martedì 30 marzo 2010

La scuola è una famiglia?

Credo nella scuola come luogo di crescita, educazione, cultura.
Nonostante tutto ci credo ancora. Il titolo che ho dato a questo post è, ovviamente, pretestuoso.
Certo la scuola non è la famiglia nel senso stretto della parola, ma è una comunità dove nascono relazioni e dinamiche anche affettive e in ogni caso molto strette. Nel bene e nel male.
Questa premessa per segnalare il libro che vedete qui nella foto. È scritto da Giuseppe Caliceti, un maestro di scuola elementare che da 20 anni insegna a Reggio Emilia, un tempo fulcro all'avanguardia per i metodi di educazione scolastica. Il libro si intitola Italiani, per esempio. L'Italia vista dai bambini immigrati. (Feltrinelli, 237 pagg, 14 euro).
Alla presentazione di ieri a Roma, eravamo 7 persone....e non è solo perché c'erano i risultati delle elezioni...Io avevo già segnalato il suo libro nel gennaio scorso, sul mio blog rilanciandolo su fb. Nessun commento, nessuna attenzione. È uscito sul Venerdì, con strillo in copertina, a  fine febbraio. Per il resto recensioni scarse e fuggevoli.
Per me è un libro di grande efficacia per comprendere la realtà-realtà del nostro Paese, uno strumento per concentrare l'attenzione su quello che davvero accade, distogliendo lo sguardo da quanto ogni giorno i media ci invitano invece a guardare/ascoltare.
Non è certamente un libro da premio strega, perché non è un romanzo, non è un saggio e non è scritto per diventare un best seller o una chicca letteraria. Ma secondo me, vale molto di più.
È un suggerimento di lettura anche se mi rendo conto non è strettamente in tema con il ciclo di quest'anno: chi vuole può leggerlo e magari potremmo commentarlo sul blog. Tra l'altro l'autore è disponibile a presentare il suo lavoro in giro per le scuole: alla presenza anche delle famiglie. Se qualcuno di voi ritiene interessante il libro si potrebbe favorire questa iniziativa.
Grazie per aver prestato attenzione a questo mio - mi rendo conto - accorato intervento. (e pensate che non ho nemmeno figli...) :-)

venerdì 12 marzo 2010

Prossima lettura?

Desidero proporre come prossimo libro sui rapporti familiari la prima prova narrativa di un giovane autore portoghese oramai noto anche in Italia, José Luìs (l'accento sulla "i" è acuto, ma non so come si fa, chiedo scusa)Peixoto.
E' un piccolo libro, sessanta pagine circa, una lunga lettera d'amore al proprio padre, morto per la solita nota crudele malattia, una testimonianza intensa, profondamente lirica, di un rapporto, mi viene da dire "fondativo".
Il titolo italiano del libro Questa terra ora cruele, un bel titolo, si allontana dalla carica emotiva del titolo originale Morreste-me, come dire Mi sei andato a morire, Sei morto a me, qualcosa del genere, difficile da rendere.
Pubblicato in Italia nel 2005,edizione La Nuova Frontiera

giovedì 11 marzo 2010

Ancora un altro pensiero bianco

Sarò contenta di tacere, mamma, e di sentirti parlare,
mi hai spinto a dire troppo e sono fiacchi i miei pensieri,
li tengo un po' per me, e quando sono grande,
risplenderanno come biancoverme splende sotto verde masso.
(versione a quattro mani, maria teresa carbone e franca rovigatti)

martedì 9 marzo 2010

Ancora un "Pensiero bianco"

Sarò contenta di tacere, Madre, e di ascoltarti parlare / mi hai spinta a dire troppo, e sono fiacchi i miei pensieri / li conservo un po' per me, e quando sarò grande / splenderanno come splende bianco verme sotto verde masso.

