, la vita sulle galassie, quando noto nella mia vereconda collega i segni di indubbio malessere; educatamente mi allarmo, costei si schermisce, offro assistenza, vengo bruscamente respinto; infine, il segreto turbamento esige una spiegazione: la giovane giornalista dovrebbe andare al bagno; ma nulla del genere esiste in quella parte della città; pura follia pensare che sia stato previsto un evento tanto incredibile, che una giovane donna debba andare al bagno in Piazza Bocca della Verità .... quell'angolo, a destra, le ingiungo; vergognosa, la fanciulla si apparta, mentre io fo da guardia; un notturno zampillo; e la fanciulla riemerge serena, e riprendiamo a discutere sulle probabili forme di vita delle galassie”.

Chi non ha sofferto disavventure simili a Roma?
E la signora è stata fortunata. Se avesse trovato il bagno sarebbe stato molto peggio.
Una volta, in un bar di periferia, fui costretto personalmente a eliminare i residui dal water con un tubo da giardino, che il proprietario ebbe l’accortezza di far penzolare da una feritoia del fetido stambugio. Un'altra volta, invece, battei rovinosamente la cervice alla sommità di un cunicolo che, mi era stato detto, sarebbe sboccato nella toilette (toilette, dissero proprio così; zona Garbatella). Presso Piazza S. Giovanni di Dio, per accedere al Nirvana della prostata, fui dapprima costretto a sollevare una botola, fissarla con lo spago alla parete, e quindi inscenare una catabasi nella penombra fra due muri compatti di confezioni di bitter e acqua minerale: al termine non trovai la Giudecca, ma, in compenso, un bugliolo infernale. Per tacere di quando, nel Cimitero Monumentale del Verano, dovetti abbattere una porta per liberare una signorina rimasta chiusa au cabinet, al buio … si era dalle parti della lapide di Vittorio Gassman, mi sembra ... che dire … basta così ...
Urge un baedeker dei cessi romani. Senza dubbio.
Cessi, latrine. Bagni, servizi.
Certo servirebbe anche di quelli fiorentini, parigini, cairoti, berlinesi e bonaerensi, lo concedo, ma di quelli romani ...
A Roma conosciamo tutto su musei, biblioteche, centri culturali, siti archeologici, chiese, basiliche, arene, privé, discoteche, cattedrali, club per sadomasochisti, conventi e palazzi patrizi, ma ignoriamo dove estrovertire con tranquilla dignità le più irrefrenabili e frequenti pulsioni dell'animo umano.
Consideriamo, peraltro, la fredda aritmetica.
Tre milioni e mezzo di residenti più un milione circa fra turisti, immigrati, irregolari, pendolari, terroristi e scansafatiche vari fanno quattro milioni e mezzo di esseri umani in giro per la Città; ogni giorno che Cristo, o chi per lui, manda su questa valle di lacrime.
Calcoliamo: almeno tre minctiones e una stercoratio cadauno nelle ore diurne (08.00-20.00) e si raggiunge la spaventevole cifra di potenziali diciotto milioni di esternazioni, fra deflussi ed espulsioni: in un arco di sole dodici ore. Al giorno.
Lo ripeto con allarme: urge una guida ai cessi romani.

