domenica 20 aprile 2014

L'incipit della domenica - Jack London, Il tallone di ferro

E chi l'avrebbe detto? Nel pieno del trionfo delle democrazie liberali Il tallone di ferro sta tornando d'attualità. Goffredo Fofi definì l'opera "la bibbia popolare del socialismo scientifico"; socialismo rivoluzionario, ovviamente.
Lev Trotzskij, nel 1937, scrisse del libro: "Niente colpisce maggiormente nell'opera di Jack London che la sua previsione veramente profetica dei metodi che il Tallone di Ferro [il capitalismo] userà per mantenere il suo dominio sull'umanità calpestata. London si impone decisamente libero dalle illusioni riformiste e pacifiste, Nel suo quadro dell'avvenire non lascia assolutamente sussistere nulla della democrazia e del progresso pacifico. al di sopra delle masse dei diseredati s'innalzano le caste dell'aristocrazia operaia, dell'armata pretoriana, dell'apparato poliziesco onnipresente e dell'oligarchia finanziaria che corona l'edificio".
Il tallone di ferro (The iron heel), scritto nel 1908, rallegrò le biblioteche socialiste e comuniste, ma anche quelle fasciste del ventennio mussoliniano. Nello scritto si ritrovava la volontà che si ribella all'ingiustizia sociale attraverso la forza - la forza come slancio vitale da celebrare.
Comunisti, fascisti, populisti. Lasciamo a voi di capire cosa si agita oggi in Europa e nel mondo; chi sia il Tallone di ferro e chi vi si oppone. E perché London tornerà di moda.

Jack London
La brezza leggera dell'estate agita le sequoie e la Wild Water si frange con ritmiche cadenze contro le pietre muscose. Ci sono farfalle nel sole, e dovunque si leva il sonnolento ronzio delle api. C'è tanta pace e silenzio e io me ne sto qui, inquieta, a pensare. E' questa pace a rendermi inquieta: mi sembra irreale.
Una quiete profonda, ma è la quiete che precede la tempesta. Tendo dunque l'orecchio, e tutti i sensi, al primo segnale della tempesta imminente. Purché non sia prematura. Purché non scoppi troppo presto.
Sono inquieta con ragione. Penso, penso continuamente, è piú forte di me. Ho vissuto così a lungo nella mischia che la pace e la quiete mi opprimono e non posso impedirmi d'indugiare col pensiero su quel turbine di devastazione e morte che presto si scatenerà.
Già odo le grida delle vittime, già vedo, come nel passato, tanta bella e preziosa carne falciata e mutilata, tante anime strappate a forza dai loro nobili corpi e lanciate verso Dio. E' così che noi povere creature umane raggiungiamo i nostri scopi; solo attraverso stragi e distruzioni riusciamo a portare pace e felicità durature sulla terra!
Sì, sono sola. Quando non penso a quel che sarà, penso a quel che è stato, a ciò che non è più: alla mia Aquila, che batte l'aria con le ali instancabili, librandosi in eterno verso il suo sole, l'ideale radioso della libertà umana. Non saprei starmene inerte ad aspettare il grande avvenimento di cui lui è l'artefice, anche se non sarà presente al momento. Vi dedicò interi gli anni della sua vita, lo pagò con la vita. E' opera sua. Lo rese lui possibile.
Perciò, in simile ansiosa attesa, ho deciso di scrivere di mio marito. Io soltanto tra tutti potrò far luce sulla sua personalità, una personalità tanto nobile che tuttavia non sarà mai abbastanza nota. Era un'anima grande e, quanto il mio amore è scevro da ogni egoismo, il mio rammarico più grande è che lui non sia più qui ad assistere all'alba di domani. Non possiamo fallire: le basi che lui ha gettato sono troppo solide, troppo sicure.
Strapperemo via dal petto dell'umanità schiacciata il maledetto Tallone di Ferro. Al segnale della riscossa, le legioni dei lavoratori di tutto il mondo insorgeranno, e nella storia non si sarà mai visto nulla di simile. La solidarietà delle masse lavoratrici è assicurata, e per la prima volta scoppierà una rivoluzione internazionale, vasta quanto il mondo.
Sono, chiaramente, talmente presa da ciò che ci aspetta, che da tempo ormai vivo giorno e notte, sin nei minimi particolari, il grande avvenimento; anzi, non riesco a pensare a mio marito senza pensare a esso. Lui ne fu l'anima, come potrei separare le due cose nei miei pensieri?


