venerdì 16 agosto 2013

Marc Quinn, o l'illusione dell'integrità

Marc Quinn, Breath (2012)
Marc Quinn, Breath (2012)
Tiziana Migliore
Quando si parla di Young British Artists (YBAs), vengono in mente Damien Hirst, Tracey Emin e Jenny Saville. Ma al gruppo apparteneva un artista che ne sviluppa l’estetica repellente, fondata sulle pratiche del disgusto, in un percorso audace e privo di sensazionalismi. È Marc Quinn.
A Venezia, negli spazi della Fondazione Cini (San Giorgio Maggiore), è in corso una sua personale con più di 50 opere, molte delle quali inedite. Quinn ha cominciato indagando l’alchimia delle sostanze: calchi-ritratto in sangue congelato (Self, 1991), nigredo che si esterna nel coagulo del tessuto connettivo. Oggi rende i limiti della scienza soglie dell’arte ed esplora il senso comune sui processi vitali. Corporeità abominevoli, “difettose” o ibride, questionano i concetti di “normalità” nel sociale e di “canone” nelle arti.
L’allestimento della mostra, a cura di Germano Celant, enfatizza le operazioni di Quinn. Chi prende il battello in direzione di San Giorgio scorge a distanza, accanto alla basilica palladiana, la gigantesca statua di una donna gravida seduta, monca delle braccia e con le gambe corte. Breath (2012), 11 metri di altezza, è la variante in poliestere indaco della Alison Lapper Pregnant (2005), già installata da Quinn a Trafalgar Square. Una bambola gonfiabile, affetta da vene varicose, sostituisce la scultura di marmo di Carrara che ritraeva l’artista simbolo delle Paraolimpiadi del 2012. Si smorzano i toni dell’idealizzazione: Alison Lapper, fuori dal contesto dei “Giochi”, è il simulacro di un giudizio fragile, in balia del vento. Normalmente l’opinione pubblica non abilita la malformazione.
Figuriamoci l’accademia, propensa ad accogliere il deforme, dopo Francis Bacon (Deleuze), e l’informe (Bataille; Krauss), ma restia ad assumere positivamente l’anomalia anatomica.
In mostra tre statue di marmo bianco a grandezza naturale sono atleti con handicap, vincitori di medaglie: Stuart Penn (2000), pugile con un braccio e una gamba amputati; Peter Hull (1999), nuotatore senza arti; Jamie Gillespie (1999), corridore zoppo.
Altre, in posa, presentano artisti o professionisti disabili: Catherine Long (2000), Tom Yendell (2000), Helen Smith (2000), Alexandra Westmoquette (2000). Invece Chelsea Charms (2010), con il seno sproporzionato, e Thomas Beatie (2009), l’uomo incinta, appaiono un prodotto osceno della medicina. Quinn li modella tutti in uno stile neoclassico alla Canova, sfruttando la retorica dell’anacronismo per schernire una nozione superata di bellezza. Perché escluderli, se la cultura ammette, da sempre, l’atipicità di esemplari mutili come la Venere di Milo?
Alla base di queste ricerche c’è l’esigenza di mappare territori della vita, secondo la definizione che la scienza dà di “vita”: movimento, dai microrganismi ai massimi sistemi. L’intatto è un’illusione. Impressionano gli oli su tela della serie The Eye of History (2012-13). Sono dipinti di formato rotondo, del diametro di 280 cm, che sovrappongono, per contrasto cromatico, la raffigurazione del globo oculare con il fermo immagine di fasi diacroniche del pianeta Terra, da punti diversi e preconizzandone la fine: Antipodes (2012), Bering Strait (2012), End of the Ice Age (2013), Equatorial Perspective (2013), The Americas (2013), Solid, Liquid, Gas (Slow Dissolve) (2013).
Ma la legge del mutamento compromette soprattutto l’integrità del corpo, struttura e involucro. A livello dei ritmi si stabiliscono analogie fra la pittura di fette di carne animale e le screziature del marmo (Flesh Painting, On Marble, 2012) o la calligrafia (Flesh Painting, on Calligraphy, 2012). Un sistema di pelle può variare la propria combinazione mereologica per tradurne altri. Così, in The Way of All Flesh (2013), la carne rossa cruda marmorizzata su cui si sdraia il corpo nudo di Lara Stone, incinta, diventa metonimia – il contenente per il contenuto – dei suoi vasi sanguigni, vene e arterie. Due facce dello stesso dispositivo, “rivoltanti”: informatori del fuori e del dentro, della tenuta e del flusso.
Servendosi dei nuovi metodi di visualizzazione scientifica, l’artista dà poi rilievo allo sviluppo prenatale umano. Nella discesa che conduce dallo squero dell’isola, ex cantiere navale, verso l’acqua, installa dieci monumentali sculture di marmo rosa carne (Evolution, 2005-07). I blocchi aspettualizzano feti di varie dimensioni, come esito dell’ingrandimento di ecografie e della loro trasferenza in pietra. Un grembo michelangiolesco che gradualmente si svuota, sprigionando creature formidabili.
L’intelligenza della natura ha un ultimo corrispettivo artistico in The Archaeology of Art (2013), un ciclo esposto sul molo di San Giorgio, in riva alla laguna. Si tratta di cinque colossali conchiglie di bronzo dorato, “stampate” ad alta definizione e fra le riproduzioni 3D più grandi al mondo. Sculture ottenute fornendo al computer il codice biologico che ha generato gli originali. È la prova dell’interdipendenza fra reale e virtuale: le dinamiche della fusis emergono oggi in simbiosi con il “sublime tecnologico”. Fatti o interpretazioni?
In questo caso Quinn mutua dalla natura non le morfologie, ma i funzionamenti. Il DNA digitale delle conchiglie – sculture-guscio miste di inorganico e organico – è un traguardo per pensare, retrospettivamente, come avvengono la gestazione e la decomposizione del vivente. L’arte li fa essere la propria “archeologia”. 

Questo articolo è uscito  lo scorso 30 luglio su Alfa più, il supplemento online della rivista Alfabeta2 con il titolo Contro l'intatto.

Nessun commento:

Posta un commento