domenica 15 giugno 2014

L'incipit della domenica - James G. Ballard, Crash

Come saranno gli ultimi uomini? Sempre meno umani, risponde Ballard - e sempre meno distinguibili dalle macchine. Organico e inorganico sono permeabili l'uno all'altro. Computer e automi si umanizzano; gli uomini - privi di emozioni, asettici, composti e afoni - si meccanizzano. Non è un caso che David Cronenberg (il Cronenberg prima maniera), profeta della nuova carne, abbia tratto uno dei suoi film migliori proprio dal romanzo dell'inglese.
Trasformazioni: dell'umano, e degli impulsi primari che mossero l'uomo per millenni: Amore e Morte. In Crash l'Amore degenera nel sesso, ricercato inconsciamente e spasmodicamente quale tentativo di smuovere gli ultimi barbagli di passione; la Morte in necrofilia, come spettacolo compiaciuto proprio della fine d'ogni passione.
Amplessi su autovetture lanciate a velocità folli verso il nulla; incidenti rovinosi; cicatrici; mutilazioni; duelli; configurazioni di rottami e corpi; tableau in cui il metallo e la carne si struggono l'uno nell'altro: Crash si compone di questi quadri, osservati con freddezza glaciale, e sublimati, tuttavia, da una lingua a tratti turgida e ricca di metafore.
La fine dell'umanità - annuncia Ballard - non sarà annunciata da trombe apocalittiche; non avverrà nelle piane della Gehenna; troverà luogo fra le aree globalizzate delle megalopoli, fra aeroporti e stazioni e autonoleggi d'ultima generazione, al limitare delle centrali dello svago e della vacanza - non luoghi ritagliati dai rettifili di autostrade che ci collegano, inutilmente e sempre più velocemente, gli uni con gli altri.

Vaughan è morto ieri nel suo ultimo scontro. Nel corso della nostra amicizia, aveva fatto le prove della sua morte in molti scontri, ma il suo ultimo è stato proprio e semplicemente un incidente — l'unico. Guidata in rotta di collisione verso la berlina dell'attrice cinematografica, la sua macchina ha saltato il parapetto del cavalcavia dell'Aeroporto di Londra ed è precipitata, sfondandolo, sul tetto di un autobus carico di passeggeri delle linee aeree. Quando, un'ora più tardi, mi sono aperto la strada fra i tecnici della polizia, i corpi schiacciati dei turisti del tutto-completo giacevano ancora sui sedili vinilici, come un'emorraggia del sole. Reggendosi al braccio dell'autista, l'attrice cinematografica Elizabeth Taylor, con la quale Vaughan aveva per tanti mesi sognato di morire, stava sola sotto il lampeggìo circolare delle ambulanze. Quando mi sono chinato sul corpo di Vaughan, s'è portata alla gola una mano guantata.
La posizione di Vaughan le aveva forse rivelato il tipo di morte da lui escogitato per lei? Nelle ultime settimane di vita, Vaughan non aveva pensato ad altro che alla morte di lei, a quell'incoronazione di ferite da lui in-scenata con la devozione di un conte del Collegio d'araldica. Le pareti del suo appartamento presso gli studi cinematografici di Shepperton erano tappezzate di foto da lui scattate con lo zoom ogni mattina — ora dai ponti per pedoni delle autostrade dirette a ovest, ora dal tetto del parcheggio a più piani degli studi — dell'uscita di lei dall'albergo londinese. I particolari ingranditi delle ginocchia e delle mani di lei, dell'interno delle cosce e dell'apice sinistro della bocca, glieli preparavo io, con disagio, servendomi della copiatrice dell'ufficio; e quei pacchetti di foto stampate che gli consegnavo mi sembravano frammenti di un'ordinanza di morte. Nel suo appartamento, lo osservavo combinare i particolari del corpo di lei alle ferite grottesche riprodotte da un manuale di chirurgia plastica.
Nella sua visione di uno scontro automobilistico con l'attrice, Vaughan era ossessionato dal numero e dalla ripetizione di ferite e impatti — dal cromo morente e dal cedimento delle paratie antiurto delle due auto scontrantisi frontalmente in collisioni complesse che si ripetevano all'infinito come in una sequenza al rallentatore; dalle ferite identiche inflitte ai due corpi; dall'immagine del parabrezza frantumantesi come ghiaccio attorno al viso di lei nell'istante in cui essa ne sfondava la superficie oscurata come un'Afrodite emergente dalla morte; dalle fratture multiple delle cosce nel momento dell'impatto contro la leva del freno a mano, e, soprattutto, dalle ferite ai genitali di entrambi: l'utero di lei trafitto dal becco araldico dello stemma del fabbricante, il seme di lui sparso fino all'ultima goccia sulle scale luminose registranti in eterno la temperatura e il livello definitivi dei carburanti.