Come ho detto, posso fare molta luce sulla sua personalità. Tutti sanno che ha lavorato molto, e penato ancor più, per la libertà; ma nessuno può saperlo meglio di me, che ho condiviso la sua vita in questi venti anni di ansia, e ho avuto modo di apprezzare la sua pazienza, il suo sforzo incessante, la sua totale dedizione alla causa per la quale, appena due mesi fa, è morto.

Cercherò di raccontare in tutta semplicità in che modo Ernest Everhard entrò nella mia vita: come lo conobbi, come finii col diventare parte di lui, quali profondi cambiamenti portò nella mia vita. In tal modo potrete guardarlo attraverso i miei occhi e apprendere di lui ciò che appresi io: tutto, salvo le cose troppo intime e dolci perché io possa ridirle.
Lo vidi per la prima volta nel febbraio del 1912. Era stato invitato a pranzo da mio padre, e devo dire che quando varcò la soglia di casa nostra a Berkeley, non mi fece un'impressione del tutto favorevole. Avevamo molta gente a pranzo e il suo ingresso nel salotto in cui aspettavamo l'arrivo degli ospiti fu abbastanza imbarazzante. Era la sera dei "predicatori", come diceva mio padre in famiglia, e Ernest non era certamente al suo posto tra quella gente di chiesa.