Pensiero bianco, una reinterpretazione visuale





di Stevie Smith, Fiorenza, Carla.

lunedì 8 marzo 2010

Pensiero bianco, un laboratorio

I shall be glad to be silent, Mother, and hear you speak, / You encouraged me to tell too much, and my thoughts are weak, / I shall keep them to myself for a time, and when I am older / They will shine as a white worm shines under a green boulder. (Stevie Smith)
Già tradotti da Gilberto Sacerdoti (nella raccolta Il cinico bebè e altre poesie), i quattro versi di Pensiero bianco sono stati il primo laboratorio del nostro gruppo di poesia.
Ecco le varie versioni (sperando di non dimenticarne nessuna):
1
Sarò felice di star zitta, mamma, e di sentirti parlare
mi hai spronato a dir troppo, e i miei pensieri sono fiacchi,
li terrò per me un tempo, e quando sarò grande
risplenderanno come splende un verme bianco sotto un verde masso.
2
Sarò contenta di star zitta, mamma, e di sentirti parlare
m'hai spronato a dire troppo, e i miei pensieri sono fiacchi,
li terrò per me un tempo, e quando sarò grande
risplenderanno come splende un verme bianco sotto un masso verde.
3
Sarò contenta di star zitta, mamma, e di sentirti parlare,
mi hai spronato a dir troppo, e i miei pensieri sono fiacchi,
li terrò per me un tempo, e quando sarò cresciuta
risplenderanno come un bianco verme splende sotto una verde roccia.
4
Sarò felice di star zitta, mamma, e di sentirti parlare
mi hai spronato a dir troppo, e i miei pensieri sono fiacchi,
li terrò per me un poco, e quando sarò grande
risplenderanno come splende un verme bianco sotto un verde masso.
5
Sarò contenta di star zitta, mamma, e di sentirti parlare
mi hai spronato a dir troppo, e i miei pensieri sono fiacchi,
li terrò per me intanto, e quando sarò grande
risplenderanno come un biancoverme splende sotto un masso verde.

venerdì 5 marzo 2010

I quattrocento colpi di François Truffaut

A proposito dei Quattrocento colpi, ecco la recensione di Jacques Rivette, uscita nel 1959 sui "Cahiers du Cinéma" e inserita ora in un volume, La Nouvelle Vague (minimum fax 2009), da raccomandare ai cinéphiles monteverdini e non.