Solo in questi momenti, nel descrivermi quello che doveva essere il suo ultimo scontro, appariva calmo. Delle ferite e delle collisioni parlava con la tenerezza erotica di un amante a lungo separato dall'amata. Nel frugare tra le foto del suo appartamento, si teneva mezzo girato verso di me, e il suo inguine grave, dal profilo di pene semieretto, m'acquetava. Perché Vaughan sapeva che, fin quando mi avesse provocato col suo sesso, del quale usava con la trascuratezza di uno pronto a sbarazzarsene per sempre in qualunque momento, io non lo avrei mai lasciato...
Dieci giorni fa, rubandomi la macchina dal garage sotto il mio appartamento, aveva risalito a cozzi la rampa di cemento, come una macchina omicida scagliata fuori da una trappola. Ieri il suo corpo giaceva sotto le luci ad arco della polizia ai piedi del cavalcavia, velato da un delicato rabesco di sangue. La positura spezzata di gambe e braccia, l'insanguinata geometria del viso, sembravano parodiare le istantanee di ferite da scontri di cui erano tappezzate le pareti del suo appartamento. Ho abbassato lo sguardo per l'ultima volta sul suo inguine enorme, intriso di sangue. Venti metri più in là, illuminata dai fari circolari, l'attrice stava come librata sul braccio dell'autista. Vaughan aveva sognato di morire nell'istante dell'orgasmo di lei.

Prima della sua morte, Vaughan aveva preso parte a numerosi scontri. Quando penso a lui, lo vedo nelle macchine rubate che guidava e sfasciava, superfici di metallo e plastica deformati che l'hanno abbracciato per sempre. Due mesi prima l'avevo trovato sul ponte inferiore del cavalcavia dell'aeroporto, dopo la prima prova della sua morte. Un tassista stava aiutando due hostess intontite a uscire da una piccola auto che Vaughan aveva tamponato sbucando da una galleria di una rampa d'accesso dove s'era tenuto in agguato. Mentre mi avvicinavo di corsa a lui, lo vidi attraverso il parabrezza frantumato della decappottabile bianca presa al parcheggio del Terminal Oceanico. La sua faccia esausta, dalla bocca sfregiata, era illuminata da arcobaleni spezzati. Strappai la porta ammaccata dai gangheri.
Lui, seduto sul sedile cosparso di vetro, era intento a studiare, con sguardo compiaciuto, la propria posizione. Le sue mani, le palme all'insù accosto ai fianchi, erano coperte del sangue dei ginocchi fratturati. Esaminate le macchie di vomito sui risvolti della giacca di cuoio, si piegò in avanti per toccare i globi di seme appiccicati alla chiesuola del cruscotto. Cercai di estrarlo dalla macchina, ma le sue natiche strette erano come saldate insieme, quasi irrigidite nello sforzo di espellere le ultime gocce di fluido dalle vescicole seminali. Sul sedile accanto, le foto strappate dell'attrice cinematografica che gli avevo riprodotto la mattina stessa nel mio ufficio. Sezioni ingrandite di labbro e sopracciglio, gomito e solco fra i seni, formavano un mosaico spezzato.

