martedì 7 ottobre 2014

Al Teatro dell'Angelo va in scena “Regina Madre". A trent'anni dal debutto torna a vivere sui palchi la favola della mamma e del suo burrascoso rapporto con il figlio

Elvira Sessa

“Viva la mamma affezionata a quella gonna un po’ lunga/ Così elegantemente anni Cinquanta (...)”, le note di Edoardo Bennato aprono il sipario del Teatro dell’Angelo di Roma (via Simone de Saint Bon n.19), con "Regina Madre", commedia ironica e grottesca in due atti, in cartellone dal 2 al 19 ottobre 2014. 
L’opera, scritta nel 1984 dal fertile drammaturgo napoletano Manlio Santanelli e messa in scena per la prima volta nel 1985, rivive ora in tutta la sua attualità, nella magistrale interpretazione di Milena Vukotic e Antonello Avallone, per la regia di Antonello Avallone, scenografia e costumi di Red Bodò.  
La commedia ruota intorno a due personaggi: una vedova settantacinquenne e malata dal nome Regina (Milena Vukotic) e suo figlio Alfredo (Antonello Avallone), giornalista alla soglia dei cinquanta anni, venuto ad assisterla. 
La scenografia classica da commedia napoletana, fatta da un tavolino, due sedie, un letto, potrebbe avvolgere lo spettatore negli odori delle pareti domestiche, nel sapore delle pietanze di “mammà”, nelle sicurezze della casa dell’infanzia.
Tutt’altro.
Sin dalle prime battute, la scena si carica di tensione: Regina (cui ben si addice il titolo di “Regina Madre” che si dà alle vedove madri del monarca regnante), prorompe in tutta la sua energica mostruosità di donna abituata a regnare nella vita del figlio, a schiacciarlo e tenerlo al guinzaglio con paure e sensi di colpa, vampira ingorda del sangue del suo sangue.
E Alfredo non è da meno. Infatti, lungi dall’essere mosso da affetto filiale, si reca dalla madre solo per realizzare uno scoop giornalistico: raccontare in un libro-verità la morte di lei. Regina non tarderà a scoprirlo e non gliela darà vinta.
Carceriera e custode del suo “sciupato” cinquantenne, mostro ed angelo della sua vita, poco alla volta, Regina ribalta i ruoli: Alfredo, che era venuto dalla madre malata, si scopre lui stesso un malato bisognoso delle cure materne. Quel ritorno alla casa materna, si svela per lui, infatti, un ritorno alle origini delle sue insicurezze, della sua difficoltà di emergere come giornalista, del naufragio del suo matrimonio. Aprire la porta della casa della mamma vuol dire per Alfredo scoperchiare un vaso di Pandora, da cui fuoriescono inquietudini e spettri che si aggirano in paesaggi solo apparentemente radiosi (gli scogli baciati dal sole e le stanze grandi e misteriose della vecchia casa di famiglia). In quei fantasmi, portati a galla dalle allucinazioni della madre, Alfredo è, in realtà, sempre il marcio, specie a confronto del padre, dipinto dalla mamma come “un eroe”, così da far dire ad Alfredo, con ironia e rassegnazione: “Sono figlio di un Dio greco, ma non ho preso da lui”. 
Eppure, quei ricordi allucinati hanno un che di magico: mentre li rivivono, le due carni di madre e figlio si scoprono sempre più fatalmente intrecciate, come i fili del golfino che Regina si ostina a tessere per Alfredo con tentacolare premura, non dandogli tregua neppure nel sonno (lo sveglia all’una di notte per verificare che il golf sia della misura giusta).
L’intreccio tra Regina e Alfredo sembra, infine, condensarsi tutto nella torta di compleanno impastata dalle mani generalesche della mamma, l’unica persona a ricordarsi dei cinquant’anni del figlio, l’unica a preparare con le sue mani il golfino per lui. Quella torta, segno beffardo di un grembo materno che non possiamo cancellare, sembra il dolce-sigillo dello scrigno di Pandora e della prigione di Alfredo, dove ormai la commedia, grazie alla sapiente regia di Antonello Avallone, ha magicamente trascinato lo spettatore.
E mentre il sipario cala e i riflettori si spengono sui due corpi di madre e figlio abbracciati sul letto, sembra di sentire ancora le note di Bennato: “Viva la mamma/ Viva la favola degli anni Cinquanta/ Così lontana eppure così moderna/ E così magica”.

Gli spettacoli hanno inizio alle ore 21. 


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