Perché a Roma saper pisciare e defecare con tranquillo decoro pare impossibile. E non da oggi - da quando, cioè, la città appare, come è, in pieno declino. 
Questo libro, come la materia trattata, è perciò ineludibile.
È una guida che nessuno ha mai pensato di compilare (ah, i tabù), ma serve, serve come il pane; inoltre mi divertirebbe scriverla.
Sì, un baedeker dove il passeggiatore e, soprattutto, il turista, avrebbe modo di trovare preziosissime indicazioni su come risolvere le fatali incombenze nei modi e nei luoghi più dignitosi ... sarebbe un successo ... ragionate: quale guida è più essenziale a Roma, oggi? Un successo ... ho tutto in testa: aneddoti, luoghi, avvertenze ... basterebbe ammollarmi qualche mazzettone in anticipo ... ho già in mente il titolo: Dove la faccio? Guida ragionata a bagni cessi e latrine pubbliche nella Città Eterna ... da aggiornare online … un successo, lo ripeto, eventuali editori non siano timidi …
Infine puntualizziamo tre punti.
1. Per pubblico (bagno cesso latrina pubblici) voglio significare non solo la struttura comunale o statale confacente, come dire?, alla bisogna, ma anche bagni cessi latrine privati di bar, ristoranti, fast food, pizzerie, hamburgerie, birrerie, caffetterie, pub, aperti ai deflussi e alle deiezioni pubbliche di coloro che, incautamente, si ostinano ancora a visitare e andare a zonzo per i meandri della Cittá Eterna (da qualche tempo in qua piuttosto caduca, in verità).
2. Inutile storcere il naso di fronte a tali estroversioni dell'apparato corporeo: esse fanno parte della nostra vita, ogni giorno (anzi: più volte al giorno); sono fastidiose, lo ammetto; sgradevoli, ne convengo, ma, purtroppo ineludibili - come la morte, il respiro e il canone RAI: ad esse nulla può opporsi, neanche la volontà più fiera. Barack Obama e Jean-Claude Juncker, Monica Bellucci e George Clooney, Messi e Serena Williams, George Soros e Luca Cordero di Montezemolo, tutti (tutti!) devono piegarsi (alla fine, anche fisicamente) a tale incoercibile imperio.
3. Attraverso tale guida, inoltre, si ovvierebbe a una gigantesca ingiustizia storica; talmente enorme che, in tempi di acuto revisionismo, esige d’esser sanata senza por tempo in mezzo.
Mi spiego: non è forse vero che tali esternazioni non sono che uno dei due corni di un unico fenomeno? Ovvero uno dei due volti di un unico Giano bifronte?
Mi rispiego: non è forse vero che la cauta, meticolosa, e schifata eliminazione di tali sostanze è simmetrica all'ingestione (anelata, sublimata, simbolizzata, festeggiata e declinata secondo gusti e forme variegatissimi) di simmetriche sostanze (in realtà pari a merda e piscia, ma più gradevolmente assemblate a livello molecolare)?
Non avete capito? Lo urliamo, allora, in altri, più crudi, termini: non si piscia ciò che si beve? Non si defeca ciò che si mangia? Come è possibile, quindi, magnificare e magniloquire la materia che si introduce da un orifizio superiore e deprecare e disinteressarsi con disgusto quando la stessa ci saluta da quelli inferiori? Non vedete voi in tale diportamento una ipocrisia millenaria e un atteggiamento falso e iniquo che ha prodotto una letteratura sbilanciatissima e profondamente parziale? Come è possibile, insomma, continuare ad appesantire le scaffalature con le più svariate e pletoriche guide: guide ai ristoranti, guide agli happy hour, guide a trattorie, locali, bar, night, cantine, boutique del gusto, enoteche, fraschette, pizzerie, agriturismi, griglierie, birrerie, senza dedicare neanche un minuscolo scartafaccio ai luoghi ove poter decentemente eliminare gl'inevitabili decorsi di tali bagordi e imbandigioni?
E allora, come dire?, sforziamoci tutti.
Compiliamo questa benedetta guida.
Ogni locale pubblico (pubblico nel senso sopra indicato) si vedrà assegnare delle stellette (da una a dieci) a seconda della qualità dei servizi.
Ti picchi di avere il dolcetto artigianale e lo smerci a caro prezzo? Bene, ma che le ceramiche della coppa del cesso sia altrettanto curate, altrimenti …
Servi una sublime amatriciana? Benissimo, ma se manca il sapone, la carta igienica, l'asciugatore o i fazzolettini noi ti stronchiamo.
Il museo tal dei tali espone il dipinto ritrovato di Caravaggio? Bravi, bis, ma poi vogliamo anche accosciarci nel profumo di Anitra WC ed essere accecati dai riflessi dell’acciaio inossidabile dei rubinetti.
E così via.
Un Gambero Rosso (Gambero Zozzo?) degli sciacquoni, un Baedeker della coppa del cesso.
Avanti. Non fatelo perché lo dico io. Fatelo per Roma.

