venerdì 31 gennaio 2014

Come cambia il modo di fare informazione. E di leggerla

Ieri, 30 gennaio 2014, Facebook ha annunciato il lancio di una nuova app, Paper, che dal 3 febbraio aiuterà gli utenti "a esplorare e condividere storie dagli amici e dal mondo intorno a loro". E' l'ultimo esempio di un nuovo tipo di giornalismo, a cavallo tra dimensione collettiva e realizzazione individuale. Un giornalismo di cui si trovano numerosi esempi nell'articolo che segue e che fa parte di un dossier, La mediamorfosi, all'interno del numero 34 di "Alfabeta2", in uscita in questi giorni nelle edicole e nelle librerie.

Maria Teresa Carbone

«Be a Publisher!» (Diventa editore!) è il canto di sirena con cui Paper.li, la piattaforma di elaborazione di notizie lanciata nel 2008 dalla startup svizzera Small Rivers, attira coloro (assai numerosi, non sorprendentemente) che desiderano avviare e pubblicare un giornale online a costo zero. L’idea di base è semplice: posto che chi usa un computer, e ancora di più un tablet o uno smartphone, calamita giorno e notte informazioni di ogni tipo attraverso la miriade di social network e di app cui ormai pochi riescono a sottrarsi, Paper.li si inserisce, previo consenso, in questo flusso, individua le notizie che interessano maggiormente l’utente e, dopo averle suddivise in categorie (top news, politica, esteri, cultura, cronaca...) grazie al potente algoritmo di turno, le confeziona dentro uno schema grafico accattivante, una via di mezzo fra la prima pagina di un giornale di carta e la home page di un quotidiano online tradizionale, tipo «Repubblica» o «Corriere» (non mancano, naturalmente, due sezioni dedicate alle fotografie e ai video). Al novello «editore» non resterà che scegliere il nome della testata, affinare eventualmente la ricerca di Paper.li con segnalazioni ad hoc e, se lo vuole, organizzare le top news secondo un ordine diverso da quello che la piattaforma gli ha proposto. Clic, e il quotidiano è online (si può addirittura optare per due uscite nell’arco delle ventiquattro ore), pronto per essere diffuso via social network o passaparola. I lettori entusiasti potranno abbonarsi, gratis ovviamente, mentre l’«editore», se decide di fare sul serio, ha a disposizione una versione a pagamento (circa 7 euro al mese) che gli consente di monitorare meglio gli accessi e di ingaggiare «collaboratori», attingendo ai giornali creati – sempre su Paper.li – dagli altri abbonati.
All’apparenza è poco più di un giochino, una sorta di equivalente giornalistico del Piccolo Chimico. Eppure questa evoluzione personalizzata dei «vecchi» aggregatori di notizie come Pulse o Zite pare indicare un nuovo modo di maneggiare le informazioni, che vengono condivise con amici o follower, ma al tempo stesso diventano i tasselli di un numero infinito di «autoritratti in movimento» in forma di giornale.

Laboratori Officina poesia 2014/Appunti sul primo incontro

Federica Bellantoni*

Il 29 gennaio scorso si sono aperti  i Laboratori di Officina poesia 2014. Eravamo molti e 
c'è stato anche chi ha suonato la chitarra, perché la musica è poesia.

Quelli che seguono sono in ordine sparso, alcuni appunti presi durante l'incontro: parole e frasi che riporto senza una connessione, come semplici punti di riferimento. 

Introduzione all'oggetto poetico.
Dado. Una specie di dado. Poesia come fenomeno ritmico. Canto poetico molto antico. Ritmico, corporeo. Meno fenomeno musicale relativamente ai sensi. Ciò che realmente ci trascina verso la poesia. Oggi siamo abituati a pensare a qualcosa di irrigidito per la poesia.

giovedì 30 gennaio 2014

Mvl cinema: The wolf of Wall Street

The wolf of Wall Street (2013)
Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura: Terence Winter
Interpreti: Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Rob Reiner, Kyle Chandler, Jean Dujardin, Cristin Milioti
Voto: 6,5

Trama: Ascesa e caduta di Jordan Belfort, mago della finanza creativa

A Scorsese fu sempre congeniale la descrizione delle parabole individuali; quando tentò l'affresco sociale e storico risultò o patinato o insulso (pur nell'impeccabilità formale, mai veramente smarrita).
In The wolf of Wall Street torna al proprio tema preferito: la narrazione d'una vita americana, disperata, bruciante e, in tal caso, larger than life.
Tale curva esistenziale viene declinata, però, non nei modi della tragedia (un tono che gli è ormai estraneo), né del pamphlet politico e di denuncia (è il caso di Oliver Stone), ma in quelli della commedia. Wolf of Wall Street è, infatti, una godibile commedia: superficiale, divertente, recitata da attori perfetti e scandita da una colonna sonora che svaria splendidamente dai Devo sino a Umberto Tozzi.
Ma gli accenti di tale commedia vengono esacerbati continuamente: l'intento è quello di surriscaldarli sino al grottesco e all'inverosimile (anche se quel che viene presentato non è che verità: alla base del film è, infatti, il libro omonimo dello speculatore Jordan Belfort).
Le truffe studiate a tavolino contro i piccoli risparmiatori, le droghe, le orge, il lusso debordante e sardanapalesco, i tradimenti; il film si costituisce d'una serie di vignette sarcastiche che, spesso, sfociano in una comicità slapstick da cinema muto, come quando Jordan/Di Caprio, ad esempio, abbrutito dalle droghe, cerca di sventare una telefonata compromettente (poiché intercettata dal Federal Bureau) dell'amico Donnie/Hill, altrettanto strafatto: Jordan, sbavante e reso spastico dallo stupefacente, si avviluppa nei fili del telefono, il logorroico Donnie finisce semisoffocato.
E l'enormità di ciò che vediamo sullo schermo (un pugno di gaglioffi inganna una nazione) sublima peraltro in altrettante scenette degne di un surrealismo postmoderno: la discussione su come cautelarsi giuridicamente per il gioco del lancio del nano in ufficio (un nano, in un involucro di velcro, è scagliato contro un enorme bersaglio di feltro: chi vince intasca migliaia di dollari di premio); le considerazioni fra Jordan e il padre sull'evoluzione, in meglio, della depilazione femminile; i monologhi motivazionali diretti ai dipendenti; una modella usata come spallone; il dialogo iniziale tra un giovane Belfort e il navigato broker Hanna (un Matthew McConaughey da Oscar, munito d'incongrua parrucca corvina), in cui il veterano consiglia, fra un drink e l'altro servito con precisione da metronomo, una tecnica antistress basata su masturbazione e cocaina; e in cui si svela il segreto del mestiere: togliere ai poveri gonzi per dare ai ricchi (sé stessi) secondo un gioco economico/giuridico con regole da videopoker dove il banco - il truffatore - vince sempre.

