lunedì 25 novembre 2013

Biennale d'arte di Venezia, un dizionario per il finissage


Viviane Sassen, Lexicon
Maria Teresa Carbone
Cristina Reggio

Dopo cinque mesi, domenica 24 novembre si è chiusa la 55. edizione della Biennale d'arte di Venezia. Vi proponiamo un piccolo dizionario del finissage, da commentare, integrare, discutere.

Alberi
Albero 1. Allʼingresso dei giardini, nel primo Padiglione, quello del Belgio, si trovava un enorme albero trafitto, come un corpo umano, un San Sebastiano vegetale in lenta agonia. Era lʼopera dal titolo Kreupelhout - Cripplewood di Berlinde De Bruyckere, un artista belga che immerge gli spettatori in una atmosfera velata, ovattata, nebbiosa, volutamente in contrasto con la luce cristallina dei giardini. Lʼalbero gigante abbattuto sembrava respirare, pulsare di vita stremata: un enorme tragico Gulliver morente intorno al quale ci siamo sentiti lillipuziani, stranieri, impotenti, curiosi, estranei.
Albero 2. Nel 2011 un albero si è improvvisamente abbattuto sul piccolo padiglione finlandese disegnato da Aalto, danneggiandolo. Lo spazio è stato poi ripristinato, ma due anni dopo il padiglione dei Paesi nordici (assegnato in questa edizione alla Finlandia) è stato trasformato da Terike Haapoja in un laboratorio, dove gli alberi – i Falling Trees cui è stata intitolata l'intera installazione, comprensiva anche della mostra fotografica di Antti Laitinen al padiglione Aalto – hanno fatto sentire il suono ansimante del loro respiro, in risposta a quello dei visitatori. La tecnologia è diventata così il tramite comunicativo tra due mondi all'apparenza distanti e separati, un invito a porsi in ascolto di voci inudibili.


Buio
La diffusione della videoarte ha abituato gli spettatori delle biennali ad affacciarsi in piccoli o grandi spazi completamente rivestiti di nero nei quali si possono vedere proiettati i video monocanale. Anche questa edizione ne ha collezionati molti, tra cui quello dell’inglese Steve McQueen, autore dei due film visti al cinema Hunger (2008) e Shame (2011), nei quali il fulcro tematico ed estetico era il corpo del protagonista e i suoi desideri.. Alla 55. Biennale era esposto il suo video del 2002 Once Upon a time nel quale l’artista ha assemblato, in forma di slides che si susseguono lentamente una dietro l’altra in dissolvenza, le immagini che compaiono nel famoso "Disco d’oro", ovvero il Golden Record realizzato dallo scienziato Carl Sagan e sua moglie, e lanciato nello spazio a bordo delle sonde NASA Voyager1 e 2 (che ancora sono in viaggio), come biglietto da visita dell’umanità, diretto ad ipotetici marziani provvisti di occhi per vedere e orecchie per ascoltare. Nell’opera di McQueen, le immagini che si mostrano come in un campionario, sono accostate alla diffusione audio di glossolalie, ovvero linguaggi incomprensibili, pronunciazioni di lingue ignote e misteriose che accompagnano come una lallazione infantile, pre-linguistica la catalogazione ottusa del sapere umano. Altri spazi bui interrompevano di frequente i percorsi assolati della biennale veneziana: dall’installazione Katia, di Bart Dorsa, che obbligava gli spettatori a un percorso a piedi scalzi in uno spazio completamente nero, molti stile wunderkammen, costellato di immagini, specchi e sculture ispirate a una giovane donna dal corpo ritorto da una vita disperata, alle notturne proiezioni “tattili” e interattive della Creazione di Studio Azzurro per il Padiglione della Santa Sede (grande novità di questa Biennale), e, poco distante, una cinematografica interpretazione video della performer e videoartista argentina Nicola Costantino che ritrae nel 2012 Evita Peron, immergendo lo spettatore in un gioco di specchi, anchʼesso rigorosamente in un buio misterioso. E infine unʼultima oscurità, ovvero quella che ha inghiottito e "imprigionato", per pochi minuti, Giorgio Napolitano, nel corso della sua visita-lampo allʼArsenale: curiosamente, infatti , il Presidente della Repubblica, la scorta e il seguito in visita, hanno dovuto fare una vera gimkana per seguire senza inciampare, con la pochissima luce disponibile, il viottolo dellʼinstallazione progettata da Rossella Biscotti, delimitato da mattoni ricavati dal compostaggio dei rifiuti del carcere femminile della Giudecca. Poi, finalmente fuori, liberi, nel sole e nellʼodore del mare.