Jacques Rivette
Les Mistons era bello, I quattrocento colpi è meglio. Da un film all’altro, il nostro amico François fa il salto decisivo, il grande balzo verso la maturità. Come possiamo vedere non perde tempo.
Con I quattrocento colpi, rientriamo nella nostra infanzia come dentro una casa abbandonata dai tempi della guerra. La nostra infanzia, anche se si tratta in primo luogo dell’infanzia di FT: le conseguenze di una bugia stupida, la fuga fallita, l’umiliazione, la rivelazione dell’ingiustizia, no, non c’è un’infanzia “protetta”. Parlando di sé sembra che parli anche di noi: è il segno della verità, e la ricompensa del vero classicismo, che sa limitarsi al proprio oggetto, ma che lo vede bruscamente occupare tutti i campi del possibile.
L’autobiografia non è, per i motivi che si possono facilmente immaginare, un genere molto praticato al cinema; ma non è tanto questo che deve stupirci, quanto la serenità, il ritegno, l’uguaglianza di voci con i quali viene evocato in questo caso un passato parallelo al proprio. Il FT che ho incontrato con Jean-Luc Godard, alla fine del ’49, al Parnasse, da Froeschel, al Minotaure, aveva già fatto l’apprendistato dei Quattrocento colpi; insomma, parlavamo più di cinema, dei film americani di un Bogart che davano al Moulin de la Chanson, che di noi stessi, o solo per allusioni: bastava così. O all’improvviso una foto lo rivelava tre anni prima, al tirassegno, abbagliato, livido, con Hossein in un cantuccio, e contro la sua spalla Robert Lachenay illuminato; ecco le tre file precise di una classe fossilizzata.
Questo miscuglio di ombre e di bagliori finiva per somigliare a dei veri ricordi, a una vera memoria. Adesso ne sono quasi sicuro; poiché sullo schermo ho riconosciuto tutto, ho ritrovato tutto. La madeleine restituiva a Proust solo la sua infanzia; ma con una buccia di banana, trasformata in stella marina sul fondo del piatto, FT fa molto di più; e tutti i tempi vengono ritrovati in un colpo solo, il mio, il tuo, il vostro, un solo tempo nella luce che non trovo l’aggettivo per qualificare, inqualificabile, dell’infanzia. Che sia chiaro: questo film è personale, autobiografico, ma mai impudico. Niente che tradisca esibizionismo; anche la prigione è bella, ma di un’altra bellezza: bella come Bombard che prende di peso la sua cinepresa Paillard per filmare in mezzo all’Atlantico il proprio viso gonfio e coperto di barba. La forza di FT è di non parlare mai direttamente di se stesso, ma di dedicarsi pazientemente a un altro ragazzino, che gli assomiglia forse come un fratello, ma un fratello oggettivo, e di sottomettersi a lui, e ricostruire umilmente, a partire da un’esperienza personale, una realtà ugualmente oggettiva, che filma in seguito con il rispetto più assoluto. Un metodo di questo tipo al cinema ha un nome molto bello (e non importa se FT stesso non lo conosce), si chiama Flaherty. E la prova del nove della verità di questo metodo, e della verità e basta del film, è l’ammirevole scena della psicologa – impossibile, diciamolo pure di sfuggita, nelle vetuste condizioni di produzione che ci vorrebbero costringere a mantenere a tutti i costi – in cui la più totale improvvisazione conferma la ricostruzione più rigorosa, in cui la confessione verifica l’invenzione. Dialoghi e messa in scena, al termine di un’ascesa discreta, sfociano infine nel vero della diretta; il cinema qui reinventa la televisione e questa, a sua volta, lo consacra