martedì 28 gennaio 2014

Quattro versioni di un traditore

Cajamarca 1532. Francisco Pizarro, comandante di sessantadue cavalieri e centosei fanti, si schiera contro i cinquemila guerrieri dell'Inca Atahuallpa (1) .
Gli spagnoli hanno passato la notte in preghiera. Pizarro, indurito da marce forzate, febbri, assassinii e sorretto da un'ostinazione messianica, non prega. Ha visto morire centinaia di uomini (i propri uomini); sente vicina la meta e la gloria che già fu di Cortez in Messico. Manda un'ambasceria al sovrano, di cui fa parte il sacerdote Vicente di Valverde: intima all'Inca la sottomissione piena alla simmetrica e divina monarchia di Spagna di cui egli, Francisco Pizarro da Trujillo, è esecutore, materiale e spirituale.
Atahuallpa rifiuta: non ha mai sentito parlare né di Carlo V né di Cristo.

"Il sacerdote Vicente di Valverde esce dall'ombra e va incontro a Atahuallpa. Con una mano alza la Bibbia e con l'altra il crocifisso, come se stesse scongiurando una tempesta in alto mare, e grida che qui c'è Dio, il vero Dio, e che tutto il resto è falsità. L'interprete traduce e Atahuallpa ... chiede:
"Chi te l'ha detto?".
"Lo dice la Bibbia, il libro sacro".
"Dammela affinché me lo dica" (2)

Atahuallpa prende il libro, se lo rigira tra le mani, cerca di aprirlo, ma non ci riesce. Lo scuote, lo ausculta, ma quello scrigno che dovrebbe contenere la voce sacra rimane muto. Atahuallpa, già usurpatore e traditore del fratellastro Huáscar, compie quindi un secondo tradimento, condannando la propria gente. Ignora la potenza della parola. Non la riconosce. Se avesse intuito che quelle pagine fatali sono più potenti del centinaio di masnadieri che da anni arrancava in Perù; se avesse compreso che un singolo libro, commentato, postillato, annotato e venerato dai bianchi per millenni ha fatto in modo da generare una marea di perfidie, astuzie, crudeltà, infamie - se Atahuallpa, com'era dovere d'un dio sovrano, avesse capito tutto questo avrebbe potuto annientare quel manipolo di butterati gaglioffi in pochi attimi.

Altri olocausti

Maria Vayola

Per continuare a ricordare. 

Dedicare un giorno alla memoria di qualcosa, non vuol dire che non la si debba ricordare negli altri giorni, almeno spero, e a proposito di Olocausti vorrei qui ricordarne un altro, forse il più "quantitativamente" agghiacciante della storia, quello americano.
Si sono fatte stime che dalla scoperta dell’America fino ai giorni nostri il 90% circa degli abitanti originari di quelle terre, 80 milioni di persone, sia scomparso a causa dell’invasione prima degli europei e poi degli statunitensi. Il "civilizzatore bianco" ha continuato a perpetrare il genocidio degli indigeni  con stermini sistematici in Guatemala, Paraguay e in tutta l’America meridionale, complici, se non esecutori occulti, gli Stati Uniti  (per una fonte di approfondimento clikkate qui).
Per rimanere nell’ambito degli Stati Uniti, le popolazioni indigene sono state sterminate da forze interdipendenti quali le epidemie, l’uccisione diretta vera e propria, i trasferimenti forzati, la distruzione dell’ambiente naturale e quindi delle fonti di sostentamento e, non ultimo,  dal tentativo di  occidentalizzare i loro modi di vita, tramite la cristianizzazione, l’impedimento ad esercitare i rituali che scandivano le fasi della loro esistenza, l’imposizione di concetti di realizzazione completamente opposti al loro modo di vivere.

lunedì 27 gennaio 2014

Hans Sahl: l'esilio come condizione umana

Raethia Corsini

Hans Sahl, ebreo tedesco, ha vissuto l'esperienza della persecuzione nazista, quella dei campi di concentramento e l'esilio, che lo ha visto vivere negli Stati Uniti d'America fino al 1989, anno in cui è tornato in Patria. L'esperienza di lontananza dalla sua Terra natia, però, è andata ben oltre l'esilio geografico, per approdare senza rimedio e per sempre, nella sfera intima, diventando personale condizione umana. Una condizione che riguarda tutti noi. 
Per Del Vecchio Editore (appena passato da Plautilla a raccontare la sua storia) esce il 29 gennaio una preziosa raccolta di poesie di questo importante intellettuale del Novecento, scrittore, critico e poeta, con testo originale a fronte (traduzione di Nadia Centorbi). Un autore da riscoprire, come ha scritto il settimanale tedesco Die Zeit, "perché capace di illuminare il momento in modo ineguagliabile". Il titolo della raccolta non lascia scampo all'universo umano: Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l'uomo. 





Riportiamo qui, a solo titolo di assaggio, due poesie scritte in anni lontani tra loro e contenute nel volume edito da Del Vecchio. 