giovedì 13 novembre 2014

Su Eleanor Wilner il laboratorio di traduzione di poesia 2014-2015

Il laboratorio di traduzione di poesia, giunto al suo terzo anno di attività, si incentra su una scelta di testi della poetessa americana Eleanor Wilner. Come di consueto, il laboratorio è gratuito e aperto a tutte/i gli iscritti all'associazione, anche se è preferibile avere una buona padronanza della lingua inglese. Chi desidera partecipare è  invitato a mandare un'email a monteverdelegge@gmail.com
Eleanor Wilner (a cura di Fiorenza Mormile)
Eleanor Rand Wilner è nata in Ohio nel 1937, e vive a Philadelphia. Poetessa, traduttrice, saggista e docente universitaria nelle sue sette raccolte di poesia fonde politica, cultura, storia e mito in una sintesi originale, in costante equilibrio tra le ragioni della mente e del cuore. Schierata da sempre su posizioni pacifiste e a difesa dei diritti dei più deboli rifugge dal taglio personalistico della scrittura della sua generazione, adottando una visione più culturale e collettiva della memoria. Spaziando dal mito classico alla Bibbia, dalle fiabe all’arte, dal diluvio universale alle guerre contemporanee, Wilner individua nuove prospettive, ribalta luoghi comuni, dà voce e dignità a chi non ha avuto la possibilità di esprimere il proprio punto di vista, privilegiando sempre i sommersi ai salvati. Alicia Ostriker ne loda l’ampiezza visionaria e l’intelligenza rivoluzionaria, Christian Wiman sottolinea come sia raro trovare un poeta in cui l’intelligenza morale si abbini a un così acuto senso estetico, e la perizia  tecnica sia tanto adeguata all’altezza e alla complessità delle tematiche. 
BIBLIOGRAFIA
POESIA
      maya, University of Massachusetts Press (Amherst, MA), 1979.
      Shekhinah, University of Chicago Press (Chicago, IL), 1984.
      Sarah's Choice, University of Chicago Press, 1989.
      Otherwise, University of Chicago Press (Chicago, IL), 1993.
      Reversing the Spell: New and Selected Poems, Copper Canyon Press (Port Townsend, WA), 1998.
      Precessional (limited edition), lithografie di Enid Mark, ELM Press (Wallingford, PA), 1998.
      The Girl with Bees in Her Hair, Copper Canyon Press (Port Townsend, WA), 2004).
      Tourist in Hell, University of Chicago Press (Chicago, IL), 2010.

ALTRO
      Gathering the Winds: Visionary Imagination and Radical Transformation of Self and Society, Johns Hopkins University Press (Baltimore, MD), 1975.
      (Ha tradotto Medea, con Inés Azar) Euripides 1: Medea, Hecuba, Andromache, The Bacchae, Edito da David Slavitt e Palmer Bovie, University of Pennsylvania Press (Philadelphia, PA), 1997.
Ha composto il libretto per l’ oratorio Orpheus on Sappho's Shore, musica di Luna Pearl Woolf. Ha tradotto Medea, Euripides I,University of Pennsylvania Press (Philadelphia, PA), 1998. Presente in antologie, incluse Best Poems of 1976: Borestone Mountain Poetry Awards, Pacific Books, 1977;The Best American Poetry, 1990 Scribners and Macmillan/Collier (New York, NY), 1990; e la The Norton Anthology of Poetry, quarta edizione, W. W. Norton (New York, NY), 1996. Pubblica anche poesie, saggi critici e recensioni sui giornali letterari.