cinema; c’è posto ormai solo per le tre stupende inquadrature finali, inquadrature della durata pura, della perfetta liberazione. Tutto il film cresce verso questo istante e si priva poco a poco del tempo per raggiungere la durata: l’idea di lunghezza e brevità, che assilla tanto FT, sembra non avere quasi più senso per lui; o forse, al contrario, un’ossessione tale per la lunghezza, i tempi morti, una tale abbondanza di tagli, di urti, di rotture, erano necessari prima per venire infine a capo del vecchio tempo dei cronometri e ritrovare il tempo reale, quello del giubilo mozartiano (che Bresson ha cercato troppo per poterlo raggiungere). Perché questo è un film come ce ne sono pochi – per quanto molti ci provino più o meno abilmente, a volte troppo abilmente – con un punto di partenza e un punto d’arrivo, e tra i due tutta una distanza percorsa, lunga come quella che separa la Irene Girard alla cena del suo ricevimento dalla Ingrid Bergman alla finestra della cella in Europa ’51; un punto di partenza che prende il tempo già in cammino, ancora costruito e calcolato al minuto, ma già segretamente ferito nella sua stessa fretta e nel suo meccanismo, un punto d’arrivo che non è la conclusione più o meno arbitraria di qualche intreccio più o meno tenuto insieme, ma un tratto piano di strada in cui si riprende fiato, un respiro umano, prima di rituffarsi nel mondo del reale, il cui il senso è stato riconquistato.
Basta con questo tono, mi dispiace parlare con un tono così pomposo di un film così privo di retorica, perché I quattrocento colpi è anche il trionfo della semplicità. Non della povertà o dell’assenza di invenzioni, tutto il contrario; ma per chi si piazza subito al centro del cerchio non c’è bisogno di cercarne disperatamente la quadratura. La cosa più preziosa al cinema, e la più fragile, è anche quella che sparisce per prima di giorno in giorno sotto il regno degli ingegnosi: una certa purezza dello sguardo, un’innocenza della macchina da presa che in questo film è come se non fossero mai state perdute. Forse basta credere che le cose siano quelle che sono per vederle semplicemente sullo schermo così come sono; e una tale convinzione si sarà persa altrove? Ma quest’occhio e questo pensiero che si aprono al centro delle cose rappresentano lo stato di grazia del cineasta: essere per prima cosa all’interno del cinema, essere padrone del centro di un campo i cui confini possono poi estendersi all’infinito: e tutto ciò si chiama Renoir.
Si potrebbe ancora insistere sulla straordinaria tenerezza con la quale FT parla della crudeltà, che può essere paragonata solo alla straordinaria dolcezza con la quale Franju parla della follia; in entrambi i casi dall’uso continuo della litote nasce una forza quasi insopportabile, e il rifiuto dell’eloquenza, della violenza, della spiegazione, danno a ogni immagine un battito, un fremito interno che si impongono bruscamente in certi brevi lampi, lucenti come una lama. Si potrebbe parlare, come si deve, di Vigo, o di Rossellini, o più giustamente ancora di Les Mistons o di Une visite. Tutti questi rimandi alla fin fine non vogliono dire un granché, e bisogna sbrigarsi a farli finché si è in tempo. Volevo dire soltanto, il più semplicemente possibile, che c’è adesso tra noi non più un debuttante dotato e promettente, ma un vero cineasta francese, che è all’altezza dei più grandi, e che si chiama François Truffaut.
(Apparso sul numero 95 dei «Cahiers du cinéma», maggio 1959)
(Traduzione di Andreina Lombardi Bom)
© minimum fax – tutti i diritti riservati