Giornata della memoria: un treno per Oswiecim

[cliccare per ingrandire]

Foto e testi di Giulia Caminito

Questo è solo uno sguardo. Il mio viaggio in Polonia è nato all’improvviso, in pochi giorni, si è rivelato anche nel suo svolgimento inaspettato. Sono andata ad Auschwitz e Birkenau con tante immagini nella testa, ma non sapendo cosa avrei effettivamente trovato.
La mia è la testimonianza parziale di una ragazza nata negli anni in cui tutto questo è un ricordo o una narrazione, la generazione di chi ha studiato la deportazione, chi ha guardato documentari, letto libri, apprezzato film; di chi non ha mai visto la guerra.  
Piangere non mi è mai stato difficile, provare empatia tanto meno, e questo credevo mi attendesse ai campi, ma c’era dell’altro, che non ho mai sentito altrove.
È l’esperienza dell’impensabile, del punto zero, dell’alfa privativo dell’umanità, che non è bestiale, non è inumana, è assente. L’assenza feroce di qualcosa che noi stessi abbiamo celebrato e creato, l’humanitas, proprio nel cuore dell’Occidente, nei campi arriva a diventare il nulla. Questo vuoto, questa mancanza non ha generato in me il pianto, l’empatia, la disperazione, ma il terrore, lo smarrimento, lo sradicamento dell’universo in cui sono nata e cresciuta. La a-umanità è solo nostra, non può essere di piante e animali, di stelle e di cieli, è roba nostra, fatta da noi, rovescio di una pericolosa e viscida medaglia.

Giornata della memoria: Ebrei


Marta Ancona
Niente foto, non so come mai, ma non posso ignorare il mio primo contatto con la parola Ebrei. Foto di classe niente, e soprattutto foto di loro, gli Ebrei. Ma li ricordo assai bene, uno per uno, sarei in grado di descriverne i tratti con una qualche precisione.
Contatto con la parola, con la storia, con il concetto, con la persona.
Ero in quarta elementare, a Roma, appena trasferiti da Napoli, solo io e papà. La domestica Giuseppina mi accompagnava ogni giorno alla scuola XXIV maggio, ai piedi della lunga (126 gradini) larga bianca e assolata Scalea del Tamburino: tutto Monteverde vecchio è un omaggio al Risorgimento italiano e ai suoi protagonisti e in particolare alla Repubblica romana del 1949, quella che scrisse la Costituzione sulla base della quale fu scritta poi, dopo la II guerra mondiale, quella ancora in vigore. Un fulgido esempio di laicità e idee progressiste nel cuore stesso della cristianità e del suo potere temporale.
Ebbene tutti i giorni percorrevo a scendere (e poi a salire) quella scalinata per andare a scuola, la piccola scuola elementare XXIV maggio, dove ci accoglieva severa e tutt’altro che bella la maestra Argenti, Maria Argenti, alta e scura di pelle, viso segnato, tratti forti, naso importante, magra nel busto e forte di bacino, una toscanaccia che diceva “arinmetica” e “prendi quella ssedia”, bravissima a insegnare, severa ma giusta, molto affettiva. Noi sentivamo che ci amava, tutti diversamente, che ci teneva a noi e ai nostri risultati (suoi risultati), una comunista che non ci faceva recitare la preghiera al mattino prima di iniziare la lezione, e delegava la faccenda a qualche religiosa che ci impartiva anche qualche nozione di catechismo. E durante quelle preghiere io notavo quattro bambini, Claudio e Rossella Piperno (non erano parenti), Liana Dell’Ariccia, e Alberto (non ne ricordo il cognome, ma i tratti sì, biondo e riccio, occhi chiari, un ebreo “nordico”) che si alzavano anch’essi, ma non recitavano con noi il Pater noster.

domenica 26 gennaio 2014

Le note di Leo. La dedizione di Claudio Abbado

Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica al lunedì.
Claudio Abbado
Leonardo Castellucci*


A metà degli anni'60 quando, ancora alle elementari, mi innamorai della musica di un amore imperituro, restavo affascinato dalle prime copertine dei 33 giri di musica classica che mi passavano sotto gli occhi. I grandi direttori di allora erano quasi sempre proposti in primo piano, con espressioni severe, pensose, interiori. Atteggiamenti un po' teatrali, studiati per passare al mondo un' idea di serietà e di scavo interiore, di applicazione e logorio, di severità di studi, di prestigio raggiunto. Un certo divismo ottocentesco era ancora presente, quel senso di distacco fra il grande artista e il pubblico sottomesso e ammirato era ribadito, appunto, anche da questi atteggiamenti. Grandi uomini solitari e un po' scostanti che si concedevano alle platee come tramiti fra il mondo dei sensi e quello dello spirito. Penso alla distratta e vitrea espressione di Karl Bohm, a quella come introiettata in un mantra laico e un po' arrogante di Herbert von Karajan, a quella astratta e dimentica di Furtwangler, a quella adrenalinica e imperativa di Toscanini. 

Poi, più o meno in quegli anni giunse sui podi di tutto il mondo la generazione degli anni'30, quella di giovani direttori che sentivano il bisogno di far uscire la musica colta dal ghetto di una casta comunicandola con il sorriso e con l'entusiasmo. Giovani direttori che 'scesero' dal pulpito facendo un gran bene alla divulgazione della musica. I campioni di tale cambiamento furono su tutti Zubin Mehta, uno venuto dall'India portandosi come bagaglio una forza animale contagiosa, fatta di sorrisi, entusiasmo, energia (una sorta di Gustavo Dudamel del tempo) e un giovane milanese di origini partenopee, Claudio Abbado, studi perfetti, grande misura, rara capacità di leggere le partiture con un'attenzione all'analisi che rasentava quella di un teorico. 
Anche le copertine dei 33 giri cambiarono: Abbado compariva sempre o quasi di lato o di spalle, in genere sul podio a dirigere le prove con l'orchestra presente, come a passare l'idea che la musica è un piacere e una fatica che si raggiunge tutti insieme.
In quasi sessant'anni di carriera il maestro ha affrontato con entusiasmo ogni tipo di musica, dalla barocca alla contemporanea con la stessa applicazione e lo stesso atteggiamento di 'servizio'. Da giovane sorrideva spesso, quasi per impaccio, negli ultimi anni quel sorriso era diventato più fermo, sicuro ma un po' mesto, come se sentisse che il suo tempo stesse per chiudersi. 
Lo scorso 20 gennaio Claudio Abbado ci ha lasciati e noi lo ringraziamo commossi per averci insegnato la chiave migliore per dialogare più profondamente con la più alta delle arti: quella della 'dedizione assoluta'.

*Leonardo Castellucci, fine conoscitore di musica, giornalista, scrittore, oggi direttore editoriale di Cinquesensi Editore.