mercoledì 12 novembre 2014

Storia di Rosa, la fanciulla rapita dal Tevere che ispirò Fabrizio De André

G. Luca Chiovelli

La canzone di Marinella è uno dei brani più celebri della canzone italiana, senza alcun dubbio. Pubblicato nel 1964, senza alcuno strepito, come lato B di un 45 giri (Valzer per un amore era il lato A), esso fu portato al successo, tre anni più tardi, dall'interpretazione di Mina.
La canzone narra di una morte, della morte di una ragazza; e deve il fascino profondo, oltre alla calda scansione di De André, al modo in cui tale tragedia, irrimediabile, viene addolcita da toni delicati e malinconici.
Trentacinque anni più tardi, in un’intervista, il cantautore rivelerà: “La canzone di Marinella non è nata per caso, semplicemente perché volevo raccontare una favola d’amore. È tutto il contrario. È la storia di una ragazza che a sedici anni ha perduto i genitori, una ragazza di campagna dalle parti di Asti. È stata cacciata dagli zii e si è messa a battere lungo le sponde del Tanaro, e un giorno ha trovato uno che le ha portato via la borsetta dal braccio e l’ha buttata nel fiume. E non potendo fare niente per restituirle la vita, ho cercato di cambiarle la morte».
Ma chi era Marinella, nella realtà?
Forti di tale dichiarazione (Ipse dixit) alcuni esegeti si son messi in caccia e, dopo lunghe ricerche, son arrivati alla soluzione del tenue enigma.
Da Wikipedia:

“Il celebre brano potrebbe trarre ispirazione da un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1953 e precisamente il ritrovamento nel fiume Olona tra Rho e Milano del corpo crivellato di colpi di una ballerina/prostituta, una certa Maria Boccuzzi. Secondo lo psicologo astigiano Roberto Argenta la vicenda avrebbe ispirato il brano musicale … Nata l'8 ottobre 1920 nel piccolo centro calabrese di Radicena … Maria Boccuzzi emigrò assieme alla famiglia a Milano all’età di nove anni, in cerca di un lavoro migliore. Nel 1934 iniziò a lavorare sul posto di lavoro conobbe uno studente spiantato, Mario, di cui s'innamorò … Le difficoltà economiche e l’impossibilità di riallacciare i rapporti con la famiglia portarono alla fine del rapporto amoroso. Dopo appena un anno, i due si lasciarono. A questo punto, senza dimora e senza lavoro, decise di intraprendere la strada di ballerina di varietà col nome d’arte di Mary Pirimpò. Qui conobbe Luigi Citi, di cui divenne l’amante, che la 'cedette' a Carlo Soresi … di professione protettore, che l’avviò alla prostituzione ... Iniziò a prostituirsi in una casa chiusa a San Salvario (Torino), poi a Firenze, per approdare a Milano … La notte del 28 gennaio 1953 Maria Boccuzzi venne uccisa a revolverate e spinta nell'Olona forse ancora agonizzante”.

Il caso filologico pareva chiuso.

sabato 8 novembre 2014

La poesia della domenica - J. W. Goethe, Canto notturno del viandante

Uno dei due Wandrers Nachtlied, Canti notturni del viandante, composti da Goethe nel 1776 (Der du von dem Himmel bist) e nel 1780 (il presente Über allen Gipfeln).
Secondo una narrazione forse leggendaria, Goethe incise tali versi sulla parete di legno di un capanno montano della Turingia, ove trascorse la notte, nel settembre 1780. Più di mezzo secolo dopo, sul finire dell'estate del 1831, alcuni amici lo accompagnarono presso lo stesso capanno; egli ricercò la breve lirica istoriata, e, una volta trovata, ne declamò le ultime due linee in modo commosso, quasi prefigurando, in tal modo, la propria morte (che avvenne, infatti, di lì a pochi mesi).
La poesia riecheggia quella, similmente perfetta, di Alcmane ("Dormon le cime dei monti ..."); in essa la moderna introspezione convive con forme compostamente classiche, sia descrittive (la scena evoca la quiete d'un notturno) che lucidamente stoiche (l'arrendersi pacato all'ineluttabilità della fine).
Über allen Gipfeln verrà musicata da Franz Schubert, nel 1823, Franz Liszt, nel 1840, e Robert Schumann, nel 1850.
Su tutte le vette è pace è anche il titolo dell'eccezionale film-documentario di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (1999) sulla Grande Guerra (cfr. il post Un libro che non leggerete mai, un film che non vedrete mai). 

Su tutte le vette
è pace;
In tutte le cime degli alberi
Senti un alito
Appena;
Gli uccelli son muti nel bosco.
Attendi ora. Presto
Avrai pace anche tu.


Über allen Gipfeln
Ist Ruh,
In allen Wipfeln
Spürest du
Kaum einen Hauch;
Die Vögelein schweigen im Walde.
Warte nur, balde
Ruhest du auch.