lunedì 1 marzo 2010

Pro Iza?

L’incontro di sabato 27 su La ballata di Iza è stato interessante e divertente a un tempo per l’emergere, tra coloro (non moltissimi) che si sono espressi, di due partiti: il partito pro Iza, e quello anti Iza. La passione che ho sentito nelle parole di chi è intervenuto mi ha fatto pensare che deve esserci stato un meccanismo molto forte di identificazione (o di proiezione) con il personaggio protagonista: altri personaggi sono rilevanti, ma tutto sommato direi che si tratta di comprimari. Iza tra tutti giganteggia. Il formarsi di questi due partiti, la passione, l’identificazione, ecc. sembrano il risultato della abilità della scrittrice nel costruire il suo personaggio, nel connotarlo con una infinità di gesti significanti, e nel raffrontarlo con gli altri. Ecco, a me è improvvisamente sembrato singolare che si prendesse parte per lei o contro di lei, come se dovessimo emettere una sentenza, condannarla o salvarla, e come se non ci si rendesse conto che invece si trattava di prendere in esame il punto di vista della scrittrice rispetto al suo personaggio, le virtù e i vizi che le ha assegnato, attribuito. Mi è quasi sembrato di far parte del pubblico che, alla prima proiezione del primo film della storia, alla vista del treno inquadrato in moto verso la macchina da presa, è scappato urlando. Non dico questo tirandomene fuori, anzi, ho fatto parte anch’io di uno dei due partiti, sia pure tiepidamente. Ma nell’ascoltare gli altri ho realizzato di essere caduta nella trappola, che eravamo quasi tutti (almeno chi ha parlato) caduti nella trappola. Al momento della riunione del gruppo avevo terminato di leggere il libro da circa dieci giorni, avevo avuto un po’ di tempo per digerirlo, per lasciare sedimentare le impressioni che arrivavano dalla lettura quotidiana. Se all’inizio trovavo che Magda volesse darci la prova provata della legge sulla impenetrabilità dei corpi, così forte era stata la sensazione dell’incapacità di madre e figlia di entrare in sintonia, di ascoltarsi, a libro terminato Iza mi è apparsa troppo algida, troppo razionale, troppo sorda, troppo rigida, troppo presuntuosa nelle sue decisioni, convinta di scegliere sempre il meglio, o addirittura l’unica via percorribile, troppo perfetta, troppo ordinata, troppo. Ci sono pochi chiaroscuri nel suo ritratto. Possibile? Di lei Magda fa dire a Lidia: “Povera infelice, crede che il passato dei vecchi sia ostile, non si è accorta che è invece la misura per spiegare e capire il presente”; e sempre alla stessa Lidia, in riferimento alla “vecchia” che non nomina la figlia nemmeno in punto di morte: “ Chissà che cosa le ha fatto. Eppure qualcosa le ha fatto laggiù a Budapest se sua madre s’è dimenticato il suo nome lungo lo stretto cammino che porta alla morte”. E ad Antal: “Quando ti ho visto la prima volta sembravi un piccolo soldato pronto a combattere, eri là in piedi vicino a tuo padre, il mendicante più prodigo della terra, pensai che tu fossi come lui….ma non ho mai conosciuto un essere più avaro di te, anche se sembri generosa, e non ho mai conosciuto nessuno più vile di te, anche se….” Per non dire della fuga dello scrittore Domokos, promesso sposo..... Ho pensato che Magda sia stata impietosa con Iza anche nel finale quando, allo strazio del suo urlo nella notte, dice – non ho sottomano il testo – “i morti non risposero”. E nel sottotesto temo di leggere: Ecco il tuo castigo, adesso soffri pure, te lo sei meritato, è stata punita la tua hybris! Perfino il titolo originale, tanto evocativo e misterioso, Pilatus, non faceva che ricordarmi la scelta di Magda di sottolineare un rifiuto d’assunzione di responsabilità .“Sono innocente” dice Iza sulle circostanze della morte della madre, del suo suicidio, “ho fatto tutto quel che dovevo, che potevo” (perdono, ma non ho il testo sotto mano), come Pilato appunto, mentre al contrario i due testimoni dell’accaduto, per nulla legati alla “vecchia”, sembrano sentirsi colpevoli, rammaricarsi, piangere. Ma perché - mi chiedevo - Magda è così severa con questa sua creatura? Severa e insofferente di fronte alle cadute, alle fragilità degli altri, così come lo è Iza? Per rispondermi ho ricordato l’intervento di Stella, forse Magda tratta male Iza perché tratta male sé stessa: è di sé che ci sta parlando, della sua ombra? Anche la mia è un’interpretazione, ho assunto che questo potrebbe forse essere il punto di vista della scrittrice che ho confidenzialmente chiamato Magda, perché la sua narrazione è entrata con prepotenza in casa mia chiedendo la mia amicizia, e mi sono lasciata sedurre. Ma non so se sia la verità. Solo la mia verità, le mie proiezioni, le mie identificazioni. Anche le frasi, che ho estrapolato perché hanno colpito la mia immaginazione, potrebbero essere affiancate da altrettante di tutt’altro segno, chissà. Mi piacerebbe ascoltare o leggere altre “verità”.

P.S. alcune citazioni sono puntuali, le avevo trascritte prima di restituire il libro alla biblioteca