Gustav Mahler. Sinfonia N.10 in Fa diesis magg. Adagio

Vienna Philharmonic Orchestra
Direttore CLAUDIO ABBADO



Note di Monteverdelegge: breve percorso nel mondo di Abbado
Gustav Mahler è stato tra i compositori più studiati, amati ed eseguiti dal direttore Abbado. Proprio con una sinfonia del compositore, in un concerto all'Auditorium parco della musica di Roma, il maestro introdusse in Italia quello che a breve sarebbe diventato il suo erede

I racconti di MVL: Parodia di una fiaba

Lorenzo Carlo
La sera stava calando rapidamente, grigia e malinconica, quasi che l’atmosfera del cimitero avesse scavalcato il muro di recinzione, permeando anche i banchi dei fiori e i pochi passanti stanchi.
Cesira veniva avanti piano, con passi lenti e strascicati. Arrivata al suo banco dei fiori si rivolse alla figlia Valentina, una graziosa adolescente dalla figura efebica e dalla vistosa chioma rosso-Tiziano:
“Eccomi, Roscè. Ci ho messo un po’ perché da Lidl c’era una fila incredibile. E poi parlano sempre di crisi. Tieni questi sono i sacchetti di nonna: vaglieli a portare sennò quella non cena. Ah, e portale pure ‘sti quattro crisantemi che tanto ormai non se li compra più nessuno e domani sono da buttare”
La ragazzina non rispose nemmeno. Si alzò di scatto, prese i sacchetti e i fiori, scosse i lunghi capelli e si avviò senza neppure salutare.
“E non fare come al solito, che ti fai aspettare ore per cenare: lo sai com’è tuo padre! Vai e torni, d’accordo?”
La Roscetta neppure stavolta rispose. Scosse di nuovo i capelli e voltò l’angolo. Finalmente! Una delle cose che odiava di più, in questa vita di merda, era proprio passare il pomeriggio al banco dei fiori a rimpiazzare sua madre. E poi per quattro vecchiette che compravano due crisantemi ciascuna e contrattavano pure sul prezzo…
Ma adesso, finalmente, c’era l’ora sua! Arrivò rapidamente vicino a un gruppo di casermoni, le case popolari dei ferrovieri, e sotto le finestre del secondo caseggiato emise il suo fischio alla pecorara. Subito si aprì una finestra al secondo piano, un moretto si affacciò e disse “Arrivo!”.
In un paio di minuti uscì dal portone, si avvicinò a Valentina, la guardò con venerazione e disse. “Ciao, Roscè!” poi le prese dalle mani i sacchetti ed i fiori.
“Ciao, Ciriola. Andiamo”
I due si avviarono a passi rapidi verso il parco, oddio…”parco”, diciamo la discarica con vaste zone di alberi fitti.

L'incipit della domenica - Cacciatore di androidi

Quasi tutti ricordano il film Blade runner, diretto da Ridley Scott nel 1982. Molti meno hanno letto il romanzo di fantascienza da cui la pellicola è tratta: Cacciatore di androidi, ora recentemente titolato Ma gli androidi sognano la pecora elettrica?, in giusto ossequio al titolo originale (Do androids dream of electric sheep?). Peccato: il romanzo è parecchio superiore, per complessità di temi, al suo derivato cinematografico.
Cos’è l’uomo? Quale la sua essenza? È più un umano un androide che canta arie d’opera o un uomo psicopatico e dalle emozioni prosciugate?
E qual è l’essenza della realtà? Son più reali i ricordi artefatti impiantati negli androidi o quelli umani? Entrambi, infatti, hanno pari dignità per chi li vive.
E ancora il tema del doppio: in Cacciatore di androidi tutto rimanda ad altro: due test per individuare gli androidi, due donne assolutamente uguali (Rachel e Pris), due città parallele.
Abbiamo poi gli spunti tipicamente fantascientifici: l’olocausto animale (la fauna, sterminata da un’epidemia, viene sostituita con doppi cibernetici), le piogge acide, lo spopolamento delle città.
L’ansia metafisica: l’incalzare della morte delineata come progressiva cessione di sovranità dell’umano di fronte al kipple, neologismo coniato da Dick per significare confusione, anarchia, degrado, sporcizia, entropia – la dissoluzione della logica, della ragione.
Il mondo dei freak: quello dell’ingegnere cibernetico J. R. Isidore, malato, solitario e disperato che riversa proprio negli androidi la propria empatia.
Il fascino hard boiled: Deckard l’investigatore, la suspense gialla, le dark ladies, il villain.
E l’inimitabile stile di Philip Dick: quello di tratteggiare con verosimiglianza un ambiente futuribile descrivendo una semplice scena di vita quotidiana. Ecco, nell’incipit, il normale risveglio di una coppia sposata; subito, però, con naturalezza, lo scrittore inserisce le sue trovate stranianti: l’accenno al mestiere di killer di androidi; il regolatore artificiale di umore; una pubblicità di tute antiradiazione; la frustrazione di possedere solo una pecora elettrica invece di un costoso e, ormai, rarissimo animale vivente …
Pynchon, De Lillo, Roth; David Foster Wallace, Ellis ... ma lo scrittore americano più importante del dopoguerra è, assieme a Cormac McCarthy, Philip K. Dick. Non può essere altrimenti.

Philip K. Dick
Una minuscola e allegra vibrazione elettrica, trasmessa dalla soneria automatica e proveniente dall’organo degli umori, accanto al suo letto, svegliò Rick Deckard. Sorpreso (trovarsi sveglio senza preavviso lo sorprendeva sempre) si alzò dal letto, restò immobile un attimo nel suo variopinto pigiama e si stiracchiò.
Sua moglie Iran in quel momento aprì gli occhi, mesti, ma subito con un gemito li richiuse.
“Il tuo Penfield è troppo debole” l’avvertì. “Ora te lo regolo io, ti sveglierai e …”
“Giù le mani dal mio apparecchio!” La sua voce era aspra, e s’incrinò. “Non voglio essere sveglia".
Rick si sedette sul letto e si chinò su di lei, spiegandole dolcemente: “Se tu regoli l’onda abbastanza alta, sarai contenta di essere sveglia. Qui sta il punto. Mettendo l’apparecchio sul C, l’onda supera l’ostacolo dell’inconscio, come succede a me”. Amichevolmente, poiché si sentiva ben disposto verso il mondo (aveva regolato il suo apparecchio sul D) le batté una mano sulla spalla, nuda e pallida.
“Toglimi di dosso quella mano da poliziotto” ringhiò Iran.
“Non sono un poliziotto”. Si sentì irritato, anche se non aveva programmato questo umore.