Per Vaughan, scontro automobilistico e sessualità s'erano uniti in un matrimonio definitivo. Lo ricordo nelle notti con giovani donne nervose, sui sedili posteriori schiacciati di auto abbandonate in depositi di sfasciacar-rozze, e ricordo le foto di lui e di loro nelle varie posizioni di atti sessuali malagevoli. Illuminate dal flash della sua Polaroid, facce tirate e cosce tese sembravano quelle di superstiti di una catastrofe sottomarina. Quelle aspiranti puttane, che egli incontrava nei caffè notturni e nei supermercati dell'Aeroporto di Londra, erano le prime cugine delle pazienti che apparivano nelle illustrazioni del suo manuale di chirurgia. Durante lo studiato corteg-giamento di donne vittime di incidenti, Vaughan era ossessionato dai bulloni di infezioni anaerobiche e dalle ferite facciali e genitali.
Per il suo tramite venni a scoprire il vero significato dello scontro auto-mobilistico, il senso delle ferite da colpo di frusta e da cappottaggio, le estasi degli scontri frontali. Insieme visitammo il Road Research Laboratory a una trentina di chilometri da Londra, e osservammo i lanci di veicoli calibrati contro blocchi di cemento. Dopo le visite, nel suo appartamento, Vaughan proiettava film al rallentatore di collisioni sperimentali da lui fotografate con la cinepresa. Seduti nel buio sui cuscini da pavimento, osservavamo gli impatti silenziosi succedersi tremolanti sulla parete davanti a noi. Le ininterrotte sequenze di schianti prima mi calmavano, poi mi eccitavano. Guidando solo sull'autostrada sotto la vampa gialla delle luci al sodio, mi immaginavo al comando di quei veicoli lanciati allo schianto.
Nei mesi seguenti, Vaughan e io passammo molte ore al volante, sulle superstrade del perimetro settentrionale dell'aeroporto. Nelle tranquille serate estive, questi viali a scorrimento veloce diventavano teatro di scontri da incubo. L'orecchio ai bollettini della polizia captati dalla radio di Vaughan, filavamo da un luogo d'incidente all'altro. Spesso ci fermavamo sotto le luci ad arco illuminanti i punti d'incidenti maggiori, e osservavamo pompieri e tecnici della polizia adoperarsi, con torce ad acetilene e paranchi, a estrarre mogli svenute dai sedili accanto a quelli dei mariti morti, o qualche medico di passaggio prodigarsi su un moribondo rimasto sotto un camion ribaltato. A volte Vaughan veniva spinto indietro da altri spettatori, e si batteva per le sue macchine fotografiche con gli addetti alle ambulan-ze. Ciò che più si augurava erano gli scontri frontali coi pilastri di cemento dei sovrappassi dell'autostrada — il melanconico congiungimento tra un veicolo sfasciato e abbandonato sul ciglio erboso e la serena scultura mobile del cemento.
Una volta fummo i primi a raggiungere la macchina sfasciata di una donna. Costei, una cassiera di mezz'età del reparto liquori del duty-free shop dell'aeroporto, sedeva malconcia nell'abitacolo schiacciato, la fronte confitta di frammenti scuri di parabrezza — come gioielli. All'avvicinarsi di un'auto della polizia, la luce d'emergenza pulsante lungo l'autostrada in-tasata, Vaughan corse a cercare macchina fotografica e flash. Io mi tolsi la cravatta e mi misi, impotente, alla ricerca delle ferite della donna. Lei, stesa di fianco sul suo sedile, mi fissava senza parlare. Il sangue le irrigava la blusa bianca. Quando ebbe finito di fotografarla, Vaughan s'inginocchiò nell'auto e, prendendole delicatamente il viso tra le mani, le sussurrò qualcosa all'orecchio. Poi, insieme, aiutammo a caricarla sul lettino dell'ambu-lanza.
Nel ritornare all'appartamento, Vaughan riconobbe una puttana dell'aeroporto nella piazzola di un ristorante dell'autostrada — una tizia che lavorava anche qualche ora come maschera in un cinema e che era perennemente preoccupata per il cattivo funzionamento dell'apparecchio acustico del figlioletto. Seduta alle mie spalle con Vaughan, la tizia si lamentava della mia guida nervosa, ma lui ne osservava i movimenti con sguardo distaccato, quasi incoraggiandola a gesticolare con mani e ginocchi. Sul tetto deserto di un parcheggio a più piani di Northolt, fermai presso la balaustra. Sul sedile posteriore, Vaughan dispose la donna nella posizione della cassiera morente. Il corpo forte di lui, chino su quello di lei nella luce riflessa degli abbaglianti di passaggio, assunse una serie di pose stilizzate.
Vaughan mi svelò tutte le sue ossessioni in materia di misterioso erotismo delle ferite: la logica perversa dei cruscotti intrisi di sangue, delle cinture di sicurezza spalmate di escrementi, dei parasole bordati di materia cerebrale. Per lui, ogni auto schiantata era causa di un tremore d'eccitazione: eccitazione per le complesse geometrie di un paraurti ammaccato, per le variazioni inattese di una griglia del radiatore schiacciata, per la grottesca sporgenza di un pannello di strumentazione contro l'inguine d'un guidatore, simile a un calibrato atto di fellatio meccanica. L'intrico di lame cromate e cristallo infranto rappresentava per lui la fossilizzazione eterna del tempo e dello spazio intimi di un individuo.

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