Caspar David Friedrich, La sera


Come combattere la povertà? “Creando" posti di lavoro



Investimenti e produttività si rilanciano solo con programmi di espansione dell'occupazione mossi dall'operatore pubblico che, quale datore di lavoro di “ultima istanza”, non alimenti politiche di assistenza ma “crei” posti di lavoro per tutti, soprattutto per le qualifiche più basse e con salari minimi.
È la tesi del cosiddetto “stretto pieno impiego” proposta dall'economista Hyman Philip Minsky e illustrata nel volume “Combattere la povertà - Lavoro non assistenza” (Ed. Ediesse, 264 pp), pubblicato lo scorso ottobre.
L'opera racchiude in sette capitoli, articoli e manoscritti dell'economista, editi ed inediti, che vanno dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta e sono ancor oggi di scottante attualità.

Elvira Sessa




Non c’è cura migliore contro la povertà del reddito familiare, specialmente del reddito familiare percepito mediante lavoro” scriveva cinquanta anni fa Minsky, economista di Chicago (1919-1996), senza immaginare che la sua teoria economica, sviluppata in un periodo critico per gli Stati Uniti, caratterizzato da grande disponibilità di lavoro di bassa qualificazione e con un salario relativo che andava peggiorando nel tempo, potesse riemergere oggi, in Italia, in tutta la sua attualità e carica provocatoria.
Eppure, tant'è.
Lo evidenziano gli economisti Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi che, nel loro saggio introduttivo al volume “Combattere la povertà” (traduzione di Anna Maria Variato e prefazione e introduzione all'edizione originale redatte da Dimitri Papadimitriou e L. Randall Wray), osservano: “l’argomento fondamentale di Minsky è semplice: (1) la povertà è in larga parte un problema di occupazione; (2) lo «stretto pieno impiego» migliora i redditi alla base dello spettro dei salari; e (3) per sostenere lo «stretto pieno impiego» è necessario un programma di creazione diretta del lavoro.”
Minsky parte da un’aspra critica alle politiche keynesiane che, se hanno favorito la nascita di uno Stato, grande a sufficienza da stabilizzare l’economia e sussidiare il consumo, hanno anche portato a grandi sprechi di denaro pubblico che non hanno contribuito a migliorare le condizioni dei più poveri. Al welfare keynesiano basato sui sussidi, ossia sulla “corresponsione di liquidità o servizi senza che nulla sia richiesto in cambio di questa erogazione”, Minsky contrappone una strategia “basata sul lavoro” in cui lo Stato si impegna ad assicurare l’impiego a tutti coloro che sono disponibili ed abili al lavoro, nella convinzione che “qualsiasi strategia politica che non assuma la creazione di lavoro come obiettivo primario non è altro che la continuazione della strategia di impoverimento del decennio passato” (così si legge a p. 215 del volume).
In particolare, per combattere la povertà, Minsky propone di “socializzare” (ossia “statalizzare”)  i settori-chiave dell’economia per far sì che il consumo soddisfi la maggior parte dei bisogni privati e di tassare il reddito e la ricchezza per abbattere la diseguaglianza sociale. Un ruolo cruciale è ricoperto dagli strumenti della politica monetaria e fiscale, considerato che una politica monetaria espansiva può determinare una svalutazione della moneta nazionale sui mercati valutari internazionali; così come un alleggerimento della pressione fiscale può determinare solo un incremento del potere di acquisto di coloro che hanno già alti redditi, consentendo ai poveri di incrementare i loro redditi solo per effetto dello “sgocciolamento” verso il basso del maggiore reddito dei ceti abbienti (secondo quella che Minsky definisce la strategia di “trickle down upon them”).
Minsky sottolinea inoltre che, per combattere la povertà non basta neppure una manovra di politica economica orientata ad incrementare la ricerca e lo sviluppo, perché in tal caso essa servirebbe ad orientare la domanda di lavoro verso una categoria di lavoratori ben istruiti e ben addestrati, lasciando ai margini quelli poco qualificati.