sabato 25 gennaio 2014

"Ascolta, Roma, regina bellissima del mondo che è tuo ...". Un requiem

Il magnifico portale barocco presso le Mura dei Francesi, a Ciampino, opera dell'architetto secentesco Rainaldi, "noto per aver progettato palazzo Pamphili a Piazza Navona e terminato i lavori del Campidoglio dopo la morte di Michelangelo". Un decreto ministeriale lo mise sotto tutela nel 1935. Almeno sino al 2011.
Lo stesso portale dopo il crollo del 2011. "Qualcosa deve essere stato trascurato nella difesa della nostra patria ... con i barbari non si può parlare, non conoscono la nostra lingua e non ne hanno una loro ... il nostro modo di vivere e le nostre abitudini sono loro tanto incomprensibili quanto indifferenti" (F. Kafka, Un vecchio foglio). Dall'epistolario di Rainer Maria Rilke: "Per i nostri avi, una casa, una fontana, una torre loro familiare, un abito posseduto erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo, quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l'umano. Ora ci incalzano dall'America cose nuove e indifferenti, pseudo-cose, aggeggi per vivere. Una casa nel senso americano, una mela americana, o una vite americana non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui erano riposte le speranze e la ponderazione dei nostri padri". Ma Rilke, nel 1920, peccava di poca lungimiranza. A differenza di Kafka.
Una statua della Villa di Marco Valerio Messalla, sempre a Ciampino. Una metafora della distruzione. "Roma non perit, si Romani non pereant", si diceva. Purtroppo i Romani la pensano diversamente. Ed Ecco Rutilio Namaziano, da Il ritorno:

"Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa,
Immensi spalti ha consunto il tempo vorace.
Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri,
Giacciono tetti sepolti in vasti ruderi.
Non indignamoci che i corpi mortali si disgreghino:
Ecco che possono anche le città morire"

venerdì 24 gennaio 2014

Mvl cinema: Il capitale umano

Il capitale umano (Italia 2013)
Regia: Paolo Virzì
Interpreti: Valeria Golino, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio

Patrizia Vincenzoni
Cinismo, fragilità, delusione, frustrazione, l'attesa e l'aggrapparsi a un filo di speranza  tenacemente difesa,  sono gli atteggiamenti  attraverso i quali Paolo Virzì  fotografa un contesto della realtà contemporanea non solo italiana, attraverso tipologie umane che ha saputo  ben caratterizzare nelle loro fisionomie psicologiche.
Un'icona laica, l'immagine di questa umanità sovrastata dalla legge mercantile che ha abiurato il 'fattore' umano, visto e considerato alla stregua di un oggetto merceologico, come suggerisce anche  l'immagine della locandina del film e la chiosa scritta che precede i titoli di coda.
Il regista riesce a produrre, aiutato dalla straordinaria bravura degli attori, un ritratto compassionevole, disincantato e crudele allo stesso tempo, arrivando a mostrare la deriva  tragica  di queste esistenze filmate anche nelle profondità del loro intimo, decorso che con realismo si espande anche alla realtà sociale più vasta e complessa. 

mercoledì 22 gennaio 2014

Anticipazione del nuovo Montalbano: La tana del coniglio

Anticipiamo brevi parti dell'incipit del nuovo romanzo che vede per protagonista il popolare Salvo Montalbano, La tana del coniglio.

Di una sola cosa aviva cirtizza, lo scanto infinito e terribili.
Correva e correva a perdifiato, non sapeva manco lui da quanto.
Aviva passato sterrati, sentieri, pascoli, orti, senza un'ummira d'omo, e campi deserti e sicchi che non ci crisciva manco un arbolo.
Doveva assolutaminti arrivari. Dovi, non lo sapiva.
Abbisognava curriri, e sempre cchiù forte.
Ma pirchì?
D'un tratto s'accorse d'una rumorata alle so’ spalli. Era quello che lo scantava? E cos'era, ‘na truniata luntana, ‘na mareggiata, la voce di dio che annonciava l’apocalissi?
E pirchì curriva accussì malo? A zampettoni, sartannu di continuo?
“E come perché, Montalbano”, gli fici una voci precisa 'ntifica a quella del quistori. “Perchè un coniglio sei. Sei sempre scappato. Scappa anche ora! Salvati!”
Ed era vero! Un cunigghio era, bianco e nero, che curriva verso la so' tana.

….

“Sbrigati Montalbano, sbrigati che i cani non aspettano!” fici ancora la voci mallitta.
I cani! Altro che l’apocalissi! Cani da caccia erano, e sulle sue tracce.
“Forza Montalbano, forza” riprendeva il quistori trattenendo a stento na risateddra sinistra. E Montalbano zampettava, zampettava ma si vidiva subbito che non era cosa.
Quanto avrebbe potuto resistere accussì?
Il primo cani, granne come ‘na montagna, gli si era ormai addosso.
“Aiuto” gridò Montalbano, ma potiva gridare un cuniglieddro? Al massimo movere il naso e le orecchie.
“Aiutò” gridò di nuovo. Madunnuzza, com’era patetico!
“Forza, Montalbano, forza!” e stavolta alla risateddra se ne aggiunsero altre vasce e ghignanti.
Infine vidì la tana. Un buco stretto aperto nella crita del campo. Vicina! Era vicina!
“Forza Montalbano. Ancora un poco, un poco!”
La sarvizza, a portata di zampa, un buco dove arripararsi. Ma quanno si stava priparando all'ultimo balzo sentì, pesante come chiummo, l’ugna del segugio. “Aiuto!” cercò di squittire ancora il commissario.
“Ah ah ah” ridiva il quistore, alto come un angilu dell’inferno. "Salvati, Salvo ..."