Un incontro con Magda Szabó

È raro imbattersi in un personaggio costruito con tanta sapienza narrativa com'è quello di Emerenc, la protagonista del romanzo che la scrittrice ungherese Magda Szabó ha tessuto intorno alla donna che per vent'anni le è stata accanto in qualità di domestica, e finalmente di amica non dichiarata, ma stabilmente inserita in una quotidianità di cui era entrata a fare parte come una presenza scomoda, diventata presto irrinunciabile. La porta che dà il titolo al romanzo (tradotto da Bruno Ventavoli per Einaudi, pp. 251, Euro 17), quella che separa il mondo di Emerenc dal resto del circondario, torna negli incubi della voce narrante a segnare il confine tra un prima e un irrimediabile poi, tra il tempo in cui l'essere esclusa, come tutti gli altri, dai segreti di Emerenc la metteva al riparo dal nuocerle, e il giorno in cui la vecchia domestica le concesse di varcare la soglia di quella che gli altri chiamavano la Città proibita, e con questo le mise in mano la chiave per distruggere la sua esistenza. Per quanto impenetrabile, Emerenc non lo era stata abbastanza: lei che non si fidava di nessuno pur godendo della fiducia di tutti. Chiunque vorrebbe avere intorno a sé una donna come Emerenc, personaggio dotato di una tempra invidiabile che da sola regge l'asse intorno a cui si annoda via via la trama di un libro lentamente costruito sul contrasto tra due visioni del mondo apparentemente inconciliabili: da una parte quella dei coniugi che hanno assunto la domestica per potersi dedicare indisturbati alla loro scrittura, e che assecondano la comune attribuzione di valore a fatti e oggetti inessenziali; dall'altra quella di Emerenc che non si concede un attimo di inoperosità, disprezza il lavoro intellettuale, proietta i suoi ragionamenti, e la possibilità di accoglierli, indifferentemente sullo straccio con cui pulisce il pavimento, sui vicini, sugli animali che guadagna al suo affetto e sui ricordi potenti delle persone amate e via via scomparse.
Le descrizioni che tornano a lei per imbozzolarla nei fili di nuovi dettagli ne parlano come di una donna imperiosa, una sorta di valchiria sul cui capo anche il fazzoletto dimesso sembra un elmo guerriero. In quanto ex portinaia è una sorta di autorità pubblica, spetta a lei decidere se la coppia che l'ha richiesta come domestica sia sufficientemente degna e quale debba essere l'ammontare del suo onorario: il valore del lavoro che dispensa è chiaro innanzi tutto a lei stessa, che perciò declina i complimenti come inutili sottolineature e non accetta mance, né regali, però si concede di elargirne senza parsimonia a chi ottiene la sua stima.
Come colei che l'ha consegnata alla storia, una scrittrice che ha oggi ottantotto anni e sui cui libri tutti gli studenti ungheresi sono cresciuti, Emerenc è un personaggio di altri tempi e esemplifica una opzione narrativa sempre meno frequentemente scelta: quella di puntellare l'impalcatura del romanzo su una sola presenza, mentre l'intreccio agisce da sfondo il cui compito principale è quello di condurre, attraverso una progressione di curvature morbide, alla messa a fuoco sempre più netta del carattere protagonista.
«È una donna che ho amato molto ma di cui avevo anche paura - racconta Magda Szabó, disinvoltamente approdata da Budapest alla bellissima sede romana dell'Accademia di Ungheria.» Si offre di parlare latino, oppure inglese o francese sebbene poi preferisca ricorrere alla traduzione dall'ungherese, è orgogliosa dei suoi successi, persino vanitosa nei suoi ottantotto anni. Nella sua lunga vita ha attraversato una successione di tappe che hanno più volte segnato la storia, non solo del suo paese: è nata mentre l'impero asburgico crollava, aveva due anni quando i Soviet di Bela Kun tentavano il loro breve esperimento rivoluzionario, poi la reazione del nazionalista Miklos Horthy si tradusse in una sistematica persecuzione degli intellettuali, Budapest venne occupata dai Rumeni, l'anno dopo con la Pace di Trianon il territorio dell'Ungheria venne ridotto di un terzo, e l'economia crollò; ma il peggio doveva arrivare e Magda Szabó sussulta non appena il discorso sfiora gli anni `50. Fa fatica persino a nominarli: quando le si chiede in quale contesto ha ambientato il suo