Per questi motivi, secondo Minsky, la campagna anti-povertà ha bisogno di un “ingrediente necessario”: il cosiddetto “stretto pieno impiego” dei lavoratori.
Ma cosa è questo “stretto pieno impiego”? È una condizione di politica occupazionale che si verifica segmentando lavori complessi in lavori semplici. Solo così si può sostituire il lavoro che si trova in eccesso di offerta con il lavoro che si trova in eccesso di domanda (Minsky fa, in proposito, l’esempio di una guardia forestale utilizzata come supplemento di poliziotti completamente addestrati).
Con questa strategia di “stretto pieno impiego”, lo Stato garantirebbe a tutti un salario di base necessario per condurre le famiglie ad un reddito almeno sufficiente all’autosostentamento. Tale salario potrebbe essere, a sua volta, speso nei consumi, così rivitalizzando il ciclo dell' economia reale e riducendo l'impoverimento.
Lo “stretto pieno impiego” richiede, dunque, un big push dello Stato dal lato della domanda di lavoro quale datore di lavoro di “ultima istanza”, ossia che interviene “creando” quelle tipologie di lavoro che nessun datore di lavoro privato domanda perché considerate apparentemente “inutili”.
Verrebbe allora da chiedersi: “lo stretto impiego” è una via praticabile?
Minsky non ne dubita perché l’ha vista attuata all’epoca del New Deal, quando i lavoratori sono stati assunti per quello che erano e lo Stato ha creato occupazione per loro.
 L’economista indica anche le strategie per continuare a perseguirla: lo Stato dovrebbe attuare “uno sforzo minimo critico” impegnandosi nella creazione “diretta” di occasioni di lavoro per tutti anche se di bassa qualifica e ad un salario minimo (Minsky parla proprio di “direct job creation programs”, riferendosi al fatto che è lo Stato a creare “direttamente” nuovi lavori, segmentando lavori complessi in tanti lavori semplici alla portata dei disoccupati poco qualificati).
Solo all'interno di una situazione di autentico pieno impiego che si sia venuta a creare in questo modo, lo Stato potrà poi procedere ad una ulteriore professionalizzazione dei lavoratori meno qualificati. Insomma: prima assicurare ai lavoratori un salario minimo, poi formarli anche per lavori più complessi.
Senza questo intervento statale, il mercato finirebbe per richiedere solo manodopera specializzata, lasciando ai margini i meno qualificati.
Con la sua teoria della “stretta occupazione”, Minsky evidenzia, dunque, non solo il ruolo cardine dello Stato nel rilanciare l'economia (perché altrimenti l’economia crescerebbe solo nel PIL, ma non nel benessere diffuso e aumenterebbe la schiera dei poveri) ma anche i limiti di un interventismo statale basato su misure “caritative”, ossia su meri sussidi monetari e sgravi fiscali, perché ciò non consentirebbe mai ai poveri di affrancarsi dalla loro condizione. A tal proposito, l’economista richiama l’esempio dell’era Kennedy-Johnson, quando i sussidi monetari e gli sgravi fiscali hanno causato una compressione dei salari dei lavoratori nonché una diminuzione dei redditi della classe media e, più in generale, del consumo. Conseguentemente, le condizioni dei poveri miglioravano, sì, ma solo grazie al peggioramento delle condizioni di vita dei meno poveri.
Quanto abbiamo recepito oggi, in Italia, del pensiero così originale di Minsky?
Bellofiore e Pennacchi, nel richiamare la lungimiranza dell’economista, ammettono, con amarezza: “La guerra alla disoccupazione continua a non essere tra le preoccupazioni centrali dei governi europei. Se la si assumesse come obiettivo politico strategico, i pesi relativi di altre politiche verrebbero riconsiderati” e suggeriscono una strada: “L’enfasi dovrebbe andare sul lato della spesa governativa per investimenti e per creare lavoro. In particolare i programmi di spesa dovrebbero consistere in grandi progetti sulle criticità fondamentali del paese –riqualificazione ambientale, territori, città, cultura, istruzione, Ricerca e Sviluppo – e impiegare direttamente i lavoratori, soprattutto giovani e donne, privi di lavoro. Oggi l’esigenza di un motore pubblico per gli investimenti e la possibilità di generare occupazione si configurano come un binomio inscindibile”.