……

Ed ecco che la scena cangiava: lui che bubboliava tutto, come il cunigghio pupo del sugno, al centro della piazza di Vigata, accucciato su du’ pedi darré, co le mani davanti alla vucca, che piagnucolava: intorno … tutto il paisi: e Fazio, Pasquano, Lattes, quel fitenti di Arquà, il quistori (granne e vistuto di rosso come un parrino del diavolo), Augello, Ingrid (la traditrice!) e Livia (putiva mancare lei?) se la ridivano bella di lui. Pirsino Catarella, Catarella!, allongava i vrazzi babbiandolo per joco  … e lui, il Montalbano-cunigghio, che faciva? Si giustificava trimante, "Non è vero, non è vero”, frignava.

……

Si arrisbigliò di colpo, sudatizzo, malgrado la corrente fridda che arrivava dalla finestra, aperta di colpo da una ventata umida che trasiva direttamente dal mare scuro e furibondo.
"Giornata tinta è" disse, ma lo disse ancora spaisato, prioccupato, quasi che il sugno malanimo ancora lo tenesse stretto.
Il vento fini di spalancare i vetri e uno spruzzo gilatizzo finì di arrisbigliarlo del tutto. Si susì di scatto e chiuse con fracasso le imposte vincenno la forza del vento. Addrumò tutte le luci della casa come a scacciare lo spirito malo della notte.
Annò in cucina, accese il foco sotto la caffettiera, poi si fici una doccia gilata. S'asciugò e indossò ancora il linzolo bianco che s'era portato appresso. Come un sinatore dell’antica Roma passò sullunne dal bagno alla cucina. Prese la caffittiera e si inchì un cicarone intero di caffè e se lo vippì tutto. Poi fece il bis.
Si rilassò un poco. Il vento fora s'era squetato. S'addrumò con calma ‘na sicaretta e cominciò a pinsari.
Ma quel sugno, alla fine, che viniva a significare? Un cuniglieddro, lui!
Un eroe non ci teneva a esserlo e non lo era mai stato, ma del piricolo mai aveva avuto davvero paura, anche quando era stato firito e aviva viduto la morti in faccia.
"Di che ti maravigli, Montalbà? Invecchi, chistu è sicuro. E come tutti i vecchi temi il futuro, le sorprese. E la vicchiaglia, poi! Le malattie, la memoria vacante, la vista che se ne va. Il pannolone.  Non te lo dice sempre anche Livia, in quel suo interminabile priari da parrino nordista?”
“O macari è colpa del quintalazzo di sarde a beccafico che m’ha lasciato Adelina in frigo” tintò di ridersela subito dopo. “Pannolone un corno!”. Ma nun era cosa. Quarchi cosa lo tormentava nel profunno del cori. Un tarlo che lo rodiva di dentro.
Il ciriveddro mallitto lo rimandò alla scena della piazza in cui tutti lo babbiavano come un pupo e ricominciò a strinciri i denti per l’amarezza e l’ingiustizia della situazione.
“Ma che minchia mi sta succedendo stamattina?”

…….

“Nun e cchiù cosa pi mia, 'sta vita” pensò amaro. Vuliva spegnere la sicaretta, ma il tilifono squillò improvviso come ‘na tromma del giudizio e gli fici mancare il bersaglio e centrare il tavulino con la brace cavuda. Montalbano fu preso da una raggia violenta, improvvisa. S'arzò dalla sedia, ancora col linzolo addosso, cogli occhi sbarracati come un congiurato fanatico pronto a liberari la ripubblica di Roma dal tiranno. Prisi la cornetta come un pugnale e, invece d'affondarlo nel corpo di Cesare, ci urlò dintra. Gli venne una specie di latrato da lupo mannaro, orribili, come se il gargarozzo non fusse più adatto per fari voci d’omo, ma solo versi d'armalo furioso.
"Madunnuzza bedda, che fu" spiò scantata la voce dall'altra parte del filo che nun era altri che il poviro Catarella.
“Cassaahrrr” ruggì Montalbano, che vuliva forse significare: “Cosa c'è, con chi ho l’onore di parlare, di grazia, caro interlocutore”, ma gli venne ancora quel gridari di gola.
“Dottori, ah, dottori Augello ... Ah Madonnuzza biniditta ... ah Signuri mio … ‘na vestia … ‘na tigri firoce ... l'ammaza … ah dottori … accorresse …”.
"Iiiioooooo …" aggravò la convirsazione Montalbano che, stavolta, voleva forse dire "Son io, benedett'uomo, null'altri”, ma ormai, per ristare in tema, il dado era tratto. Dall'altra parte della linea vinivano ora rumorate tirribbili, e voci, ammuttuni, allarmi, strepiti, richiami, ordini alla sanfasò. Un mutuperio da fine de’ tempi.

