mercoledì 25 giugno 2014

Hubert Mingarelli, Un pasto in inverno

Hubert Mingarelli, Un pasto in inverno
Edizioni Nutrimenti, pp. 109, euro 12

Patrizia Vincenzoni

Tre soldati, una palestra che ha perduto la propria funzione originaria, la sporcizia che si immagina guadagnare terreno sui corpi degli uomini costantemente  avvolti dalle divise diventate come una seconda pelle, un nuovo organo, una escrescenza che corrompe non solo la superficie esterna  dei corpi, ma modifica  il modo di pensare di sentire  di percepire e di camminare.  Stivali calzati da piedi ormai tutt'uno con essi, dei quali si intuiscono vesciche e cattivo odore. Occhi stanchi, arrossati, sanguigni di una passione smorta che cerca di sostenere una stanchezza inenarrabile, che si aggancia ad una abiezione morale dalla quale immaginare comunque di poter fuggire, senza riuscire a farlo. Freddo. Un freddo che corrompe le ossa, la stabilità, non solo fisica, che diventa una coltre di gelo sulle cose, sulla natura che si nasconde e si offre come un deserto ghiacciato e impenetrabile. Questo lo scenario con il quale entriamo in contatto, ben reso da Hubert Mingarelli, autore di questo breve romanzo scritto con una prosa essenziale capace di accennare all'orrore della guerra che, mai sazia, partorisce altri orrori. Scenari che si ripetono,  diversi soltanto nella geografia dei luoghi, perché le guerre si somigliano tutte, cosi come i soldati che ne fanno parte.  Un pasto in inverno ci conduce in Polonia, durante la seconda guerra mondiale, all'interno di un campo militare tedesco dove, quotidianamente, vengono sterminati, attraverso la fucilazione, gli ebrei fatti prigionieri. Per sfuggire al compito di far parte del battaglione che quel giorno avrebbe compiuto la carneficina, tre soldati riescono a ottenere dal comandante il permesso di andare in missione all'esterno del campo, piuttosto che partecipare alla carneficina quotidiana. E, prima dell'alba, senza rancio, escono e s'incamminano entro un paesaggio reso spettrale non solo dal gelo, ma anche dalla situazione che i dialoghi, molto incisivi e senza sbavature retoriche, riescono a rendere. In un solo giorno Emmerich, Bauer e l'altro, colui che narra, percorrono un anello di territorio alla ricerca di possibili prigionieri, per rendere credibile la giornata in perlustrazione cosi da poter ottenere un'altra tregua dalle sessioni di  fucilazione. Riescono a trovare un giovane ebreo, nascosto in un buco coperto dalla neve, grazie alla precisione, drammatica, dello sguardo di Emmerich.

Spinti dalla fame e dal freddo entrano in una casa abbandonata, nella quale si imbattono dopo aver superato un filare di alberi. La demolizione degli arredi in legno e soprattutto la preparazione del pasto rimediato è una lunga sequenza narrativa e la scrittura di Mingarelli ci catapulta direttamente in quell'ambiente, ci fa percepire senza filtri l'esperienza estrema che gli uomini vivono, la disperata condizione che rende paradossale e impossibile l'affermazione  di atteggiamenti che potrebbero fare posto a sentimenti e pensieri che possono convergere verso quello che ci rende umani.
Il pensiero che Emmerich rivolge al figlio, così come i ricordi e i particolari della vita assieme, e poi la preoccupazione angosciata per quello che potrebbe nuocergli, diventa sempre più una difesa e un meccanismo di negazione rispetto alla realtà traumatica  di cui si fa parte. La figura di questo soldato riesce comunque a produrre un dilemma, un'interrogazione che certamente non riesce a oltrepassare  la blindatura entro la quale gli altri due sentono di dover restare, proteggendosi, eclissando la consapevolezza di essere al mondo, per cercare di corrispondere quanto più 'impersonalmente' solo a ciò che gli si impone, per quanto insostenibile sul piano dell'esperienza personale.
Questo chiudersi difensivamente in un isolamento senza fondo che riusciamo a misurare tanto è percepibile, appare ancor più intenso dopo un'esperienza fatta con alcuni prigionieri ebrei durante la quale i tre soldati avevano permesso alla propria umanità d'incontrare quello dell'altro e, quindi, la propria. Allora, riuscire a non  fare nulla che assomigli alla vita, stare lontano da tutto ciò che può diventare straziante 'ricordo di', memoria e traccia di sé intollerabili da sostenere, da articolare con il resto della propria esistenza, diventa il bisogno principale, dal quale non riescono a derogare.

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