domenica 18 maggio 2014

L'incipit della domenica - Detti intorno alla natura delle femmine (Proverbia quae dicuntur super natura feminarum)

Sotto il titolo Veneto, 1152-1160, ecco Giampaolo Dossena, nel primo volume della sua Storia confidenziale della letteratura italiana, presentare il poemetto:
“In terra veneta, in terre orientali della Valpadana ... si colloca ... un poemetto di cui ci sono pervenuti 756 versi ... il titolo è latino ... ma il testo ... è in un neo-latino d'Italia ... vale veramente la pena di leggere per intero questo poemetto, per la sua durezza, per la sua violenza. È un testo apertamente misogino, dettato da un odio tradizionale per le donne ... Le donne qui sono viste come una razza diversa dalla nostra, di noi uomini ... La misoginia è una tradizione vecchia e salda; in anni di poco anteriori al 1152-1160 è stato molto diffuso un poemetto intitolato Chastiemusart, ammaestramento dello stolto, altrettanto misogino …”.
Dopo una prolusione generale, l’autore (anonimo) dei Proverbia presenta le donne malvagie della storia: ingannatrici, fedifraghe, false (Eva, Didone, Elena, Medea, Pasifae …); quindi passa ai proverbi veri e propri: qui abbondano le metafore tratte dai bestiari, le sentenze popolari, gli accenni a una religiosità superstiziosa e tradizionale: lo stile del neolatino si gonfia, perciò, di quella forza espressiva plumbea e apodittica propria dell’Italia più profonda, quella della provincia contadina; lo stesso Dossena, ad esempio, rimane colpito dai versi 581-588, e osserva come il succo concettuale di tali righe (“mozzafiato”) l’avesse ritrovato, otto secoli dopo (inverno 1944-1945), nelle parole di un carrettiere:

Fate attenzione alle bestie: non si lasciano coprire
se son gravide, lo potete ben vedere:
anzi se il maschio le vuole comunque montare
lo feriscono a calci e lo mordono e cercano di fuggire
Ma ciò non lo fanno le donne: anche se hanno un bimbo nel ventre,
non hanno affatto cura di Dio né vergogna di niente;
allora vogliono che l’uomo batta di più il loro ventre [nell’amplesso];
nella loro follia pensano che la gente non lo saprà

(Poné ment a le bestie: no se lasa covrire
dapoi q'ele son plene, ben lo podé vedere,
avanti, se lo mascolo la vol unca sagire,
 fer-lo de li pei e mordelo e briga de fuçire.

Mai ço no fai le femene: anc abia fant en ventre,
de Dieu n'à ponto cura ni vergonça nïente;
enlora vol qe l'omo plui li bata lo ventre;
en soa fulia se pensa no lo savrà la çente)

Fra il 1152 e il 1944 passano, come detto, ottocento anni; solo il mondo ciclico delle campagne, irrigidito in gesti millenari, poteva conservare intatto, nella ferocia, tale sentire.
I Proverbia sono, ovviamente, un capolavoro, come la quasi totalità della letteratura italiana delle origini; così come avverrà poi nel Seicento inglese (l’età di Marlowe, Shakespeare, Donne, Webster), a quel tempo nulla era davvero codificato e numerosi fabbri, poeti e prosatori, erano liberi di forgiare la lingua a loro piacimento, senza inciampi formali.
Il passato gigantesco della latinità si disfaceva lentamente; nuovi idiomi, screziati da centinaia di dialetti, insorgevano; la ragione non aveva scacciato ancora la favola e la poesia era, perciò, possibile. L’Italia si preparava a divenire il centro culturale del mondo. [glc]

La traduzione è di G. Bonghi e C. A. Mangieri.
Il testo completo (in neolatino e italiano) può trovarsi qui:

Proverbia quae dicuntur super natura feminarum
Buona gente, cercate di capire perché ho scritto questo libro: l'ho composto in rima per le femmine malvagie, quelle che verso gli uomini non osservano il patto convenuto, (quelle) che ritengono più folle e matto chi più fedelmente le serve.

Sappiate che queste cose non vengono dettate per ogni donna, giacché credo che ve ne siano molte a cui non piacciono queste critiche: le buone si rallegrano di queste rime giuste, e le cattive, quando le odono, restano addolorate e tristi.

Mai da parte di femmina buona, saggia, pura e cortese saranno riprovate queste rime veraci: se le donne per bene le ascoltano, quando le avranno capite loderanno senza dubbio chi le ha composte e scritte.

Varrebbe più una donna senza difetti ed inganni che il tesoro indiano del Prete Gianni: chi potesse trovare una tal femmina ogni giorno dell'anno, anche se la pagasse a peso d'oro fino non ne avrebbe danno.


Frumento e gramigna non nascono dalla stessa semenza, non tutte quelle che si chiamano 'città' sono dello stesso splendore: tra una donna e l'altra c'è una differenza più grande che tra il Tigri e il fiume di Renza.

Sapiente è il mago che doma il drago, e chi trovasse un pruno che portasse pomi di ambra — questa è parola verace, giusta e somma — (questo pruno) varrebbe quanto il tesoro del Papa di Roma.