Una foto abbandonata

Una vecchia foto di famiglia su un marciapiede della periferia di Roma.
Le foglie dei platani, marcescenti; pozze residue dai piovaschi che riflettono l’arancio diffuso dei lampioni.
Abbandonata; sfuggita da chissà dove.
Una foto come tante, che gonfia gli album dei ricordi di qualunque famiglia italiana.
Nell’immagine una coppia di mezza età; si indovina la bella stagione: sicuramente una vacanza. L’uomo, stempiato, a torso nudo, volge lo sguardo lontano dall’obiettivo, il braccio attorno al collo della compagna; la donna, con un semplice vestito a fiori, guarda, senza sorridere, verso il fotografo, un po’ accecata e come sorpresa dalla luce estiva. Dietro di loro un muricciolo. Oltre si intuisce la vegetazione, forse una spiaggia, il mare liberatore. Fine anni Settanta.
La donna non sorride, l’uomo osserva lontano, ma non c’è niente di sospetto nella scena.
La madre è colei che rappresenta la famiglia, sempre e comunque, il volto amabile; il padre, invece, deve ritenere gli istinti, farsi burbero, tracciare una linea fra conservazione femminile e dovere maschile. La mamma riceve in casa, amministra, sorride, sovraintende alla casistica dei sentimenti, fiuta l’aria, prevede; il papà è al lavoro, o nel suo studio; si occupa dei conti, delle relazioni d’affari, degli oneri pubblici; interviene nella vita dei congiunti con imperio deciso e veloce, ma solo dopo aver letto, negli occhi della consorte, la verità degli avvenimenti sul campo.
Si coglie, intatta, nella foto, la secolare peritosità del popolo italiano, di quella piccola borghesia fattasi rispettabile con un impiego nella grande industria, nello Stato, nell’impresa di famiglia; o calata dalle campagne per la fabbrica e la vita militare oppure con un titolo di studio da far fruttare subito. Si avverte l’istintivo ritrarsi dallo svelamento pubblico e la ritrosia a concedersi, pur attuati nella dimensione minuscola d’una foto scattata da amici o parenti; o dai figli, forse già grandi eppur coinvolti nel rito del benessere per eccellenza: le vacanze. Figli che studiano, tra superiori e università, che cominciano ad avere amori, forse già inseriti nel mondo del lavoro sulle orme del padre. Con cautela. Nulla di troppo.
Il nulla di troppo dell’italiano secolare. Il timore dell’arroganza, della hybris. Il timore di un Dio ancora potente, provinciale e spietato, pronto a punire l’eccesso. Compi il tuo dovere e non temerai nulla di male. L’Italia arcaica, eguale a se stessa, cattolica, reazionaria e minuta - di destra e di sinistra - che ha tenuto in piedi la nazione da sempre. L’Italia profonda, ora dissolta.
Cosa resta di quel tempo immortale? Niente. Io stesso, che ho passato la vita a osservare, rimango sempre sgomento dalla velocità degli avvenimenti. È lo stesso sentimento che si prova di fronte al venir meno d’una vita. Tutti hanno visto morire qualcuno. Persone amate, che hanno lasciato un vuoto in chi restava. Affetti, nostalgie, ricordi. Eppure questi volti, una volta cari, divenivano pian piano una pura immagine che trascolorava sino ad assumere una realtà impalpabile e fantasmatica; estranea; e le fattezze, i gesti, le inclinazioni che li rendevano riconoscibili tra mille e li rendevano concreti, tutto quell’insieme di tratti unici e umani che ne facevano, insomma, presenze amiche e domestiche, semplicemente svanivano dalla nostra coscienza.

E così è del nostro tempo più prossimo. Il nostro passato, pur recente, è un’iscrizione misteriosa e indecifrabile. Eppure siamo noi. Ma non ci riconosciamo. E non ci soccorre nessuno.

lunedì 20 gennaio 2014

Mvl cinema: La mafia uccide solo d'estate


La mafia uccide solo d'estate (Italia 2013)
Regia: Pierfrancesco Diliberto
Interpreti: Pif, Cristiana Capotondi, Ninni Bruschetta, Claudio Gioé

Patrizia Vincenzoni
Un condensato di storia, di quella che negli ultimi decenni ha attraversato traumaticamente la Sicilia e l'Italia, quella delle stragi mafiose che ha lasciato dietro di se' una scia interminabile di morti. "La mafia uccide solo d'estate" opera prima di Pierfrancesco Diliberto detto Pif, ha vinto recentemente il premio del pubblico al Torino Film Festival. Il film racconta quelle stragi con una cronologia precisa, senza appello: un 'ripasso' che non ci lascia indifferenti, anche se suscita qua e la sorrisi e momenti in cui diverte. Il regista riesce in questo modo a parlare della mafia e dell'assedio criminale vissuto in quegli anni dalla città di Palermo e lo fa con un tratto divertente, surreale, ma nello stesso tempo riesce a comporre una storia che aiuta a non dimenticare, ad aver il valore di una denunzia civile.

domenica 19 gennaio 2014

Le note di Leo. Vivaldi, mutamento dei tempi

Ritratto, Gian Battista Tiepolo
Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica al lunedì. 

di Leonardo Castellucci*

Fino a trent'anni fa la musica barocca veniva eseguita con una chiave interpretativa che si riferiva a cadenze e timbri romantico ottocenteschi. Si cercava l'intensità del suono, la forza dello stesso, dentro un tempo registrato nell'apparente esattezza del battere. Errore, almeno per ciò che riguarda il Barocco, ch'è musica di per sé verticale, "spezzata", sospesa, molto più affine al levare, all'imprevedibile approdo di un suono di per sé portato ad aprirsi verso l'infinito. 
Ascoltando le due seguenti interpretazioni la differenza salta alle orecchie. Nella prima esecuzione, quattro grandissimi solisti e un'orchestra numerosa (cosa assolutamente poco filologica) danno al concerto una patina drammatica, carnale, sanguigna. Nella seconda, una piccola ensamble ci introduce in un mondo di suoni interrotti, mozzati, come se la musica fosse in un perenne stato di vibrazione sonoro, di impazienza, di ricerca di sonorità sempre diverse. La forza di una certezza ridotta in un metronomo, nella prima. L'intelligente incertezza del dubbio, nella seconda. Ai tempi di Vivaldi si suonava con questo secondo intendimento.

*Leonardo Castellucci, fine conoscitore di musica, giornalista, scrittore, oggi direttore editoriale di Cinquesensi Editore.
  

Esecuzione 1
Antonio Vivaldi
Concerto per 4 Violini e Orchestra in B Minor RV 580

Direttore Mikhail Terian

Violini:
David Oistrakh
Leonid Kogan
Igor Oistrakh
Paul Cohen




L'incipit della domenica - Macbeth

SEYTON - È morta la regina, mio signore. 

MACBETH - Doveva pur morire, presto o tardi; 
il momento doveva pur venire 
di udir questa parola... 
Domani, e poi domani, e poi domani, 
il tempo striscia, un giorno dopo l'altro, 
a passetti, fino all'estrema sillaba 
del discorso assegnato; e i nostri ieri 
serviranno solo a rischiarare
la via verso la morte a dei pazzi. 
Breve candela, spegniti! 
La vita è solo un'ombra che cammina, 
un povero attorucolo sussiegoso 
che si dimena sopra un palcoscenico 
per il tempo assegnato alla sua parte, 
e poi di lui nessuno udrà più nulla: 
è un racconto narrato da un idiota, 
pieno di grida, strepiti, furori; 
e che significa nulla.

La forza del Fato (Wyrd; le streghe sono, infatti, Weird Sisters) è implacabile. Ciò che scambiamo per volontà non è che illusione di libertà. La vita è una semplice recita: quanto sangue inutile, quanti strepiti per il potere, quanto dolore e abiezione: per nulla. Questo è Macbeth, poema supremo dell'ineluttabile, tragedia perfetta e antichissima. Out, out, brief candle!