romanzo risponde con una perifrasi: «Emerenc è morta nell'84, l'intreccio che ho raccontato si svolge nei tre decenni precedenti, il periodo più difficile della storia ungherese. Non mi feci convincere a entrare nel partito, e per questo persi il lavoro. Ero stata il punto di riferimento del ministero della cultura per quel che riguarda il cinema, mentre mio marito lo era per gli spettacoli televisivi... questo mio matrimonio è stato un miracolo, ma non poteva prolungarsi all'infinito, ho perso mio marito ventidue anni fa. Me lo aveva predetto una veggente dalla quale andai quando ero ancora una ragazzina, indovinò tutto, anche che sarei via via approdata al successo. Ci andai insieme alla mia sorellina acquisita, che mio padre raccolse alla frontiera dopo che i genitori furono ammazzati in uno dei tanti conflitti scoppiati in seguito allo spostamento delle frontiere ungheresi, dopo il trattato di Trianon». Le sue parole, la scelta degli aneddoti da ricordare, il rigore della sua educazione protestante, tutto rimanda a un tempo perduto che Magda Szabó preferisce lasciare sospeso: la Budapest nella quale la vecchia Emerenc si muove è un invidiabile precipitato di solidarietà, garanzie civili neppure lontanamente messe in discussione, piatti dell'amicizia che vanno e vengono tra le mani dei vicini, insomma un modello di quella che dovrebbe essere una organizzazione sociale di impronta marxista; ma Magda Szabó - che sembra averne registrato solo le perversioni - non vuole neppure sentire nominare l'argomento: «è difficile ricostruire l'atmosfera di un paese in mano ai sovietici, si erano impadroniti delle nostre case e si accanivano in particolare contro chiunque coltivasse un pensiero religioso. Io portavo i bambini a battezzare coperti in grandi ceste da fornaio, ma spesso mi fermavano e mi chiedevano come mai il mio pane piangesse; allora avevo davvero paura. Il partito comunista che abbiamo ereditato dall'Unione sovietica non è paragonabile a quelli occidentali, a me ha dato solo motivi di sofferenza.» Eppure, una persona come Emerenc, sola al mondo dopo che i suoi affetti sono drammaticamente scomparsi, in una società come la nostra avrebbe la vita raggelata, mentre nella Budapest descritta dalla Szabó gode del conforto di tutti nonostante le sue spigolature siano, a volte, dure da tollerare. Alla notizia che una amica si è suicidata, ricorda quanto spesso si lamentasse della sua solitudine e commenta: «Adesso non è più sola, ha i vermi che le tengono compagnia». Non è cinismo, il suo, è realistica saggezza. Nel libro si dice che la vecchia, tanto bisbetica quanto preziosa, era capace di «suscitare i sentimenti più nobili e i più meschini», e in effetti tutta la storia è un succedersi di litigi e riappacificazioni, moti di ira e di dolcezza: «Quando arrivò - ricorda Magda Szabó - somigliava a una nobile creatura selvatica, si lamentava di essere capitata nella casa di due nullafacenti, si chiedeva cosa contemplasse il mio sguardo che vagava fuori dalla finestra quando non picchiavo con le dita sulla tastiera, disprezzava il fatto che non avessi figli: per me era stata una scelta, non volevo mettere al mondo degli schiavi, ma Emerenc pensava che avrei dovuto vergognarmene.»
Il lavoro al quale Magda Szabò si sta ora dedicando è una sua personale riscrittura dell'Eneide: «mi sono messa in testa di completare i versi che Virgilio ha lasciato incompiuti, facendo morire Enea all'inizio della narrazione, e consegnando il protagonismo a un personaggio femminile». È passato all'incirca mezzo secolo da quando Herman Hesse ricevette clandestinamente un romanzo di Magda Szabò che aveva varcato le frontiere grazie a una amica comune: «Sì, il libro si intitolava L'affresco e aveva per protagonista una giovane donna destinata a diventare pittrice, in fuga da una famiglia protestante con la quale era in contrasto. In Ungheria c'era bisogno di fare conoscere i propri scrittori all'estero, ma la casa editrice Corvina, che pubblicava i miei libri, non osava proporre altro che narrativa per ragazzi. Poi, per fortuna, capitai nelle mani di Hesse, che segnalò anche gli altri miei libri perché venissero tradotti. E da allora vissi meno nascosta».
Francesca Borrelli, "il "manifesto", 14 aprile 2005