Non si può trovare una medicina che resusciti i morti o un fiore siffatto che mondi i lebbrosi, ma se qualcuno potesse trovarli varrebbero una massa d'oro più grande delle montagne della terra di Serbia.

E questo sappiate in verità, signori: chi ama appassionatamente una donna si pente molto tardi. Difficilmente saprebbe dire qualcosa dell'amore quell'uomo che non ama e non prova amore.

Ma chi sente il travaglio e la pena dell'amore, e ben medita su come portano e causano il gaudio e la letizia, e quale forte catena rappresentano, giammai amerebbe né contessa né regina

Ma quando l'uomo è scottato da fiamma (d'amore) molto ardente, è folle se brama ancora di giocare col fuoco. Le femmine mi hanno tanto raschiato via la pelle dal dorso, che mai del loro amore avrò passione o brama.

Per vera fama sono nobile e fine poeta: ne la mente né il cuore mi si commuovono per amore, non biasimo nessuno per odio, né lodo per amore, né smetto di dire il vero già per timore.

Checché gli altri facciano, parlare o tacere, io tuttavia parlerò, chiunque se ne debba spiacere, giacché ben l'ho inteso dire nei proverbi: per realizzare il suo desiderio, l'uomo deve soffrire molto.

La mia opera fu avviata nel mese di marzo, quando fioriscono gli alberi, l'erba verde compare nei prati e negli orti, l'estate si approssima e la temperatura si addolcisce, si accorciano le notti e crescono le giornate.

Una mattina mi levai con la stella diana: entrai in un giardino che era accanto a un fiume ed era pieno di fiori più profumati del carminio; mi coricai sui fiori nei pressi di una fontana.

Dio, com'era ripieno di grande splendore questo giardino, di belle erbe odorose e fiori di biancospino e di usignoletti che berciavano nel loro latino! Il merlo e il tordo cantavano su I pino.

Mentre mi riposavo sopra i fiori odorosi, mi venne un pensiero che mi turbò la mente: com'è fraudolento l'amore delle femmine, come trattano in modo indegno gli uomini che si fidano di loro;

E quanto sono false, piene di tradimento, e mai si ritengono dal far cosa che sia malvagia. Ora dirò qualcosa circa la loro malvagità, affinché gli uomini si guardino dai loro trucchi.

Signori, se mi state a sentire, vi farò un discorso: se lo volete ascoltare e capirne la ragione, vi troverete molti esempi simili a quelli che si trovano in Catone, in Ovidio, in Panfilo e in Tullio Cicerone.

Ritengo assai folle chi si mette ad amare: ne vedo molti che per amore cascano nei debiti ; esse prendono senza ricambiare e ingannano i sempliciotti: perciò considero insensati quelli che si mettono con loro.

Sappiate che di una cosa mi meraviglio molto, ragion per cui ci penso tutto il giorno e la notte mi sveglio: come può un uomo credere alle parole o al consiglio di una femmina che si tinge di bianco o di vermiglio.

L'amore della donna è dato a molti uomini: quando l'uomo affida loro il cuore, non può andare avanti senza una di esse. Smettete di amarle: fate buon viso a ciascuna, perché allo stesso modo è viziata la vecchia come la giovane.

Non c'è cosa al mondo così forte né così grave, né che si trovi scritta in un libro o in un breve (papale), che non sia lieve per gli uomini se piace alle donne: sono più piene di arti malefiche le donne che le Alpi di neve.

Nel primo cominciamento Eva ingannò Adamo, come fece la moglie di Salomone sotto un ramo; Elena se ne scappò con Paride presso il re Priamo; ed ho sentito la diceria di quel che fece (la moglie) al re Carlo.

Tu hai udito come fu ingannato Sansone: mentre egli dormiva, la moglie gli tagliò i capelli, che gli davano la forza, come ho trovato per scritto; lo tradì ai Filistei, e quelli lo hanno accecato.

Da lungo tempo è tramandato ciò che la regina Pasifae fece col toro: ben lo troviamo scritto; perché ella commise un atto così profondamente proibito, nacque un essere mezzo uomo e mezzo toro: e ciò fu un atto di giustizia.

E la libica Didone, che regnò in Tiro e poi in Cartagine, come ho sentito dire, prima che il marito andasse a morire in Persia gli giurò che non avrebbe mai avuto altro uomo.

Com' essa si tenne a freno l'ho trovato per scritto, ché di quel giuramento subito divenne spergiura: quando giunse a Cartagine il duca Enea, senza ogni indugio si abbandonò a lui.

La storia racconta quel che fece Aurisia, come essa giurò al marito e non tenne fede, perché lo trasse dalla tomba e l'amante lo appese [a una croce]: di quel reo spergiuro rise ogni Romano.

Medea, figlia del re di Mitilene, per amore di Giasone condusse il fratello a brutta fine, perché lo fece fare a pezzi e gettare fra le spine, poi fuggì con l'amante per le acque del mare.

Eppoi essa uccise con le sue arti magiche Giasone, e io non trovo chi mi dica quale via essa prese. Voi che leggete questo scritto, da soli o in pubblico, guardatevi dalle donne, perché esse sono vaie e grigie [ossia lunatiche].

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