Detriti
Il gigantesco cumulo di macerie con cui Lara Almarcegui ha saturato gli spazi del padiglione della Spagna, impedendo ai visitatori di spostarsi liberamente da un ambiente all'altro, costringendoli a percorsi esterni, tangenziali, inattesi, aveva come titolo Construction Materials. Solo dalla distruzione (in questo caso i detriti provenivano dalla discarica di Sacca San Mattia, a Murano) si può andare in cerca di nuove strade? L'interrogativo riecheggiava nell'installazione di Rossella Biscotti, modellata col compost raccolto dalle detenute del carcere della Giudecca, che con i loro sogni hanno dato il titolo all'opera, I dreamt that you changed into a cat... gatto...ha ha ha. (E detriti, ancora, in The Dry Salvages di Elisabetta Benassi, una distesa di mattoni ottenuti con l'argilla proveniente dai luoghi alluvionati del Polesine, tutti contrassegnati con i nomi dei detriti spaziali che orbitano intorno alla terra).

Didascalie
Se, come il califfo delle Mille e una notte, in questi mesi Massimiliano Gioni si è aggirato in incognito nel Palazzo enciclopedico che ha voluto allestire nella sua Biennale, non avrà potuto fare a meno di notare che moltissimi visitatori sceglievano di fotografare, insieme alle (o al posto delle) opere, le lunghe didascalie che accompagnavano ognuno dei pezzi esposti. E se ne sarà indubbiamente compiaciuto, perché le didascalie, in questa edizione della rassegna veneziana, hanno avuto un ruolo primario, non semplice etichetta, minimo promemoria per evocare un nome, un titolo, una data, ma continue e insistite dichiarazioni di intenti (non a caso debitamente siglate, a ribadire l'autorialità dei testi) per una Biennale che, in quanto enciclopedica, ha scelto di essere ecumenica, didattica e, appunto, didascalica.

Libro
La parola scritta ha attraversato tutto il Palazzo enciclopedico della 55. Biennale, a partire dal Red Book di Jung, posto all'inizio del percorso, fino agli Scrapbooks di Shinro Ohtake o ai Franz Kafka, Diarios II, 1914-1923 di José Antonio Suárez Londoño. Un atto dovuto, per una rassegna che si è imposta la forma dell'enciclopedia come matrice, e tuttavia una celebrazione non priva di ambiguità, nel momento in cui il libro è visto come “oggetto ormai a rischio di estinzione” (sic dixit Gioni) e dunque da museificare.

Ossessioni
Il Palazzo Enciclopedico è una mostra sulle ossessioni e sul potere trasformativo dell'immaginazione”, ha scritto il curatore nel testo introduttivo alla Biennale 55. Le ossessioni sono state il leitmotiv della rassegna, la parola ricorrente in molte delle didascalie con cui Gioni e i suoi collaboratori hanno tracciato il percorso della mostra. In una esposizione sostanzialmente inclusiva, dove “le distinzioni tra professionisti e dilettanti si sfumano”, dove tutti sono (siamo) descritti come “conduttori di immagini”, l'eccentricità, se non la patologia, è diventata il tratto distintivo dell'artista.
E catalogo di ossessioni potrebbe intitolarsi la sala di Fischli e Weiss, in cui si espone la raccolta di circa cento cinquanta piccole sculture in argilla cruda dal titolo Plötzlich diese Übersicht (Allʼimprovviso una rivelazione), in cui i due artisti mettono in figure decine di paradossi, giochi linguistici e situazioni -limite, scatenando nellʼosservatore la risata sommessa, la sorpresa ferita e sconsolata, o la soddisfazione di avere risolto un piccolo tragico rebus.

Soldi
Le monetine piovevano dall'alto nel padiglione russo, all'interno del quale Vadim Zakharov, reinterpretando il mito di Danae alla luce degli effetti che il capitalismo ha avuto nel suo paese (solo nel suo paese?), aveva ideato un meccanismo complesso, implacabile e ottuso, che vedeva contrapposti uomini e donne, gli uni passivi servitori di questo ingranaggio, le altre attive goditrici di questo flusso dorato. Lontani, entrambi, dalla Grecia livida e malinconica dei tre video di Stefanos Tsivopoulos, dove le banconote-origami di un'anziana signora svaporata facevano da contrappunto alla perlustrazione metodica dei cassonetti da parte di un giovane incappucciato. A tutti e due, però, pareva dare risposta il gigantesco William Morris emerso dalle acque come Poseidone per affondare lo yacht di Abramovic, disegnato su una parete del padiglione britannico da Jeremy Deller (English Magic). Solo l'ironia ci salverà?

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