Tanto per cominciare, era mal vestito. Portava un completo di panno scuro, confezionato, che gli cascava addosso. In realtà, neppure in seguito riuscì mai a trovare un abito che gli andasse bene. Anche quella sera, come sempre, a ogni movimento che faceva i muscoli aggrinzivano la stoffa e, per via dell'ampio torace, dietro le spalle la giacca faceva una quantità di pieghe. Aveva il collo d'un campione di pugilato, grosso e robusto. E così questo è il filosofo sociale, ex maniscalco, scoperto da mio padre, mi dissi. Con quei bicipiti e quel collo, ne aveva tutta l'aria infatti. Lo giudicai immediatamente una specie di prodigio, un Blind Tom della classe operaia.
Quando poi mi diede la mano, la sua fu una stretta forte e sicura.
I suoi occhi neri mi fissarono con ardire - un po' troppo ardire, mi parve. Ero nata e cresciuta in quell'ambiente, infatti, e a quel tempo avevo un istinto di classe molto sviluppato. Tanto ardire in un uomo del mio stesso livello sociale mi sarebbe risultato più o meno imperdonabile; fui dunque costretta ad abbassare gli occhi e fu con vero sollievo che tirai oltre per andare a salutare il vescovo Morehouse, uno dei miei prediletti, un uomo di mezza età, serio, dolce, dall'aspetto mite di un Cristo e, inoltre, un vero erudito.
Ma quell'ardire, che attribuii a presunzione, era quanto mai rivelatore della vera personalità di Ernest Everhard: era semplice, diretto, non aveva paura di niente e si rifiutava di perdere tempo con le convenzioni. "Mi piacesti subito", mi rivelò molto tempo dopo. "Perché dunque non avrei dovuto riempirmi gli occhi di ciò che mi piaceva?". Ho appena detto che non aveva paura di niente. Era un aristocratico autentico, anche se di fatto combatteva l'aristocrazia; un superuomo, l'essere biondo descritto da Nietzsche (8), e pur tuttavia un ardente democratico.
Impegnata a ricevere gli altri invitati, e forse anche per la cattiva impressione riportata, dimenticai quasi completamente il filosofo della classe operaia. In seguito, però, a tavola, attirò di nuovo un paio di volte la mia attenzione. Stava ascoltando i discorsi dei reverendi e nei suoi occhi notai un lampo divertito.
Ha il senso dell'umorismo, pensai, e quasi gli perdonai quel modo goffo di vestire. Intanto il tempo passava; il pranzo era inoltrato e lui non aveva aperto bocca neppure una volta mentre i reverendi discutevano animatamente della classe operaia e dei suoi rapporti con la chiesa e di ciò che questa aveva fatto e ancora faceva per essa. Notai che mio padre era seccato di quel suo silenzio e a un certo punto, profittando di un attimo di calma, gli chiese quale fosse la sua opinione. Ernest si limitò a scrollare le spalle e, dopo un secco "Non ho niente da dire", riattaccò a masticare mandorle salate.
Ma mio padre non si dava facilmente per vinto e, dopo qualche istante, disse: "Abbiamo tra noi un rappresentante della classe operaia. Sono sicuro che potrebbe presentarci le cose da un punto di vista nuovo e interessante. Alludo al Signor Everhard".
Tutti si mostrarono subito cortesemente interessati e sollecitarono Ernest a esporre le sue idee; ma il loro era un atteggiamento così chiaramente benevolo e tollerante da sembrar quasi condiscendenza. Mi accorsi che anche lui lo aveva notato, e ne era divertito. Girò lentamente lo sguardo sui convitati e in quei suoi occhi neri vidi un lampo di malizia.
"Non sono tagliato per le cortesi discussioni degli ecclesiastici", esordì poi, con tono modesto. Quindi esitò.
Si levarono alcune voci d'incoraggiamento: "Continui, continui". E il dottor Hammerfield aggiunse:
"Non temiamo la verità, da chiunque sia detta in buona fede".
"Lei dunque distingue tra verità e sincerità?" ribatté vivacemente Ernest con un sorriso.
Il dottor Hammerfield rimase un attimo perplesso, quindi balbettò:
"Anche il migliore di noi può sbagliare, giovanotto, anche il migliore".
All'improvviso, Ernest parve cambiare. In un attimo, sembrò un altro uomo.
"Bene, allora comincerò col dirvi che v'ingannate, tutti. Della classe operaia voi non sapete un bel niente. La vostra esperienza sociale è falsa e priva di valore come il vostro modo di ragionare".
Più che le parole mi colpì il tono con cui le pronunciò, e rimasi scossa già al solo suono della sua voce: uno squillo di tromba che mi fece fremere tutta. Anche tutti i presenti ne furono scossi, destati di colpo dal solito torpore e dalla solita monotonia.
"Cosa c'è di tanto falso e privo di valore nel nostro modo di ragionare, giovanotto?" chiese il dottor Hammerfield, con tono indispettito.
"Siete dei metafisici, e con la metafisica potete dimostrare qualunque cosa. Ma naturalmente, qualunque altro metafisico potrà a sua volta dimostrare, con non poca soddisfazione, che avete torto. Nel campo del pensiero siete degli anarchici e avete la passione delle costruzioni cosmiche. Ognuno di voi vive in un proprio universo, creato dalla sua fantasia e secondo i suoi desideri, ma dell'altro mondo, quello vero in cui abitate, non sapete niente, e il vostro pensiero non ha posto nella realtà se non come fenomeno di alienazione.
Sapete a cosa stavo pensando poco fa sentendovi parlare a vanvera?
A quegli scolastici del Medio Evo che con serietà e dottrina dibattevano il problema di quanti angeli possano danzare sulla punta di un ago. Voi, signori, siete lontani dalla vita intellettuale del ventesimo secolo quanto poteva esserlo diecimila anni fa uno stregone pellerossa impegnato a fare incantesimi in una foresta vergine".

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