William Shakespeare 
ATTO PRIMO

SCENA I

Luogo aperto. Tuoni e lampi.

Entrano tre STREGHE.

1ª STREGA - Quando noi tre ci rivedremo ancora?
Con tuono, lampo o pioggia? Quando, allora?

2ª STREGA - Quando sarà finito il parapiglia,
e sarà vinta o persa la battaglia.

3ª STREGA - Sarà al calar del sole, questa sera.

1ª STREGA - E il luogo?

2ª STREGA - Alla brughiera.

3ª STREGA - Laggiù dobbiamo andare
Macbeth ad incontrare.

1ª STREGA - Vengo, Gattaccio.

2ª STREGA - Ci chiama Ranocchio.

3ª STREGA - Veniamo subito, in un batter d'occhio!

TUTTE E TRE - "Per noi il bello è brutto, il brutto è bello"
fra la nebbia planiamo e l'aer fello.
(Svaniscono nell'aria)

sabato 18 gennaio 2014

Wallraff, Hoffmann, Baudelaire: breve viaggio nel catalogo de L'Orma editore

Comprendo: la passione. La passione per la cultura, la passione per il libro. Ma fondare una casa editrice? Quale demone avrà indotto i ragazzi de L’Orma a fondare una propria casa editrice? Di fronte agli attuali scogli di Scilla e Cariddi: la burocrazia, il calo delle vendite, la fiscalità bizantina; e la qualità delle nuove proposte da trovare, poi ... il titolo giusto … come pescare, a occhi bendati, un anguilla in un mare infestato da serpenti.
Ma la passione è il motore della vita, perciò è giusto affidarvisi; “Provare queste passioni quando è il momento, per motivi convenienti, verso le persone giuste, per il fine e nel modo che si deve, questo è il mezzo e perciò l’ottimo, il che è proprio della virtù”, asseriva il Filosofo, e chi son io per contrastarlo?
Dalla loro parte, inoltre, i giovani de L'Orma (Marco Solari Federici, Lorenzo Flabbi, Chiara Di Domenico, Elena Vozzi, Massimiliano Borelli) hanno un istinto fine nel miscelare, nella loro offerta, nuove proposte e ripescaggi mirati di classici, sempre a cavallo tra Francia e Germania.
Vecchio e nuovo.
Cominciamo col nuovo.
Nel loro catalogo figurano già La petite, di Michèl Halberstadt, e L’investitore americano, di Jan Peter Bremer, su cui ci siamo intrattenuti; una delle punte delle nuove proposte è però Günter Wallraff, giornalista d'inchiesta tedesco, tanto sconosciuto presso le nostre latitudini, quanto (giustamente) celebrato in patria.

giovedì 16 gennaio 2014

Parole come luci venute da una terra perduta, fare poesia con i malati di Alzheimer


A pochi giorni dall'avvio dei seminari 2014 di Officina Poesia proponiamo un testo inedito di Maria Grazia Calandrone, in cui la poetessa rievoca la sua esperienza realizzata al Centro diurno della Fondazione Roma, assieme all’Associazione Alzheimer Uniti, dove l'anno scorso, nel quadro della prima edizione di Officina Poesia (Caproni e io) ha condotto un laboratorio.

Maria Grazia Calandrone
Nella nostra memoria risiede la nostra identità biografica. Confesso che, prima di trovarmi davanti al gruppo insieme al quale ho lavorato, mi spaventava l’immaginazione di trovarmi in un deserto umano, ma conservavo fede nella poesia, nella sua capacità di accedere in diretta al nucleo caldo delle persone – o per lo meno di evocarlo.

Una volta di fronte a queste persone abitate da una vistosa perdita di memoria, ho avuto l’impressione, certo, di una perdita di identità biografica, ma in favore di un allargamento verso una identità umana.

Come se in esse ci fosse una vasta zona abitabile da parte del presente, e del contatto immediato, così dis-occupati come sono da pensiero e memoria e, dunque, da pregiudizi e resistenze concettuali.

Il sorriso e l’assenso sembrano essere i canali principali della comunicazione, da e verso i malati di Alzheimer. Ma che ne facciamo della poesia davanti a persone che hanno come orizzonte l’immediato, il mero istante?

La poesia è musica fatta con le parole: parole che suonano insieme, che stanno bene insieme e fanno musica. Ma questa musica non è solo suono, è appunto fatta di parole – e le parole sono come vagoncini che trasportano un senso.

Il fatto che le parole della poesia stiano così bene una dietro l’altra da fare musica, rende più facile alle parole (e ai loro sensi e significati) scivolare dentro di noi mentre nemmeno ce ne accorgiamo.

Dunque veniamo facilmente raggiunti da parole: che significano qualcosa, sono sensi, hanno senso, aprono mondi e muovono memorie, associazioni, evocazioni, echi.

Inoltre: le parole che i poeti scelgono sono parole innamorate, che si sono attirate l’una verso l’altra come calamite e ora creano armonia.

Una poesia si fa ascoltando i sentimenti delle parole, aiutando a unirsi quelle parole che si guardavano come innamorate.

Quando tutto questo movimento funziona e questa tensione è attiva, raggiunge quella zona di similitudine umana della quale tanto parlano i poeti.

E tanto meglio la raggiunge se non ci sono schermi speculativi e cognitivi, nessuna intenzione di destrutturare e capire ma solo di ascoltare.

Il modo migliore per entrare in contatto con la poesia e con i doni che ci fa la poesia è farla suonare, ascoltarla.

Così, abbiamo soprattutto letto insieme, dato voce alla musica delle parole e ricordato e associato liberamente. Alla fine del nostro lavoro comune abbiamo ottenuto un generosissimo risultato di frammenti di memoria, anfore semisommerse, prue di navi, lampi di luce, ragazze sulla sabbia o che attraversavano un paese: fermi-immagine, luci venute da una terra perduta, come approdati a noi dalla Laconia di Alcmane – o da una zona ancora più remota.

Il laboratorio è stato un viaggio affascinante verso una moltitudine di porti sepolti e si è concluso con una generosa e affettuosa riconoscenza reciproca.